Una botteguccia in riva al mare da qualche parte al Sud. Apro 6 mesi l’anno, la chiamo: “Friselle & Champagne”.
I restanti 6 mesi in letargo a Parigi alla Bibliothèque Nationale de France o alla New York Public Library. Fine della cazzata.
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Una botteguccia in riva al mare da qualche parte al Sud. Apro 6 mesi l’anno, la chiamo: “Friselle & Champagne”.
I restanti 6 mesi in letargo a Parigi alla Bibliothèque Nationale de France o alla New York Public Library. Fine della cazzata.
Maturità, slancio vitale e lucentezza di Joško Gravner.
La Ribolla 2007 condensa un percorso di ricerche austere sull’essenzialità e l’energia trasudate dall’uva: la sanità del suolo, i duelli all’ultimo sangue con l’andamento climatico, le meditazioni severe sull’agricoltura e il senso ultimo della pratica contadina in un mondo sempre più signoreggiato dalla Monsanto Vision of Life.
La Ribolla 2007 è un vino-fiume, un impeto di fragrante autenticità, un flusso ininterrotto di gioia spontanea che travalica le ristrettezze del cervello per rigettarsi energico nel Mediterraneo aperto del cuore.. “un grande avvenire dietro le spalle”.
E quindi ci si ritrova a mezza vita inoltrata.
Bottiglie stappate, amori sciupati, viaggi insulsi, fornelli incrostati da settimane, piatti e pentole da lavare, letture interrotte, litigi senza motivo o forse troppo motivati, pranzi al volo e cene di lavoro, tuffi in mare, sale d’attesa, sveltine, rampe d’aereoporti, sbronzette allegre, caffè bruciati, pezze al culo, bocconotti all’aria aperta, slinguazzamenti, scopate intense, graffi di possessione, schiaffoni, ululati, pippe reciproche, passeggiate nei parchi, corse in spiaggia.
L’ennesimo trasloco a quarant’anni. Batuffoli di polvere, segatura ammonticchiata dai tarli delle travi al soffitto, peli di culo, schegge molecolari d’epidermide che stratificano sul pavimento assieme al ricamare dei ragni ammutoliti negl’angoli. Libri a scaffali e scatole di legno. Libri letti, libri illeggibili, libri sempre da leggere. Libri su libri su libri ed ancora altri libri. Libri mai scritti e sempre da riscrivere per chi mai li leggerà. Altri libri da non scrivere affatto per chi vorrebbe forse leggerli, bah!
La casa nei boschi vecchia oltre VII secoli e passa è una torretta d’avvistamento solitaria in pietra. Spugna d’umidità e gelo durante l’inverno che andrebbe semplicemente scaldata solo incendiandola a merda e accucciarsi poi su un lato per godere di questo confortevole caldo tutto il tempo di un sonnellino eterno; godere finalmente i benefici del calore finché dura mentre attorno è solo un paesaggio di desolazione, fango, pioggia, ghiaccio e tutta quanta l’indifferenza leopardiana del cosmo.
Vivibilissima in primavera invece, goduria di tutti i sensi. Torrida ma ben ventilata d’estate però è questa torretta: montagne fresche di torrenti e brezze alberate, un lago oltre la vallata, un fondale di campagna serena a perdita d’occhio. Erbacce alte infestanti, una savana che subentra alla pietra antica della torre. Una volontà vegetale di radicarsi ed espropriare. L’intento maligno dell’erba è quello di spaccare usci, terremotare gradini, corrodere fondamenta. L’andazzo è quello d’insediarsi al posto d’uomini, donne, animali e cose se non si prendessero seri provvedimenti col tagliaerba, ma di certo non sono mai stati e mai saranno questi i miei provvedimenti, anzi, direi tutto all’opposto.
La natura in casa, la casa nella natura questo sì.. e senza la consulenza di raffinati paesaggisti di grido ma sempre e solo ispirandosi al principio aureo del grandissimo Masanobu Fukuoka San e alla sua orticoltura meditabonda, alla sua pratica Zen del “non-fare” (La Rivoluzione del Filo di Paglia) per il quale – verità apparentemente paracula, oziosa e di comodo penserà più di qualcuno – l’unica cura è nell’incuria!
Ecco qui dunque, buste nere dell’immondizia alla mano, resto in piedi, disorientato ma risoluto davanti all’accumulo di bottiglie vuote stipate sui mobili per mesi, per anni ad attrarre polvere, microrganismi e cacca di mosche. Granelli d’affetto che sbucciano dagl’oggetti. Scagliette d’istanti-ricordo venute via dal muro del pianto e del sorriso di qualche reminescenza alcolica.
Groppo ruvido d’amaro in gola, me ne sto fermo in piedi, adombrato avanti a questi trofei della vanità vinosa o vinità vanitosa? Simulacri di vetro dell’attaccamento sentimentale, ex contentinori d’un’emozione a breve durata estinta subito dopo averla vissuta anche se solo a metà. Esercito a falange macedone di bottiglie vuote, catalizzatori di relazioni umane, simboli di una compartecipazione pischica/emotiva evaporata per sempre chissà dove e perché. Una bevuta fra amici, una condivisione d’idee folli, astrazioni concrete, ragionamenti interstellari, risate strampalate, progetti astrusi, risoluzioni definitive, chiacchiere roboanti, megalomani propositi mai ottemperati ma-chi-se-ne-frega, strette di mano furibonde, abbracci fraterni, significativi silenzi.
Serate di passione bestiale, morsi d’amore, soffocamenti e compenetrazioni reciproche delle carni, intreccio febbrile delle articolazioni, scambio dei fluidi, effusione degl’apparati genitali, fusione delle menti. Etichette e vetri ormai privi di significato senza più quel liquido umorale-fermentato-sanguigno-alcolico-pungente che le animava. Lapidi funebri ad indicare il nome epigrafico non più in vita d’un vino, uno champagne, un sauternes, un’acquavite, un sake filigranati in sorrisi in gioie in amarezze, aspettative, intuizioni, adorazioni e lamenti che lasciano pure qualche segno al nostro appiccicoso intruglio interiore di macerazioni spaziotemporali, non dico di no. Anche se poi, una volta bevuti, tutti questi vini per quanto eccelsi, preziosissimi e di memorabile annata, il loro destino organico dopotutto non è che il filtraggio renale quindi non è che la prosaica, la iperrealistica fine di venir tramutati in una teporosa pisciazza e via.
E sono nomi che scintillano al mondo il loro prestigio indiscusso di Casa Madre. Beni materiali di fonte spirituale del lusso esclusivo a buon pro d’una assai privilegiata nicchietta d’uomini-e-donne-puzza-al-naso il più delle volte proprio perché forse sono loro per primi ad esser cacati sotto.
Etichette di bevande sacre, nomi di vini fiammeggianti che poi sono solo la condensa di anni appiccicati in un album di fotografie dei nostri momenti quotidiani migliori o più banali del solito chissà. Fotoricordo di una giornata particolarmente meno anonima rispetto al rituale anonimato delle nostre vite agre umane schiavizzate alla riproducibilità tecnologica fuggi-e-mordi e all’alienazione urbana fotti-e-fuggi. Vite gettate in questa tiepida galassia condominiale solare che non è se non grigia protuberanza nell’universo ignoto che tuttavia è a sua volta ingoiato in qualcos’altro di ancor più incommensurato, siderale, di sempre più universalmente, fottutamente, inconcepibilmente anonimo.
