Sul sentiero di Pitagora verso Bova
Nemmeno questa volta sono riuscito ad approdare a Bova, nel cuore della Calabria grecanica, per visitare la vigna dei fratelli Traclò a Bricha, quota 700 metri, tra l’Aspromonte e lo Ionio, dove producono quest’unico vino IGT Palizzi Rosso denominato Lanò in rispetto del piccolo palmento attiguo alla vigna dove si pigiano le uve come si è sempre fatto per millenni.
Neppure un ettaro di vigna ad alberello con una storia secolare alle spalle documentata da codici bizantini; una vigna unica con uve promiscue a bacca nera quali la Lacrima piccola di Bova, il Nerello Calabrese, il Castiglione, la Nocellara e uve a bacca bianca come il Guardavalle o la Tundhulidda.
Questa che ho bevuto è una bottiglia di Lanò 2013 omaggiata da Cataldo Calabretta, ed è la seconda annata dei fratelli Traclò. Qualche anno fa a Saracena nell’ambito della bellissima manifestazione sul vino avevo presentato l’annata 2015 di Lanò sempre per intercessione di Cataldo.
Ho chiuso gli occhi cercando di limitare al minimo i condizionamenti emotivi, le smaccate suggestioni poetiche. Ho centellinato dal bicchiere con lentezza sacrale nell’intento quasi mistico di assorbire quanta più aderenza alla verità dei fatti da un’uva tramutata in vino senza troppi ghirigori cervellotici né manipolazioni specialistiche o sovrastrutture enologiche. Un’uva spremuta cioè direttamente in vigna nel lanò, nel palmento appunto dal nome greco-calabro di matrice dorica, come si è sempre fatto il vino fin dai tempi pre-omerici.
Vino di un’energia terrestre immediata. Vino dalla possente tridimensionalità ionica che traduce condizioni climatiche d’alta montagna mitigate dalla brezza marina e dal sole orientale della Magna Grecia. Dissetante già solo all’olfatto. Balsamico, salmastro, succoso in gola, sanguigno. Un condensato felice di macchia mediterranea, elicriso, liquirizia, resina appenninica, tabacco da pipa.
Non sono ancora mai stato a Bova eppure più sorseggiavo questo vino dei fratelli Traclò, più mi sentivo di appartenere intimamente a Bova, di essere incamminato lungo quei sentieri mediterranei che tracciano i punti cardinali di cui è costellata la vera sostanza del mondo. I sentieri dell’Odissea che sempre allontanano eppure riportano sempre a Bova per restarci e per sfuggire a un tempo, tenendosi quanto mai lontani dalle grandi strade, affollate d’esseri
umani bercianti perciò vuote di sostanza, che invece conducono soltanto verso il nulla del grigiore e dell’ovvietà.
“Abbandona le grandi strade, prendi i sentieri”
è stato proprio questo difatti l’insegnamento universale ancora validissimo dopo millenni, divulgato da Pitagora di Samo (tra il 580 a.C. e il 570 a.C. – Metaponto, 495 a.C. circa) matematico, taumaturgo, astronomo, scienziato, politico e fondatore a Crotone di una delle più importanti scuole di pensiero dell’umanità: la Scuola pitagorica.
Non sono ancora mai andato ma andrò presto a Bova, avventurandomi lungo quei sentieri non solo dell’immaginazione organolettica ma della volontà carnale d’avventurarsi con semplicità, senso dell’ignoto e spirito d’adattamento. Andrò a Bova entro l’inverno prossimo anche per mangiare il musulupu e per far visita al Museo della Lingua Greco-Calabra “Gerhard Rohlfs” dedicato al grande linguista tedesco che ha ipotizzato l’origine arcaica del greco parlato nella Bovesìa, assimilabile al dialetto dorico cantato dagli Dei dagli Eroi e dagli Uomini di Omero.