A voler essere quanto meno spartani, la migliore e più legittima stroncatura a questo libro sarebbe non parlarne punto. Ma tant’è, vorremmo portarlo ad esempio, additarlo come opportunità – non che ne manchino le occasioni – di tracciare un sommario punto della situazione critica circa l’industria culturale relativa alla letteratura (nel caso specifico trattasi di spazzatura tout court) “del” e sul “vino”.
Con un occhio benigno al Baretti “Aristarco Scannabue” della Frusta Letteraria, partiamo dalle iperboliche epigrafi o slogan pubblicitari, (fronte e retro copertina) estratti dal merchandising giornalistico che ha svilito la nobile arte della recensione a squallido spot commerciale, riducendola in dissanguati brandelli a furia di sbraitate frasi-fatte in grassetto e rivendita all’ingrosso. La Repubblica, Vanity Fair, Il Messaggero, Il Giornale etc.:
“Se dovessi consigliare un solo libro di autore vivente sul vino, indicherei questo.” (…) “Davvero Appassionante.” (…) “Non ci sono dubbi: chiunque ami il vino amerà questo libro.” (…) “un commovente e intelligente viaggio dalla culla di questa ambrosia alle sue più attuali versioni…” e così via, pateticamente sviolinando fin alla nausea da parte di svenduti pennivendoli compiacenti che ti vien fatto di pensare non hanno forse neppure mai sentito nominare (alla stregua degli stessi furbeschi quanto finto-ingenui Cipresso e Negri, coautori dell’infame Vinosofia), testi davvero essenziali sul vino quali Vintage Wine di Broadbent (autore stravivente), Storia del Vino di Hugh Johnson (anche lui ancora bello vivo e vegeto) o quel fondamentale reportage sui vini dell’antichità di Alexander Henderson, Storia dei Vini Antichi, e questo tanto per nominarne solo alcuni.
Vinosofia – notiamo en passent come in una sola parola sia definitivamente avvenuto lo stupro a sangue di due tra i più nobili elementi che caratterizzano la civiltà umana da secoli: il vino e la filosofia – ha un pomposo sottotitolo che suona (meglio: stona) proprio così: una dichiarazione d’amore in 38 bicchieri.
È proprio necessario entrare nel grottesco ovvero odioso (altro che dichiarazione d’amore) merito della faccenda? Basterà elencare l’imbarazzante indice alla fine di questo libro come documento involontariamente rivelatorio ed auto-certificante d’una banalità d’intenti, disonestà intellettuale da vecchie volpi appunto e naïveté disarmante ai limiti del ridicolo a dir poco.
1 Amore e Morte; 2 Bolle, Belle e Bulli; 3 Vite di Mare; 4 Lacrime e Sangue; 5 Vecchie Volpi; 6 Miti e Muti; 7 Trasporti e Trasporto; 8 Polvere di Stelle…
Ad ognuno di questi temibilissimi capitoli seguono paragrafetti che vanno dal Primo Bicchiere al Trentottesimo e fin qui ancora nulla da eccepire. Ogni bicchiere è nominato dal vitigno o denominazione di cui si tratta, sia: tempranillo, falanghina, moscato, franciacorta, barolo, barbaresco, cinque terre, chianti, lambrusco, pinot nero, aglianico, pinotage etc. e qui forse si può già addurre una motivazione critica più circostanziata oltre a rimostrare riserve di puro ordine culturale o etico: a parlare genericamente di vitigni (“il Nero d’Avola qui il Malbec là, il Merlot lì o il Riesling qua…”) piuttosto dei produttori specifici e delle interpretazioni singole che uomini in carne ed ossa con una propria identità fisica e territoriale danno all’espressione finale dell’uva che vanno coltivando nello spazio e fermentando nel tempo, non si corre il rischio mortale di cimentarsi in slabbrate chiacchiere da bar approcciate quasi si giocasse una schedina? Cioè si finisce per cascare, mosche nella ragnatela, in approsimative e pettegole ciarle da portineria sgranate come in un rosario a cui ogni grano simboleggia un luogo comune sempre più qualunquista, sciatto, insidioso e massimalista?
Fosse stato un tema della quinta elementare in cui la maestra propone agli allievi di presentare una composizione di pensierini sparsi, l’ideuzza alla base di questo inconsapevolmente esopico Vinosofia poteva anche andar bene, ma tutta quest’accozzaglia roboante di mezze verità, fantasie sprovvedute e verosimiglianze accatastate l’una sull’altra è davvero roba pesante da digerire e mandar giù a meno che non sì è lettori narcotizzati da romanzetti rosa e si consideri Liala come la più grande e multiforme scrittrice di tutti i tempi se non dell’universo intero.