I sacchi neri sono pieni ormai, pesanti d’ognuna di queste bottiglie sconsolate, sì certo “sconsolate”.. insomma, siamo sempre e solo noi, antropocentrici fin nel midollo, a sconsolare o rallegrare quanto ci circonda, non prendiamoci per culo una buona volta! Sacchi neri pesanti di bottiglie, omaggio al passato cadaverico e all’oblio. Sacchi gonfi di sogni banali, false speranze, impulsi alquanto comuni, ambizioni sbagliate e nuda realtà del nostro crudo vissuto fin qui.
Li trascino con me questi sacchi scuri allora per scaricarli dal groppone, alleggerirmi il cuore già granito di suo. Buttarli giù di sotto proprio come si farebbe in mongolfiera coi sacchetti di sabbia – visione amena da cartone animato anni ’80, gli stessi anni dell’apprendistato alla pubertà – per allontanarsi ancor più da terra e volare in alto lontano da tutto, lontano da tutti questi uomini, donne, cose, animali, affezioni vischiose, sacchi grevi e bottiglie ingurgitate: vuoti a perdere spazzati via nella raccolta indifferenziata dei ricordi.
Erich Fromm sulla natura umana:
L’ottimismo è una forma alienata di fede, il pessimismo una forma alienata di disperazione.
“Residui velleitari della mania di collezionare cose che ci sopravviveranno“, questo pensavo accumulando sacchi d’immondizia in cui rigettavo oggetti, panni mai più indossati e supporti di conoscenza troppo ingombranti nell’epoca del sapere digitale compattato in un solo file che si misura a Giga e Terabyte (cd, dvd, libri, riviste, fotografie, intere enciclopedie, archivi di carta).
Tra le troppe bottiglie vuote in casa da inoltrare alla discarica del vetro, ritrovo questa boccetta di un rarissimo Bowmore 1979 lo stesso leggendario anno d’imbottigliamento che celebrava il bicentenario della distilleria. Il 1979 sembra infatti sia stato affinato in strepitose botti di Sherry del 1960, se ne ritrova ancora qualche bottiglia oggi sul mercato a costi decisamente improponibili.
Ce n’era una mezza lacrimuccia ancora al fondo che ho strizzato in gola con cura da erborista come si farebbe col collirio per gl’occhi.
Dalla lingua alle caviglie, dai talloni passando attraverso l’inguine e poi i capezzoli fin su alla calotta cranica.. una vampata sessuale, una oscura ma densa felicità indistinta, un’armonia celeste mi ha totalmente invaso la carne che da quella mezza lacrima di Islay Single Malt Scotch Whisky ne ho ben ricavato un sorriso pieno e una gioia di vita che dopo alcuni giorni – caso raro visti i tempi bui – ancora non va via, colma i vuoti d’aria e mi fa sperare in giorni un po’ migliori nonostante la disperazione sociale, la crisi finanziaria, il dissesto geopolitico, le disuguaglianze economiche, l’ingiustizia razziale, i disastri ambientali del mondo in cui sono, di questo mondo qua in cui tutti siamo.
Sì proprio il mio, il nostro mondo che anch’io, anche noi, contribuiamo a far essere così com’è: il migliore o il peggiore dei mondi possibili fatto a immagine e somiglianza dei nostri singoli atti, sensazioni, desideri, pensieri, silenzi.
Sabato d’inizio estate con un caro amico siciliano in visita a Cortona da Siracusa andiamo all’Enoristorante il Vicolo da Mirko e Leonardo Bonicolini a Civitella in Valdichiana, roccaforte d’origine Longobarda. I tavolini sono disposti su una piazzetta d’impianto medioevale che affaccia su tutta la Chiana e il Valdarno tra Toscana e Umbria. Per cominciare: salumi del Casentino e caprini preziosi a latte crudo munto a mano dell’azienda agricola Santa Margherita di Maria de Dominicis a Ville di Corsano, che annaffiamo con lo sfavillante Friulano di Miani 2011. In effetti era troppo tempo che non ritornavo ad assaggiare un vino di Miani e sempre mi entusiasma in questo intransigente produttore la pulizia e le maturazioni del frutto-uva, l’utilizzo avvedutissimo dei legni d’affinamento – sicuramente avendo a modello i maggiori e più virtuosi esempi di Borgogna – che rilasciano eleganti note boisé mai a rischio di sopraffazione sulla tersa croccantezza del vitigno, nostalgiche percezioni di frutta secca autunnale in proporzionata compiutezza d’antipasto col grasso dei salami e i capocolli di maiale grigio del Casentino, sui tipici fegatini e pane tostato, ma soprattutto nell’affiatamento grintoso con i caprini stagionati nella cenere o in foglia di castagno.
Antico Lamole Chianti Classico Gran Selezione 2010 “Lama della Villa” da vigne ad alberello, bt. num. 525 di neppure 1000 bottiglie presumibilmente, prodotte da Paolo Socci.
Questo Chianti Classico Gran Selezione, grazie ai sempre avveduti suggerimenti dell’amico Mirko, ristoratore e degustatore dei più accorti, subentra ad un’altra possibile e di certo più impegnativa opzione tra varie ed eventuali annate del gagliardo Percarlo (San Giusto a Rentennano) – ma in effetti a pranzo sotto l’ombrellone a quasi 30 gradi forse sarebbe stato un po’ troppo giocare d’azzardo. Il vino dicevo è l’Antico Lamole dalla parcella di poco più d’un ettaro: “Lama della Villa”, è proprio una lama acuminata infatti di non usuale chiantigianezza: roccia, ferro, nerbo, radici, scintille di schietta sangiovesessenzialità, e becccatevi st’hashtag: #sangiovesessenzialità.. impeccabile davvero – non fa una piega cioè – su ravioli di borragine e pecorino, burro, salvia.
L’Alfabeto tra Suono Segno Sogno Visione Invenzione Gesto Memoria Potere
Non si vive in un paese, si vive in una lingua.
(Emile Michel Cioran)
In altra occasione avevo già fatto riferimento a questo gran bel sito della Popova scoperto via Twitter – Brain Pickings – che è una vera e propria miniera di stimoli intellettuali, risorsa instancabile di curiosità culturali, catalogo di recensioni informative ed approfondimenti sui più svariati temi che riguardino letteratura, filosofia, arte, fumetto, musica, architettura, urbanistica, teatro, libri, società, costume, tecnologia, editoria in generale.Questo articolo che propongo e traduco piu sotto pertiene uno degli argomenti tra i piu affascinanti, inesauribili e segreti relativi al genere umano e cioè le fonti stesse della lingua: l’invenzione dell’alfabeto con tutto quel che si trascina dietro a strascico millenario in termini di genealogia della voce parlante, attribuzione di senso tra le parole e le cose e quindi relativamente alla potenza, alla forma, all’atto del linguaggio in sé quale organizzazione logica del significato e porta-voce della sostanza del mondo a misura di chi parla, di chi scrive, di chi ascolta.Fin dai tempi dell’università ricordo che il busillis dell’origine e dell’evoluzione del linguaggio era già allora una materia lavica da cui sono sempre stato attratto anche se devo ammettere che certi professorotti insulsi, certi emeriti analfabeti addottorati se non addirittura illustrissimi paraculi raccomandati di burocrati corrotti, di tromboni cagnacci mastini scacazzanti in cattedra ce la mettessero proprio tutta a farmi disamorare di una disciplina tanto nobile quanto abissale o addirittura babelica… eh già, proprio babelica, se non è il caso questo trattandosi appunto del misterioso meccanismo di formazione, di metamorfosi e funzionamento degl’alfabeti ovvero dei linguaggi stessi?
