Nella valle oscura di Internet
L’Adelphi è una casa editrice con i piedi ben saldi nella cultura libraria europea ed un catalogo editoriale enciclopedico d’impressionante profondità culturale. Titoli intrisi di vertiginose raffinatezze filosofiche radicati nella tradizione occidentale ed orientale del passato se non addirittura nell’eterno, non stridono con la curiosità onnivora dell’editore che ha sempre le antenne ritte pronte a captare le redditizie novità editoriali del momento assieme agli umori conoscitivi o alle esperienze liminari della contemporaneità, lo Zeitgeist come si diceva un tempo, al fine di leggere un presente incerto per comprendere, chissà, il futuro abissale.
Alcuni dei titoli che tentano di riordinare la complessità caotica del mondo ipertecnologico in cui viviamo, un mondo a quanto pare che sempre più subiamo invece di agirlo, sono La vita segreta di O’Hagan, Essere una macchina di O’Connel, Storie dal mondo nuovo di Rielli, Spillover di Quammen.
Ultimo questo La valle oscura di Anna Wiener a completare idealmente con gli altri titoli un mappamondo inquietante dell’attualità nell’epoca dei terrapiattisti. Intendiamoci, non è il Diario dell’anno della peste (1722) di Defoe, e delle trecento pagine di cui è composto almeno la metà potevamo farne tranquillamente a meno, chiacchiericcio insulso tanto per allungare il brodo anche se sospetto proprio quello stesso chiacchiericcio insulso sia rivelatorio, involontariamente, dello spirito dei tempi di cui sopra. Tutto sommato Uncanny valley, come suona il titolo originale, è un buon memoir, una cronaca piuttosto onesta della generazione millennials, quella che segue la generation X e i baby boomers, abbagliati dal feticcio dell’efficienza paranoica come valore fondativo, autosacrificati a sangue sull’altare dell’economia dell’attenzione. Una generazione totalmente condizionata dalla tecnologia digitale e dall’elettronica il cui scopo utopico è sì il miglioramento delle attività umane, l’ottimizzazione del lavoro e del tenore di vita ma che nella realtà si sta sempre più rivelando quale incubo distopico che monetizza brutalmente la privacy, schiavizza l’individuo, robotizza la psiche, controlla le vite altrui attraverso la biometrica e il biohacking, mercifica il tempo libero, distrugge l’attenzione del cervello attraverso l’uso all’apparenza giocoso (gamification) di app e social network, veri e propri strumenti di distrazione di massa asserviti dall’ossessione diffusa principale per il successo e per i soldi. Senza dimenticare che le origini oscure di Internet affondano le proprie radici nella ricerca della difesa e strategia militare sempre ravvivate dall’algoritmo implacabile: più guerra più business.
“(…) il tech che non era progresso ma soltanto business”
A rileggerlo già solo tra una decina di anni – che per gli schemi mentali della tecnologia equivalgono a ere geologiche – questo testo rimarrà forse come un documento epocale che trasfigura la stessa tristezza cosmica di film quali Blade Runner (1982), Matrix (1999) o Her (2013).
“Le piattaforme social erano pervase dall’intero spettro delle emozioni umane: un flusso ininterrotto di dolore, gioia, ansia, banalità”
Sono svariati i punti d’interesse del libro che testimonia in tempo reale la mutazione antropologica di una generazione fottuta dalla crescita a ogni costo, dagli algoritmi e dalla smartphonite – i millennials appunto – riprodotti in serie come polli da batteria dall’industria Tech nella “terra promessa per i lavoratori della conoscenza del nuovo milennio”.
L’elemento più evidente d’interesse è che questo diario nell’inferno patinato di silicio e cobalto sia stato scritto da una donna in un ambiente ad alto tasso testosteronico/fallocentrico a predominanza cioè di bianchi californiani nativi digitali nutriti a barrette proteiche, energy drink, videogames e frutta secca, che incarnano alla perfezione le tendenze autodistruttive del settore tech. La nuova élite dei nerds al potere formata da aggressivi multimilionari, baby-tiranni lobbisti e venture capitalist (VC) già a vent’anni.
Deprimente il paragone del mondo borghese bohémien di provenienza che l’autrice protagonista si lascia alle spalle a New York, la giungla d’asfalto dei paleo-sfigati radical chic dell’editoria underground, a confronto con l’ambiente tutto startup, clouds, software, criptovalute, big data, yoga anti-stress, danza new age e milioni facili della Bay Area nella tecnocratica San Francisco. È un raffronto impietoso tra la sua formazione umanistica priva di precise competenze tecniche “spendibili” nel mercato e l’ambito rapace degli sviluppatori di programmi, degli ingegneri informatici, degli scienziati dei dati che sviluppano il “codice” creando di fatto un mondo virtuale che è poi la realtà concreta dei nostri giorni organizzata da motori di ricerca, inserzionisti per le pubblicità online, intelligenze artificiali, robotica, monopolizzata dai colossi della new economy nella Silicon Valley autocompiaciuti da contenuti cospiratori, bufale e disonformazione perenne. L’autrice prende coscienza di un legittimo accoramento di rabbia e dolore collettivo ma disperso nel nulla da parte degli indigeni di San Francisco e di New York nei confronti della gentrificazione urbana che massifica esseri animati, vegetazione e cose. Un condensato di frustrazione e risentimento generato nella scrittrice e rivissuto di riflesso dai lettori, davanti allo strapotere d’acquisto delle startup finanziare ultra-redditizie con capitali di rischio nei confronti del lavoro creativo o artistico a zero rendimento economico.
“La Silicon Valley forse promuoveva uno stile di vita individualistico, ma su scala larga generava uniformità.”
Dove Bret Easton Ellis in American Psycho appioppava un’etichetta di brand del luxury a qualsiasi persona svilendo di fatto gli individui a merci tra tante dell’alta finanza – era l’epopea anni ‘80 dello yuppismo rampante di Wall Street ad alto tasso di dollari, marchi firmati e cocaina – qua l’autrice/protagonista del memoir utilizza lo strumento retorico della parafarsi – forse anche per evitare denunce e ripercursioni – senza mai nominare neppure una volta il nome delle compagnie “unicorno” di cui racconta, così che Facebook diventa “il social che tutti odiavano”; o Amazon con Jeff Bezos “un grande negozio online che aveva aperto negli anni Novanta vendendo libri sul web – non perché il fondatore amasse i libri e la letteratura, ma perché amava i consumatori e il consumo efficiente…”; oppure Google: “(…) la svolta imboccata dal colosso dei motori di ricerca, da archivio accademico della conoscenza globale a gigante della pubblicità”.
La filigrana malinconica che si sfilaccia lungo tutto il memoir è questa discrepanza interna nella sensibilità dell’autrice – che è poi la contraddizione intima di un’intera fascia generazionale devastata da un innato senso di colpa genetico – tra la vocazione personale a un lavoro culturale stabile che più corrisponda alla sua vocazione d’affermazione sociale ma che non ripaga né in termini economici né in senso di appagamento professionale, e il patto col diavolo con le società tech del Software tritacarne, il “nemico oscuro” per cui lei ha collaborato durante i suoi anni di formazione e crescita dove si smarrisce il confine dalla parte di chi sorveglia e di chi è sorvegliato, dove non mancano certo né soldi né prospettive di carriera, almeno finché l’elettricità dura (leggi l’ultimo, apocalittico DeLillo, Il Silenzio).
“L’industria tecnologica mi stava rendendo una perfetta consumatrice del mondo che essa stessa stava creando.”