Cipresso e Negri, questi supponenti Fruttero & Lucentini senza la raffinatezza intellettuale e gioia mistificatoria, lo stile mirabile, lo humour nero, l’immaginazione colta e la leggiadra auto-ironia di questi ultimi, appaiono come dei cretineschi Cip & Ciop della letteratura citrullesca “vinosofica” bontà loro, e ci ammansiscono sadomasochisticamente per quasi 400 flatulente pagine, improbabili raccontini sciropposi e fatterelli ad usum di ciuchi con ritardi cognitivi quasi sempre bofonchiati in un registro malamente scritto ed ancor peggio pensato, licenziando a piede libero obbrobriose frasi-fatte con continui, estenuanti copia-e-incolla di esauste espressioni-cliché senza tregua del tipo:
“… con un amico vero a lume di candela… all’enoteca all’angolo… nell’ultima pagina del vostro libro preferito… le disgrazie come si sa, arrivano tutte insieme… non abbinandolo dunque ad altro che al proprio ego… Correva l’anno 1967, poche idee forse confuse… sensuale come una fanciulla che innocente apre gl’occhi… Ogni lasciata è persa… come il diamante, il Prosecco è per sempre… donnacce tentatrici… alla più sfrenata fantasia… se dentro avete voglia di contrasto… Vino che può apparire banale ed è invece capace di mistero… potente come una sinfonia di Beethoven… Tchelistcheff fu per tutta la vita l’incarnazione della curiosità. Era un uomo posseduto dalla febbre della ricerca… Meglio se con una bella donna, a cena e dopo… sono incazzato come una bestia… A ogni ora. Ascoltando musica, guardando un quadro, davanti a un’alba color perla o a un tramonto di fuoco…” Sarebbe possibile ad alcuno concepire più brutale autointerpretazione ed efferata valutazione critica che queste stesse frasi-solfa le quali già così, nude e crude, si commentano palesemente da sé?
Il tutto poi, standardizzato su una noiosissima, becera, quanto monocorde e piatta tonalità al passato remoto:
“l’impiegato sbuffò… il panico s’impossessò di lui… Jean Martell aprì la pergamena e studiò la rotta… Ennio Flacco si girò faticosamente… Il vecchio non aveva più lacrime per piangere… Abandinus, dio delle acque e dei fiumi, li aveva abbandonati… il contadino si precipitò in cantina… non me la scoperò mai… quel cretino non me lo toglierò mai di torno… Jean Louis riguardò le cifre… In quella fresca estate del 62 dopo Cristo, Lucio Giunio Columella si scosse e sorrise ripensando allo zio… il presidente del consorzio uscì raggiante… Il marinaio ellenico avvistò la spiaggia bianchissima… Pablo Picasso fu sempre genio, raramente sregolatezza… lo schiavo corse all’impazzata, via, via, via… Federico II di Svevia, lo Stupor Mundi, alzò in volo il falcone… vomitò di nuovo e vomitò tutto… piano pianissimo si avvicinò… Don Vasco guardò… il ragazzino alzò gli occhi e rimase a bocca aperta… Per cent’anni il Portogallo sognò… Louis Pasteur sbuffò… Arnaldo da Villanova scrutò attentamente le provette nella luce fioca e capì di avere ragione… Giasone e gli Argonauti levarono il capo verso il Vello d’Oro… l’oste impaurito alzò la lanterna nel buio della notte…”
Hemingway a Pamplona, un San Bernardo tra le nevi, un agghiacciante monologheggiare invano di Shakespeare, le bisbetiche ciance di Dom Pérignon, gl’insopportabili dubbi del Columella, Cristoforo Colombo giovane in fuga alle Cinque Terre, vigne antropomorfiche che strizzano l’occhio al cielo… “i vigneti si cullavano placidi nel vento, stendendosi da Avola a Pachino e poi su, verso Noto… i vigneti piansero per due anni tutta la loro disperazione… Quel vigneto di Borgogna restò impassibile mentre il centurione gridava e i legionari si affrettavano sulla strada, con le spade scintillanti nella luce dell’inverno. Era il 60 dopo Cristo e quel vigneto decise che non sarebbe stato lui a girare intorno agli uomini, bensì gli uomini a girare intorno a lui…” Posson bastare questa serie di excerpta per indurvi al suicidio di massa oppure a farvi rivoltare la bile e lo stomaco contro il derelitto sotto-mondo dell’editoria che permette la pubblicazione di simili ed altre peggiori quanto triviali bestialità? Vi risparmio l’ancor più raccapricciante resto!