Ne ricordo uno in particolare di questi ottusissimi asinoni sapienti, che poi era pure il rettore della facoltà un tal Pretetti – anonimo anche a se stesso, figuriamoci – losco figuro semi-demente non solo all’apparenza che non avrebbe certo sfigurato nell’illustrazione anatomica della frenologia lobrosiana – atlante d’antropologia criminale – ove si descrive l’anomalia, la patologia ereditaria e l’atavismo criminoso a partire già dalla conformazione del cranio, le mandibole canine, gl’occhi troppo ravvicinati, le arcate sopraccigliari delinquenziali, le zampacce pelose prensili, il naso schiacciato fin dalla placenta da un cazzottone ben assestato – e quanto mai a ragione nel caso del nostro subumano Pretetti – dal darwiniano Dio della vita.
Insomma, questo viscido farabutto d’un gangster ex cathedra, frammassone con la facciatosta peggio di quel suo culone flaccidoso aveva impapocchiato un terrificante libro di testo con prefazione pietosa oltreché illegibile: Il Linguaggio, ovvero un’antologia raccogliticcia davvero mal assortita, una pubblicazione infame d’accozzati copia-e-incolla e taglia-e-cuci a casaccio poi rimescolati con lo sputo dalle varie teorie filosofiche sul linguaggio moltiplicatesi in Occidente malgrado scoraggianti e scorreggianti aborti professorali quali il Pretetti medesimo, a partire quindi dai Presocratici, gli Scettici, Aristotele fino a Vico, Hume, Herder, De Saussure, Benveniste, Cassirer, Pierce, Wittgenstein, Ricoeur, Chomsky.Mi è restata fin da allora tuttavia impressa in mente una trama florida di contemplazioni linguistiche, nonostante le buffonate involontarie, le perenni offese all’intelletto, le bassezze e le stoltezze accademiche di un cotale filosofesso teoretico di stocazzo, cioè il professor Untermensch Pretetti in carni et ossi. Mi colpirono insomma le meditazioni sul linguaggio elaborate dal grande linguista e pensatore tedesco Friedrich Wilhelm Christian Carl Ferdinand Freiherr von Humboldt (suo fratello minore era il noto botanico, esploratore e naturalista Alexander) che proponeva un ripensamento generale della “grammatica universale”, caratterizzando la quale proprio attraverso una messa in luce dei valori fonosemantici del linguaggio che è appunto anche l’oggetto mirabile di riflessione di questo volume stupendo di Timothy Donaldson Shapes for Sounds recensito dalla Popova come segue oltre e che mi auguro verrà presto tradotto pure da noi… Ma se poi non sarà mai italianizzato poco importa, anzi consiglio spassionatamente di acquistarlo comunque “in lingua” poiché è scritto visualmente nel “linguaggio dei segni” che non prevede confini geografici, se ne infischia delle frontiere nazionali dato che è proprio di questo che tratta: l’universalità del segno grafico-vocale perché, appunto come ci ricorda De Saussure: “Il segno linguistico unisce non una cosa a un nome, ma un concetto e un’immagine acustica.”
Le forme dei suoni: una storia visiva dell’Alfabeto – Shapes For Sounds (recensione di Maria Popova al libro di Timothy Donaldson)
Di come l’anatomia della lingua abbia a che fare con le bandiere delle navi e con l’evoluzione della comunicazione umana.Sono infinitamente affascinata dall’intersezione di immagine e suono difatti questa ossessione per gli alfabeti è ben documentata anche nel mio sito. Dunque nutro un’assoluta devozione verso Shapes for Sounds di Timothy Donaldson (Cowhouse), che esplora una delle creazioni più fondamentali della comunicazione umana cioè l’alfabeto, attraverso un affascinante viaggio nel: “perché gli alfabeti sono come sono, quello che è successo loro dall’invenzione della stampa, perché non potranno mai cambiare e come avrebbero eventualemente potuto essere”.Nonstante il tomo sia ricco di belle, sontuose illustrazioni e caratteri tipografici – come i 26 splendidi grafici illustrati che ripercorrono l’evoluzione dalle lingue parlate agli alfabeti scritti – il libro non si limita ad essere soltanto un mero piacere per gli occhi. Donaldson, tipografo, progettista grafico e insegnante, scava in profondità nella antropologia culturale di come le lettere sono state cristallizzate dai suoni, i testi inventati, le parole formate e le convenzioni linguistiche indottrinate.Così scrive Donaldson:
“L’alfabeto è una delle più grandi invenzioni al mondo; è semplice da imparare ed ha permesso la conservazione e la chiara comprensione dei pensieri della gente. Ancora oggi mantiene un significato enorme; mentre l’avvento dei caratteri a stampa ha effettivamente ridimensionato un reale sviluppo della forme delle lettere, l’alfabeto è stato tuttavia maggiormente utilizzato proprio negli ultimi 500 anni rispetto al passato. La tipografia è il motore del progetto grafico, mentre la scrittura ne è il carburante. Ma più di tutto, l’alfabeto è stato il catalizzatore di tecnologie di comunicazione di massa, dal codice Morse a Internet.”Anche se l’alfabeto latino è il punto focale, Donaldson esplora una gamma incredibile di storia comparata, dalle antiche tradizioni calligrafiche ai semafori, ai codici a barre e al sistema binario, esponendo una magnifica impollinazione incrociata di discipline – progettazione, tipografia, anatomia, fonetica, sociologia, linguistica, psicologia e altro ancora – che ha dato vita ad una delle tecnologie più antiche e potenti della nostra civiltà.
Donaldson considera poi la gioia primordiale che la grafica riesce a suscitare:
“Mi piacerebbe avere l’esperienza di ricevere buste da lettera postali attraverso la mia porta senza indirizzo, ma solo con una foto di me e della mia casa sulla parte anteriore. Vorrei comprare un giornale pieno di nient’altro che immagini e dispositivi grafici, o di ritrovare la strada di casa utilizzando segnali stradali composti solo di frecce e disegnini, ma credo che questi eventi siano ancora molto lontani da venire. Per attraversare i confini nazionali è ancora richiesto un documento testuale; il passaporto non è soltanto una foto del tuo volto. La dichiarazione dei redditi obbligatoria è un documento che, se ignorato, farebbe di te un criminale, non contiene alcuna immagine. Il codice della strada presenta molti segni basati su immagini, ma deve essere sempre spiegato a parole. Interent è formato al 95% di testo.”
Shapes for Sounds si presenta come l’ennesima perla dai genietti della Cowhouse di Mark Batty, il mio editore indipendente preferito che ci ha lasciato altre eccellenti pubblicazioni quali Notations 21, Cultural Connectives, Drawing Autism e altro ancora come Dogs in Books: An Illustrated History.
