Armonia dei contrasti. A cena da Luigi Lepore
La Calabria, terra di contrasti irrisolvibili, non è una meta particolarmente frequentata dagli invasati dell’alta cucina e questo non perché sia carente sul piano delle materie prime o delle prelibatezze gastronomiche di cui anzi abbonda all’infinito, ma forse perché sconta una dura eredità secolare correlata alla miseria pre e post-bellica, all’emigrazione di popolazioni, all’isolamento delle vie di comunicazione impervie. Contrasti insolubili dicevo che se da una parte hanno pregiudicato una certa impostazione moderna votata al cosiddetto progresso di luoghi e genti, dall’altra hanno preservato l’integrità culturale di intere comunità le quali, e menomale, non si sono fatte irretire né banalizzare né appiattire dall’opera di gentrificazione globale che tende ad omologare uomini, cose, linguaggi, paesaggi in un grigiore sovranazionale talmente squallido, brutalizzante e pervasivo a cui è quasi impossibile sottrarsi, tanto nelle metropoli quanto nei paesini più sperduti.
A Lamezia Terme (Nicastro) c’è Luigi Lepore nel cui ristorante custodisce la fiammella di una passione culinaria febbricitante che accomuna a sé creazione tecnica e tradizione popolare intendendo la cucina quale arte ovvero scienza ed espressione di cultura materiale tra le più immediate e universali poiché collegata intimamente all’istinto primordiale di soddisfare la fame, una fame non solo dello stomaco ma soprattutto del cervello come è ben illustrato con schietta trasparenza intellettuale dagli ingredienti nei piatti elaborati dalle mani libere di Lepore.
È una mano felice quella di Luigi Lepore. Sono mani libere di esprimersi le sue. Mani pensanti che aderiscono a una visione tecnicamente ben espressa nel ritmo e nella tonalità dei sapori, nell’accostamento cartesiano degli ingredienti chiari e distinti mai mescolati a caso, nella sequenza timbrica delle sensazioni gustative. Ho molto apprezzato il rimando continuo e mai stucchevole alla trama agrumata dei piatti. La scansione progressiva dall’amaro all’affumicato all’agre al caramellato al piccante all’umami non è mai peregrina o fine a se stessa ma aderisce con consapevolezza e concretezza sottili ad una volontà precisa che riflette un radicamento alle tradizioni culinarie della vecchia Calabria riattualizzate in una chiave contemporanea con i piedi ben piantati per terra però e le mani coscienti, le mani impastate con cognizione di causa dentro le matrici scivolose delle materie prime.
Splendido lo stridore di temperature del gelato di piselli e aspretto di arancia che una volta trasfuso in gola scalda il palato e il cuore nella memoria della minestra bollente di piselli e fave fatta in casa sul ricettario della nonna.
La lingua di manzo portata ad una consistenza di fibra pastosa tende quasi a nobilitarla più che a imborghesirla richiamata però subito alla sua origine di piatto plebeo dal pesto di menta e dal gusto campagnolo di cenere dell’olio di peperone alla brace.
I due tortelli, lo Yin e lo Yang del dolce e dell’acidulo, trasmettono la cifra segreta di un pensiero allargato dietro il menu – vedi il richiamo territoriale alla “stroncatura” o struncatura, pasta di recupero della cucina povera calabrese prodotta in origine con le crusche di scarto della molitura scrostate da terra – un pensiero generale oltre il menu che che va letto in filigrana nella sua interezza mai limitandosi ad una sola portata isolata in sé.
L’agnello da tagli diversi e cotture differenti è la sublimazione culinaria di una bestia dalla qualità elevatissima (macelleria ad Altamura di Michele Varvara “Fratelli di carne”), con le tre consistenze della melanzana quasi fossero la base del pascolo da cui si è nutrito l’agnello stesso.
Non plus ultra del menu il gelato alle foglie di fico, celebrazione dionisiaca dell’amarezza, suprema Eldorado per la rigenerazione della mente e del corpo. Acme dell’amaricante che resetta il palato, ripulisce le viscere, spurga le vene, fa vibrare il gargarozzo, avvampa gli organi genitali, inturgidisce l’intelletto.
Questo che segue è il menu degustazione a mano libera di Luigi Lepore provato la sera di giovedì 13 agosto scorso, accompagnato nel bicchiere da un Riesling renano 2018 dell’Ungheria di István Becze da macerazione sulle bucce, affinato per 10 mesi in anfore di terracotta sulle sue fecce fini. Becze che ha cominciato ad imbottigliare nel 2012 in biodinamica oltre al Riesling produce Furmint, Hárslevelű, Kéknyelű, Pinot Noir, Kék bakator, Chenin Blanc. Mi è parso un vino gustoso, persistente soprattutto da freddo, di gradazione alcolica centrata in buon equilibrio tra materia sapida, fluidità di beva e grassezza minerale del frutto originata dai suoli vulcanici dell’Hegymagas sul lago Balaton nella regione dell’Hajdú-Bihar.
Stuzzichini di benvenuto
Panino fritto con bufala, alice e limone, cialda al miele, crema di oliva verde, finocchietto e peperoncino dolce
Entrée
Gelato di piselli e aspretto di arancia
Antipasto
Lingua di manzo, pesto di menta, crema di peperone, ribes rosso e olio di peperone alla brace Primi
Tortelli di cipolla, ristretto di cipolla, burro affumicato, scorza d’arancia, gel di aceto e pecorino. Ricordo di una “stroncatura”
Secondi
Baccalà, prezzemolo e limone.
Agnello, crema di latte di capra, melanzana, la sua buccia e melanzana marinata
Pre dessert
Gelato di foglia di fico e uva fragola
Dessert
Limone Totale, cremoso di limone, zest di limone, limone macerato e menta con cioccolato caramellato e ganache di cioccolato bianco
Piccola pasticceria
Tartelletta con caramello, passion fruit e origano. Cioccolatino al caffè con anice. Scrunch al cioccolato, mais e popcorn caramellato. Sfera di cioccolato bianco con 100% liquirizia e polvere di alloro