Nelle schede ad ogni vitigno o denominazione che sia al termine dei singoli paragrafi, questi fin troppo auto-compiaciuti “vinosofanti”, scribacchiante plebaglia da mettere al muro e fucilare a morte senza rimpianti, personaggi minori, deleterie mascherine di una commedia aristofanesca, presumono anche di riuscire simpatici e dissacranti o d’imbastire addirittura della feroce satira di costume tanta e tale la loro mummificata vis comica (che angosciosa noia cosmica invece!) riportando con pedanteria burocratica lo stra-abusato aggettivismo degustativo perpetrato volta per volta da parte d’un altrettanto abborracciato e cadaverico giornalismo enogastronomico, il quale di volta in volta (siamo davanti ad una vera e propria guerra tra straccioni) è leziosamente definito così:
Guide Serie o Guida Superiore… Versione Dotta della Treccani Vinesca (SIC)… delle Bibbie del Vino… Custodi del Tempio, Sacerdoti, Guru, Saccenti Esperti o Superesperti, Dotti Medici e Sapienti, gli Studiosi o Compilatori Ufficiali il Magnifico Rettore i Professori del Vino…
ma che irresistibile witz, quale raffinata vis comica! e ancora:
Tomi Ufficiali, la Descrizione Ufficiale, l’Accademia, l’Enciclopedia Suprema del Vino… il Saputello della Degustazione… la Dogmatica o l’Ufficialità del Vino…
ne avete già abbastanza o devo continuare ancora fino all’assassinio gratuito sciorinandovi addosso tutta sta moscia quanto penosa tiritera di scorreggine-insinuazioni, parole-rutti a vuoto?
Certo un muffito, prosopopeico ciarpame di tal specie non poteva che diventare un best-seller wine-fantasy acclamato ai quattro venti, d’altra parte milioni di lobotomizzati lettori sparsi ad ogni angolo della terra che incensano il successo planetario di polpettoni andati a male quali il Codice da Vinci o Harry Potter ti fanno ricredere sullo stato di salute psichica dell’umanità intera la quale forse fin dall’età paleolitica non è mai uscita dalla dimensione infantile di scolaresca alla quinta elementare. A questo punto sarà ben chiaro a tutti, a meno che non siate accaniti bibliofili feticisti col pallino fisso dell’opera omnia di E. L. James o dell’editio princeps di Dan Brown e della Rowling, che una simile pattumaglia di sciocchezze per rincretiniti non sfigurerebbe per nulla (eccettuato per lo stile e l’ingegno letterario che non esiste affatto) nel flaubertiano stupidario, Dizionario dei Luoghi Comuni o Catalogo delle Idee Chic immaginato dagli scrivani bovinidi Bouvard et Pécuchet.
A parte tutto, una Modest Proposal alla Swift, forse cinica ma decisiva ce l’avrei anche da esporre a voi tutti: perché non diamo da leggere ad alta voce libercoli di tal venefico genere nei reparti ospedalieri dove vegetano i nostri pietosi malati terminali? Potrebbe chissà mettersi a punto ed affinarsi alla fin fine un metodo modernissimo, pulito ed economico di eutanasia della lettura… questo lo slogan-tipo d’una brochure a buon pro della clinica privata o pubblica di turno: “Dal funereo Cipresso.. ai cipressi cimiteriali!”
Ancora, per finire in bruttezza, così micragnoseggia lo slogan autopromozionale e adulatorio sulla graficamente atroce facciata del poco ameno libro in questione:
“A metà strada tra un rabdomante e un poeta, Cipresso ha un modo unico di ascoltare, capire, vivere e far parlare il vino.”
Per quel poco che ci compete, fino ad oggi siamo stati abituati ad identificare nella figura del “poeta” sommi scrittori quali Dante, Khayyám, Milton, Villon, Hölderlin, Puškin, Leopardi, Coleridge, Belli, Baudelaire, Rilke, Celan, Eliot, Montale, Auden, Brodskij… Bisognerà aggiungere il nomignolo anonimo di Cipresso a questa sfolgorante schiera? Forse poeta lo potrà pur essere il Cipresso di cui tanto si biascica, ma poetastro di grezzo pelo, vate buzzicone di clava e delle caverne, questo cioè sempre considerando lo scenario sociale del paleolitico ai tempi dell’Homo habilis quando scimmieschi antropomorfi sputacchiavano gorgogli d’onomatopee toraciche e sbattevano pietre una sull’altra per scaldarsi, allora il semi-erectus blaterante Cipresso sommo poeta e vinosofo col suo demenziale libricino raffazzonato tra gli ominidi suddetti avrebbe potuto magari figurare (pur se con beneficio d’inventario) e risplendere in quanto cantore di corte minus habens tra subumani suoi simili; di certo però per quanto concerne il “rabdomante”, Cipresso rabdomante lo è senza la minima ombra di dubbio!
Detto dunque urbi et orbi nella particolarmente fastidiosa e pletorica timbrica al passato remoto molto cara ai nostri tanto illetterati quanto irrilevanti vinosofi dell’ultim’ora e a proposito della oramai risaputa da tutti a quanto sembra rabdomanzia cipressesca: “Cipresso e Negri… andaron per setacciare il vino, vi trovaron solo acqua stagna!”