Bartolomeo Platina, Il Piacere Onesto e la Buona Salute, Einaudi, Torino 1985 (a cura di Emilio Faccioli studioso raffinatissimo il quale ha curato il fondamentale e difficilmente reperibile: L’Arte della Cucina in Italia raccolta di ricette e trattati sulla civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo pubblicato da Einaudi nella collana I Millenni)
1983/2008 Verticale storica del Trebbiano d’Abruzzo di Valentini a Loreto Aprutino: tentativo di racconto a più voci
Vitigno Visione Paesaggio Identità. Quella parte d’Abruzzo chiamata Trebbiano
{Il video è stato realizzato da Fabio Moretta che qui ringrazio, cosi come ringrazio e saluto ancora una volta tutti i “fomentati” che ci hanno raggiunto da svariate regioni d’Italia (Sicilia, Piemonte, Lombardia, Toscana, Lazio lo stesso Abruzzo) per essere con noi a Loreto Aprutino a celebrare il genius loci dentro a 13 bicchieri di 13 differenti annate dell’unico e inimitabile Trebbiano d’Abruzzo Valentini.}
Vita. La salamoia spirituale che preserva il corpo dalla decadenza.
(Ambrose Bierce, Il Dizionario del Diavolo, 1911)
In quel di Loreto Aprutino il 12 marzo scorso (2016) assieme alla complicità de La Fillossera – (Giovanni Carullo e Graziana Troisi) abbiamo stappato e bevuto 12 annate (che poi sono diventate 13) progressive del Trebbiano di Valentini più rappresentative dei 3 decenni: ’80, ’90, ’00.
Ricordo en passant che da Valentini l’uscita commerciale dei vini non è cronologica ma dipende essenzialmente dalla gradazione alcolica e il ph quindi da vini più o meno pronti ad essere commercializzati e che comunque il principio d’ispirazione a fondamento di tutta l’azienda è quello di fare vini che durano nel tempo; un’idea antica eppure modernissima d’enologia e viticoltura che approccia il vino quale manufatto da lavorazione artigianale e non in quanto oggetto in serie da manipolazione industriale. Un lavoro minuzioso, manuale e sacrificato in vigna utilizzando tecniche di lavorazione artigianali non inquadrate da talvolta eccessivamente burocratici schemi e protocolli bio e senza ovviamente manipolare l’uva in cantina in alcun modo previsto o predisposto dalla Tecno/Scienza che come si sa è sempre più invasiva ed omologante. In vigna quindi non si lavora con trattamenti sistemici ma di contatto (poltiglia bordolese: rame e zolfo), e non si fanno diserbi. Nessun controllo delle temperature in cantina, no filtrazioni né stabilizzazione se non per decantazione naturale, questo anche a rischio di fermentazioni spontanee e arresti di fermentazione; nessun lievito estraneo per facilitare la fase fermentativa delle uve ma i lieviti sono solo quelli presenti sulla cuticola (buccia dell uva); neanche a pensarlo, nessuna pratica di acidificazione o disadicificazioni e aggiunta di mosti concentrati. Nonostante il Trebbiano sia un vitigno altamente produttivo le rese per ettaro sono gestite al massimo per l’ottenimento della maggior qualità possibile. Invecchiamento in botti grandi.
L’ordine di degustazione della serata invece è stato di taglio classico progressivo dalle annate più vecchie alle più recenti il che non ha escluso comparazioni incrociate e confronti retroattivi all’interno dei “decenni” inclusi in ognuna delle 3 batterie.
La disponibilità di coscritti al ristorante L’Antico Torchio dentro il Castello Chiola era limitata a non più d’una ventina di posti immediatamente accaparrati fin dal lancio della serata da fedelissimi provenienti da ogni angolo d’Italia: Catania, Palermo, Milano, Torino, Arezzo, Roma, Giulianova.
Già in questo articolo: Az. Agricola Valentini Trebbiano e Montepulciano da un Frammento d’Abruzzo alla Totalità dell’Universo proponevo un’anticipazione generale dei ragionamenti polifonici e della chiacchierata in calorosa amicizia innescata da e sul vino, il vitigno, le annate ma soprattutto riguardo argomenti correlati assai più ampli o d’ordine cosmico quali: stagioni-territorio-identità-persone-artigianato-letteratura-economia-agricoltura-società-tradizioni e Abruzzo Abruzzo Abruzzo… a sfinimento!Il senso più segreto di un luogo è riportato alla luce in un vino attraverso lo scambio di comprensione e di reciproco ascolto tra gl’artigiani della terra e le piante. Abbiamo quindi provato a raccontare nei calici la visione, la ragione e il sentimento delle seguenti 13 annate di Trebbiano ed è senza dubbio una visione di lotta aspra, una ragione di fatica e un sentimento di gioia giornaliera che è poi anche fusione mitologica tra Valentini, il Trebbiano e una parte d’Abruzzo in quanto cortocircuito geografico di montagne (Majella, Gran Sasso, Balcani), boschi, pascoli, mare, brezze calde dall’Africa, aria gelida balcanica, correnti siberiane. La ventilazione è costante, le escursioni termiche invece sono fondamentali sia alla ottimale maturazione dei grappoli che alla preservazione degli aromi e non sono soltanto stagionali queste escursioni ma avvengono anche drammaticamente dal giorno alla notte.Possiamo considerare Valentini una sorta di stazione metereologica preziosissima dell’andamento delle annate di ogni singola e singolare vendemmia. Qui, fatto raro in tutta Europa, ci sono in archivio quaderni di appunti climatici a partire già dal 1817, per cui sappiamo che la vendemmia del Trebbiano fino al 1960 avveniva sempre la seconda meta d’ottobre (nessuna variazione notevole) dopo il 1960 le vendemmie hanno cominciato ad anticiparsi fino agli ultimi drammatici 20 anni sicuramente a causa dell’effetto serra. Dovere politico e morale dell’agricoltore quindi è quello di informare il mondo del cambiamento climatico anche se a contrasto diretto dell’urgenza commerciale. Tante sono le incognite provocate dal surriscaldamento globale come ad esempio la scissione della maturazione zuccherina delle uve (il calore) da quella fenolica (la luce).
Ciò che si oppone converge e dai discordanti bellissima armonia.
(frammento di Eraclito traduz. Angelo Tonelli)
Su questo punto della maturazione delle uve il tendone a pergola abruzzese (a corto raggio) ha la sua specifica ragion d’essere perché in questo caso l’uva matura per illuminazione riflessa e non diretta che piuttosto cuoce più che far maturare, oltre a mantenere un rapporto decisivo tra linfa, foglia e frutto a distanza ideale dal terreno che è per contrasto molto caldo e fertile con venature sabbiose ad assicurare un buon drenaggio delle acque le quali quindi poi non ristagnano provocando marciumi e muffe indesiderate che costringono spesso tanti viticoltori a fare trattamenti coi fitofarmaci e altre porcherie vendute dall’industria enologica sciacallesca.
Ci siamo innanzitutto avvinati la bocca con il Trebbiano di Valentini sfuso d’annata.
Per la cena queste invece erano le quattro prosposte del Ristorante L’Antico Torchio:
Qui di seguito intreccio fra loro delle impressioni, le note di degustazione e i punti di vista di alcuni dei singoli “assoli” presenti al canto della serata corale:
Un serata polifonica che, ognuno col timbro della sua personalità e colore di voce, mi piace introdurre con questa premessa:
Eccoci qua riuniti finalmente attorno a questa tavolata.
È molto semplice che una serata del genere possa uscire fuori come una sorta di seduta spiritica o una specie di sessione psicoanalitica in cui l’anormale o il deviante da psicoanalizzare è il vino o noi stessi che lo beviamo spesso con approccio molte volte troppo serioso, cerebrale e feticista.
Partiamo subito dal rompere questi schemi. Il vino è un bene di consumo, un nobile prodotto della terra quando anche il contadino e l’agricoltore che la lavora è motivato da intenti altrettanto nobili oltre alla sussistenza della sua economia domestica e familiare. Non stiamo salvando la vita di nessuno, è un prodotto che sollecita piaceri e gioie o scatena tristezze e malinconie ma non è una necessità primaria di sussistenza così come l’acqua, il pane, l’ossigeno che respiriamo per restare in vita. (gae saccoccio)
Giovanni Carullo
• 1983 [Grande annata. Uva perfetta al momento della vendemmia]
• 1988 [Annata difficile, piovosa con grandine a maggio e giugno e diverse patologie (ragno rosso). Giallo vivo dorato consistente. Incarto, zolfo, pietra focaia. Di corpo medio, meno sapidità rispetto alle altre e meno freschezza. Al limite dell’armonia. 12,70% e 5,77 acidità]
• 1990 [Il 1990 ha avuto un inverno siccitoso, le vigne si risvegliarono in ritardo. L’annata attraversò molte difficoltà, con attacchi di ragnetto rosso a maggio, poi giallume e tignola a giugno, e in agosto una forte grandinata. La vendemmia fu piuttosto precoce, iniziando il 23 settembre, ritenuta precaria allora ma risultata poi ottima negli effetti, con un vino per i canoni “valentiniani” molto ricco, dotato di 13% di alcol (un record) ma supportati da acidità elevata (6.20). Mandorla, vegetale, interno della canna di totora o bambu freschi. Strutturato e poco elegante con freschezza e spiccata sapidità. Molto piacevole]
• 1993 [Annata siccitosa]
• 1995 [Annata potente]
• 1997 [Molto buona]
• 1998 [Inverno freddo e piovoso, con un risveglio vegetativo in anticipo, e un maggio piovoso, con acqua persino nei mesi di giugno e luglio. Meglio il proseguo della stagione, che portò a vendemmia tra settembre e ottobre, mentre si avvertivano i primi attacchi di botritys cinerea. Buon naso ma poca acidità e sapidità. Vino non longevo]
• 1999 [Annata fra le più piovose in zona. Vendemmia programmata e rimandata di continuo e con perenne minacce di peronospera. Vendemmiato con tasso malico altissimo]
• 2000 [Piccola annata, mediamente piovosa e con poca luce]
• 2001 [Una delle poche annate ottime sia per trebbiano che montepulciano (come la 1992). Armonico seppure meno incisivo per alcuni versi ancora un po’ spigoloso]
• 2005 [Ultima annata realizzata da Francesco Paolo insieme al padre Edoardo]
• 2007 [Annata torrida e un agosto rovente durante il quale la colonnina del termometro ha segnato anche 45 gradi (raggiunti esattamente il 28 di agosto come ricorda il produttore medesimo). Condizioni estreme che hanno costretto Francesco Paolo ad intervenire con cisterne d’acqua, non usando irrigazione, per salvare le piante. Il risultato è stato un frutto dalle caratteristiche anomale, con alta concentrazione zuccherina e alta acidità dovuta al fatto che le uve sono rimaste acerbe. Uscito sul mercato sia dopo la 2008 che la 2009. Vendemmia 31 agosto]
• 2008 [Annata parecchio difficile. Temperature invernali alte, risveglio vegetativo anticipato, 5/6 grandinate, attacchi di Oidio e Peronospora. Praticamente, in vendemmia si è raccolto solo il 50% del totale. Vendemmia 8 settembre. Glutammato monosodico e buccia di fava. Petillant]
Giulio Molisani
Serata piovosa. Il posto, questo castello è bellissimo sia dall’esterno che all’interno varcando l’ingresso come se io e il mio amico fossimo due imprenditori in viaggio d’affari. A sminuirci l’apparenza e a farci capire che siamo solo due viandanti dell’enogastronomia: il nostro abbigliamento. A rincuorarci però c’è la barba di Gaetano. Una barba che segue i suoi movimenti nell’approcciarsi a noi dato che non ci conosciamo o forse si? Movimenti, parole e barba che ci mettono subito a nostro agio, insieme alla dolce schiettezza di Graziana e la semplice disponibilita di Giovanni, i padroni, solo in questa circostanza, di casa. Casa o forse meglio di questo imponente castello che “puzzecchia” – senza offesa per nessuno – d’aristocrazia decaduta, con tocchi di design misti a spade e loghi medievali. Gli altri ospiti si tranquillizzano e si sciolgono come noi. A rinfrescarci un trebbiano sfuso di Valentini, il produttore protagonista della serata oltre che protagonista da decenni del panorama vitivinicolo tanto abruzzese che italiano, da bere con il bicchiere “da passatella” cosi come si racconta che venisse offerto appunto nella loro cantina. Noi lo beviamo al calice, non si trovano piu i bicchieri da passatella quelli da 11 cl con cui si riuscivano a fare 6 bicchieri esatti con una bottiglia da 66 di birra e che spesso usiamo ancora nelle nostre dimore contadine per il vino di casa. Non è un vino da naso, già lo sapevo, ma da bere a tutto pasto. Bella acidità e giusta beva. Ci sediamo e ci spiegano in poche parole che non sarà una degustazione tecnica ma “animale”, fatta ognuno con la propria anima e in nome del convivio passionale. Le annate 12 barra 13 in quanto un’annata aveva un piccolo sentore di tappo e subito è stata aggiunta un’altra annata. Giovanni ci descrive le annate, prendendo spunto direttamente dai quaderni di campagna della famiglia Valentini per aiutarci a capire l’aspetto climatico dell’annata. I vini sono tutti dei Trebbiano d’Abruzzo: clone ”Valentini”.Un discorso a parte. Cominciamo con la 1983 nel decanter data l’annata. Colore giallo dorato/ambrato, ovviamente ossidato. Ci mancherebbe: 33 anni! Abbastanza complesso e le note marsalate prevaricano su tutto sia al naso che in bocca. Un vecchietto con cui parlare, a cui portare rispetto. Una piccola vena acida sembra tenerlo ancora in vita.
1988: leggero sentore di tappo. Non sono abituato a bere vini bianchi fermentati e affinati in legno come fanno in Borgogna dato che in italia lo fanno sempre, o quasi, male. Mi aiutano alcune persone al tavolo che degustando ad alta voce mi fanno avvicinare meglio al vino, nonostante io sia un sommelier al secondo livello. Ma con questi vini non credo serva a molto la terminologia ais. Giallo dorato con riflessi ambrati, complesso e si nota una speziatura dolce di vaniglia. Abbastanza armonico ed equilibrato peccato per il tappo. 1990 si avverte gia dal colore che c’è un cambio di passo. Svanisce il riflesso ambrato e il giallo dorato si evince nitidamente. Al naso è fluido, preciso, complesso. Speziatura di frutta secca e bella mineralità. Equilibrato e maturo. Un vino armonico e qui si capisce che l’artigianato supera l’industria.
1993 un ragazzo affianco a me mi fa riconoscere il sentore di salamoia che secondo lui che è piu esperto di me, contraddistingue i vini di Valentini e io gli credo. Un altro gran bel vino. Elegante.
1995 bella acidità e beva. 1997Spezie doci. Mi si comincia a bloccare il naso. Assuefazione da trebbiano in legno.
1998 elegante, rustico, pietra focaia e mineralità spiccata. Armonico.2000 il vino che mi è piaciuto di più in tutta la serata. Movimentato, con qualche difetto. Botte vecchia? Noto davvero l’artigianalità del prodotto. Scalcia nel naso. Profumi terziari a go-go dalle spezie, all’etereo quasi idrocarburo, per poi placarsi e ricominciare. Bella acidità, abbastanza equilibrato ma mi piace nella sua imprecisione. Lo immagino questo dentro una botte dei primi del novecento che non sa cosa fare, come trasformarsi e poi continuare a scalciare dentro una bottiglia per un altro decennio.2001 n.c.
2005 n.c.
Mi sale l’alcool e ho fumato gia due sigarette. Sono un coglione!2007 già bevuto 3 anni fa dove lo trovai giallo dorato con riflessi verdolini, bella freschezza, ma un legno non ancora del tutto amalgamato, troppo prevaricante. Nonostante tutto mi rimase in bocca fino al giorno dopo. Questa sera lo trovo diverso. Il legno non lo sento più cosi tanto, ma il vino sembra piu fiacco, come se stia dormendo. O forse dormo io!?
2008 n.c.
Devo riportare la macchina e lo faccio bere al mio amico il buon Fabio. Serata molto bella all’insegna dello stare insieme solo perché accomunati da una passione o forse sono di piu le passioni che ci accomunano? Stiamo combattendo o ce la stiamo spassando? Non lo so. Ci stringiamo le mani tra un caffè e una grappa alla genziana fatta in casa aspettando di rincontarci di nuovo, non sapendo né dove, né quando, ma solo che ci rincontreremo. Con affetto GiulioFlavio Rossi
Verticale, questo è sempre stato per me il Trebbiano di Valentini: una parete verticale da scalare con fatica, sacrificio e dedizione. Una via per una vetta che non sempre riuscivo a raggiungere, non per colpa del vino ma per i miei limiti.
Occorre superarli i propri limiti per capire questo capolavoro, non ti regala niente. Si concede solo dopo un lungo e serrato corteggiamento, non è mai amore a prima vista.
Verticale: “Che ha la direzione del filo a piombo, che è perpendicolare a un piano orizzontale” oppure “che si articola dall’alto in basso da un livello superiore ad uno inferiore o secondo una determinata successione di valori o di fasi”.
Ecco, niente di tutto questo. Qui non c’è nulla di logico, nessuna causa-effetto, niente di scontato.1983
Dici ossidazione e pensi subito che lo stai banalizzando questo vino sublime ed elegantissimo, intriganti sentori di fico, albicocca disidratata, frutta secca e tostatura.
Acidità imponente e rinfrescante, sapidità marina lo tengono vivissimo e te lo fanno amare. Consolatorio monumento.
1988
Note ossidative più leggere del primo, affumicatura, cenere
Punta a oriente per le spezie dolci, il dattero e il ricordo molto vicino del tempo dello yuzu candito assaggiato da Cedroni a pranzo. Sorrido.1990
Questo non è un vino normale, potrei anche chiudere qui perchè è così fottutamente buono che quasi ti ci arrabbi. Spesso ci autoflagelliamo pensando ai cugini francesi ma qui non c’è autolesionismo e autocompatimento che tenga.
Alla cieca manderebbe al tappeto molti cugini borgognoni e ad altri si accompagnerebbe con gioia: affumicatura, lime, camomilla, incenso, frutta esotica, mare ed eleganza infinita.
Fuori scala, semplicemente inarrivabile.1993
Meno imponente e più sottile del suo illustre predecessore (il 1990) ma è un condensato di Valentinità: salamoia, sentori marini, camomilla e freschezza di agrumi da vendere.
Fantastico, da berne a litri!
1995
Pulito, netto e chirurgico con una bellissima tensione olfattiva e una beva straordinaria.
Salamoia e mandorla, fumo di camino e pini marittimi
(questo sì) verticale.1997
Enigmatico e silente, con una leggera nota smaltata e un calore evidente.
Finale leggermente amarognolo
Piacevole ma ostico.
1998
Ecco lo sapevo, lo sapevo che mi fregava. Già sbrodolante e rapito per il 1990 mi arriva questa mazzata, perchè di mazzata si tratta.
Un’entrata a gamba tesa di Paolo Montero (Gae non me ne volere) quando sei ormai tranquillo e beato a crogiolarti nelle tue effimere certezze.
Vino maestoso e complesso, una sinfonia che gioca tra dolcezze, spigolosità e fascino marino oltre a ricordarmi in un attimo di lucidità (o demenza) il divino Coche-Dury (bum! polvere da sparo).
Come scrive il buon Chinasky: “Alcuni non diventano mai folli, i loro vini devono essere noiosi”.
Follia al potere.
1999
Tappo, ingiudicabile.2000
Erbaceo, sottile e sapido. Non lunghissimo e con una leggera nota metallica.
2001
Potente e muscolare con note di miele, frutta esotica e affumicature. Balsamico.
Quasi ingombrante per complessità e impatto bocca/naso.2005
Vino d’erba e mare, Sua Mediterraneità. Menta, timo, prato in fiore, pino marittimo e macchia mediterranea.
Impatto nasale da knock out, satura, inebria e conquista.
Mirabolante.
2007
Indecifrabile, esile e silente, ti tiene a galla in superficie senza mai darti la possibilità di andare in profondità.
Algido.
Marzia Pinotti
[infine, che della medesima serata ne ha già scritto diffusamente nel suo scrupoloso blog Vite in Fermento: Olive, Mare e Vento del Nord]
I quartetto: la serie dei “vini del Nord”, che risentono delle altitudini della Majella e del Gran Sasso quanto a profumi, acidità e mineralità.
1983: smalto e crema pasticcera, erbe e menta, un Marsala d’altri tempi, ricco e sontuoso. Il Vino del Sogno.
1988: idrocarburi e nota candita. Un vino del nord.
1990: erbe aromatiche e nocciola tostata. Caldo, morbido: è secondo me il più allineato ai canoni di oggi, il classico vino che viene universalmente riconosciuto un “grande vino”.
1993: il vino che presenta il maggiore equilibrio in bocca, anche se rispetto al precedente è un vino molto più esile. Forse per questo motivo elegantissimo. Avvolgente e al tempo stesso salato, minerale.II quartetto: la serie dei “vini del mare”, salmastri e salati. Invecchiando, hanno tutti in parte perso la loro natura di oliva franta e in salamoia che si notava appena dieci anni fa.
1995: vino potente, ricorda un po’ il 1990, ma presenta molto meno rigore, un po’ spettinato, tra l’intrigante e il salmastro.
1997: molto buono, più composto del precedente, ma con uno spettro meno ampio di profumi.
1998: sentori tra il floreale e l’agrumato, emerge con prepotenza sopra le erbe aromatiche il bergamotto
1999: il più estremo, quello che maggiormente sfida le convenzioni e tutte le nostre certezze. Salmastro, chiama la vongola, la cerca. E’ un’ostrica in bottiglia.III quartetto (che in verità è un quintetto): la serie dei “vini in salamoia”, i vini di Valentini che conosciamo. Spettro di profumi contenuto, ma coerente e riconoscibile.
2000: (n.d.)
2001: nocciola tostata, crema e carciofo, profumi freschi e vegetali ben integrati a sentori più dolci e avvolgenti
2005: tra il Mediteraneo e il floreale, grande compostezza ed equilibrio.
2007: nota salmastra molto evidente e caffè tostato un po’ spiazzante e, a mio avviso, non gradevolissimo.
2008: una spremuta di olive dolci e salate con una leggera effervescenza percepita sulla punta della lingua, ancora un bambino..
“DISSIPAZIONI” – TERRE DI CONFINE
A distanza di un anno ripropongo più sotto “Dissipazioni” un mio testo critico alla personale Terre di Confine del fotografo Andrea Amadori realizzata dal Laboratorio Fotografico Corsetti a cura degli amici cari Eugenio Corsetti e Fabio Benincasa.
Lo sguardo disincarnato e distante dell’obiettivo fotografico esplora le lande desolate dell’estremo Nord del pianeta, penetrando luoghi nei quali la presenza dell’uomo sembra essere nulla più che un remoto ricordo. Si tratta di Terre di Confine, personale fotografica di Andrea Amadori, una sequenza di 26 fotografie analogiche b/n stampate in formato 30×40 che viene esposta presso il Laboratorio Fotografico Corsetti, in Via dei Piceni 5/7, a partire da venerdì 15 maggio.
Sono istantanee scattate dall’autore nel corso dei suoi numerosi viaggi che hanno toccato ambienti geografici estremi, come l’Islanda, il Canada, l’Alaska, la Siberia, l’Artico, tutti accomunati dal fatto di essere i remoti avamposti boreali della comunità umana. Terre di confine per eccellenza, i cui limiti sembrano sfidare la possibilità stessa di fissare un ordine visivo logico e antropico.
Le tracce dell’umanità non mancano in queste immagini: panchine, pali, relitti, distanti case-guscio, che forse hanno dato rifugio a sperduti cacciatori. Eppure proprio questi dettagli, inghiottiti dallo splendore algido e feroce di una natura invincibile, alludono a una metafisica incomprensibilità del visuale. Un mistero tangibilmente evidente che l’uomo è costretto ad affrontare quando si confronta con la solitudine e con i propri limiti, invisibili confini ottici e mentali.
Le immagini di confine di Andrea Amadori ci trasportano dunque in una dimensione di silenzi avventurosi, una “dissipazione” dell’umanità come nota acutamente Gaetano Saccoccio nel suo intervento critico: “quadri d’attimo in definitiva sfregiati da un’entità invisibile che ha qualcosa più del disumano, dove il prefisso “dis” sta ad intensificare maggiormente la sparizione dell’umanezza”.
Stampe ai sali d’argento eseguite dal Laboratorio Fotografico Corsetti.
Andrea Amadori è nato nel 1984 e vive a Roma. Laureato in ingegneria, lavora nel settore delle fonti energetiche rinnovabili. Ha molte passioni, principalmente i viaggi e l’arte, in tutte le sue forme espressive. Appassionato di fotografia sin da bambino, inizia ben presto a praticarla in senso artistico. Per rappresentare introspettivamente le emozioni preferisce la fotografia analogica a quella digitale e in particolare il bianco e nero. Fra i suoi temi preferiti la natura e il mondo che ci circonda, spesso colto in luoghi estremi e in spazi lontani, che gli permettono di coltivare la sua altra passione, quella per il viaggio. Nel 2005, appena ventunenne, viene invitato ad allestire una sua personale intitolata La percezione del nulla, incentrata su un suo viaggio in Mongolia.
Nel 2008, gli artisti del duo Two&New (born) lo chiamano ad unire al loro estro, imperniato sullo studio dei volatili, la sua espressione fotografica nella mostra New angulus ridens, presso l’Istituto Musicale di Alta Cultura “G. Paisiello”, nell’ex Convento di San Michele a Taranto. Negli anni successivi, realizza altre esposizioni personali a Roma, tra cui …Pensami altrove. Una sua intervista è stata pubblicata sulla rivista fotografica on-line Photo&Retouching. Fra i suoi progetti futuri: un reportage notturno con diapositive a colori, in Asia.
http://cargocollective.com/andreaamadori
DISSIPAZIONI
«Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, […] Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati.»
(Guido Morselli da Dissipatio Humani Generis, Milano, Adelphi, 1977)
Di tutte queste 26 immagini, sono soltanto 6 scatti a manifestare una quasi annullata presenza del Caso Clinico Uomo, eccetto si direbbe – e non è proprio cosa ovvia – l’umanissima rètina del tipo-fotografo, a sua volta assestata protesi meccanica su cavalletto: occhio velato dietro a un obiettivo comunque manufatto dall’homo technologicus, che inquadra e punta dritto al paesaggio in questa vertiginosa mise en abîme tra Civiltà e Natura.
Dunque abbiamo 6 foto, fugate da un pur irrisorio segno d’attività o intervento più o meno invasivo da parte di qualunque organismo vivente – umano o animale – che conformano un mondo perduto di ghiacci, montagne innevate, vive foreste d’abeti, tronchi d’albero morto, sulle rive del lago antracite.
Potremmo ben figurarcela quindi come location postumana d’un ipotetico The North a luci di posa appena spente, senza cioè più le imbarazzate e pseudo-illuministiche messe-in-scena del povero bon sauvage Nanook di Flaherty o la tracotante e – bene o mal corrisposta – naiveté dal Grizzly Man di Herzog sino ai fastidiosi fasti blockbuster e al finto ecologismo in imposta ottica Paramount alla Into the Wild.
Ora, segnate o no dall’impronta del passaggio umano, proporrei per tutti e 26 questi paesaggi la definizione di fotografie/monologo nelle quali la voce, pardon, la lente dello sguardo sinestetico del protagonista-fotografo bofonchia – con lucidità di mente e fermezza di mano – una frase amara dal Morselli più desolato: «Andarmene, dunque senza lasciare traccia. Questo mi è parso essenziale».
Eppure, nebulizzata l’umanità oltre i margini, cancellato lo scarabocchio di carne ed ossa come sfrego di matita sulle pagine di neve o di nuvola, proprio da questi rettangoli del mondo esteriore in bianco-acqua/nero-terra, tralinea il soffio d’un respiro a Sistema Zonale di colori ed è la vita intima multidimensionale di colui che ha fissato questi spazi polari (e perché no bipolari?) attraverso la macchina del tempo fotografica. A proposito del pensare per immagini e dei fogli di nuvole, a parte l’esplicito e dovuto rimando al Padre/Padrone Ansel Adams, per quanto virate in tonalità di bianco-nero-grigio, da queste diapositive scintilla subitaneo alla mente ∞ Infinito di Luigi Ghirri, 365 scatti di cielo, ognuno per quanti sono i giorni dell’anno, corollario inconscio agl’Equivalents di Alfred Stieglitz, foto di nuvole appunto ottenute con un apparecchio Graflex atto alla ottimale focalizzazione dello zenith, che proprio così scarnifica all’osso la – alla fine dei conti – condivisibile Weltanschauung del «caos del mondo e sua relazione con questo caos». Tuttavia son proprio gl’altri 20 scatti – quelli in qualche modo contaminati dall’intervento dell’essere umano e dalle sue abitazioni per quanto inospitali – son proprio questi insomma i quadri d’attimo in definitiva sfregiati da un’entità invisibile che ha qualcosa più del disumano, dove il prefisso “dis” sta ad intensificare maggiormente la sparizione dell’umanezza. Una staccionata sfocata nella nebbia a delimitare approssimativi sconfinamenti sul pianeta delle nevi illimitate e accecanti che mettono così alla dura prova anche il più sofisticato filtro di polarizzazione della luce. Il relitto “fuori luogo” d’un aereo a specificare – qualora ce ne fosse urgenza – la genetica opposizione del progresso arrogante ed inorganico della inciviltà post-industriale contrapposta all’universo spontaneo d’una natura autosufficiente anche e soprattutto senza di noi. La rompighiaccio abbandonata su una rena secca e sassosa, che contrappunta quell’altro ambiente aereo coi vapori dei geyser su superficie di fango lunare che ambiguamente si mostra pure come un’apnea di macerazioni boreali.Cubi d’abitazioni (abitate?) coi tetti d’erba e di legno lavorato o scoperchiati (inabitate!) a subire un soffitto cinereo di nubi all’uranio liquido.
Carcasse d’automobili e uno school bus fantasma che assieme alla scritta Maligne Lake sulla boat house – s’evince una località turistica durante la stagione buona – proiettano verso ancor più minacciose prospettive hitchcockiane dove però non ci son più né giovani innocenti né caccie a ladri o fuorilegge, né tanto meno uccelli assassini e se c’è da qualche parte un lago ridente questo è ormai sepolto dalla neve, almeno per un istante – quello dello snapshot – che durerà cartier-bressonianamente ab aeterno. Avventurati sulle geometrie non-euclidee di quest’arcipelago di rappresentazioni, avviene ad un certo punto l’indicazione stradale a un posto impronunciabile, impilata in un tumulo di sassacci come fosse la sepoltura futuroprossima di colei o colui che sta lì fisso ad osservare questo habitat oggettivo che non prevede punto soggetti alcuni, osservatori o osservati essi siano. Difatti ecco il ponticello sull’acqua lacustre che direziona sul nessun luogo pedemontano eventuali Dead Men di passaggio, così pure le obbligatorie 4 croci bianche utili all’effetto finale di un piano sequenza di John Ford, artigiano del Western, o addirittura emerse con freudiana forza espressionista dal Nosferatu di Murnau. Punto di fuga e d’osservanza privilegiato, una panca vuota possibilmente adatta a meditazioni di Zen settentrionale, appoggiata su un canyon che è già a sua volta anfiteatro montagnoso ed embrione geologico, affacciato sugl’abissi trompe-l’oeil del cosmo aurorale… a Nord di nessun Sud. [gae saccoccio]
Il senso di Joško Gravner per la Ribolla: Cena al Per Me Giulio Terrinoni
“Essere contadini non significa fare solo il vino, il contadino deve saper fare tutto!”
Joško Gravner
Joško Gravner non ha bisogno di tante presentazioni o tantomeno salamelecchi. Qualsiasi sfoggio elogiativo, celebrazione in vita e panegirico non possono che risultare lacunosi e insinceri, inadeguati a restituire la complessa semplicità (leggi anche semplice complessità) di Joško uomo, filosofo, contadino e viticoltore nel Collio, ad Oslavia per l’esattezza.
Da una fase giovanile di ricerca inesausta ed irrequietezza sperimentale del “tanto è buono” Gravner arriva oggi nella piena maturità e saggezza del suo percorso di vignaiolo ad una sfera di consapevolezza che possiamo ben definire senza tema di smentite anzi con l’approvazione taciturna e sorridente dello stesso Joško, del: “meno è meglio”.Gravner è quindi un architetto nella natura le cui linee guida e strumenti di lavoro quotidiano sono quegli stessi termini utilizzati come categorie di pensiero e d’azione ad indicare le sezioni equivalenti anche nel sito aziendale che lo racconta: la Luna, l’Uomo, le Case, la Terra, l’Acqua, le Vendemmie, la Cantina, il Vino.
Uomo, Filosofo e Contadino, Joško dicevamo è soprattutto un Architetto “nella” natura e non “della” natura. Sembra niente, solo il cambio di una preposizione articolata ma in verità è una sottrazione non da poco, un togliere cioè d’arroganza e di sopruso perché essere architetti della natura equivarrebbe all’atto tracotante di sostituirsi a un Ordine Supremo, di qualunque entità religiosa, mitologica o mistica esso sia. Essere invece architetti nella natura riporta più ad un senso di misura, di modestia, d’equilibrio e di scambio alla pari, il più idealmente possibile alla pari, tra l’Uomo e la Natura.
In altra occasione sempre su questo sito si raccontava una degustazione di annate storiche di Gravner avvenuta a Catania: Il Vino come Narrazione del Paesaggio nel Tempo e nello Spazio.
Per quanto mi riguarda fino ad ora credo di poter tranquillamente affermare che l’esperienza più toccante che abbia mai vissuto da quando frequento cantine, vignaioli e aziende vinicole l’ho avuta proprio da Gravner assieme a Joško.
Ceniamo in famiglia con moglie e figlia, Mateja, ed è una cena austera come piace a me a base di rape macerate nelle vinacce della loro cantina per qualche semestre, salsiccia stufata, pane rustico di casa e un’insalatina del loro orto condita con aceto di cachi fatto sempre da Joško accompagnato da qualche fetta del suo meraviglioso salame da maiale brado di cui va così fiero quasi quanto, se non addirittura più, della sua Ribolla “tutto tagliato al coltello e soltanto con l’aggiunta minima di 18 gr. di sale..”
Bevuto l’ultimo sorso di Ribolla 2007 e dopo avermi mostrato la bottiglia distesa in orizzontale sul tavolo e fatta rotolare sotto le sue mani come fosse un mattarello o con l’idea quasi di spremerne e strizzarne il vetro sulla superficie, mi fa: “Lo sapevi? Così il vino che era rimasto sulla parete interna della bottiglia si raccoglie in fondo e ne scende giù ancora un altro goccetto..” e difatti a fine della dimostrazione rialzando la bottiglia me ne distilla nella coppa quella lacrimuccia recuperata dall’operazione. Sono coppe amplie senza gambo quelle in cui beviamo, con un paio d’incavi adatti ad inserirci le dita, ideate da lui ispirandosi alle tazze dei monaci ortodossi conosciuti in Georgia quando andava nel Caucaso alla ricerca delle grandi anfore di terracotta; sono coppe in vetro realizzate da Massimo Lunardon che rimandano al gesto semplice ed ancestrale del bere con le due mani giunte a coppa appunto.
“Bene! Vado a riprendere il cavallo in campagna, che fai, vieni con me?”
Era una serata fredda ma tersissima di metà Marzo, la luna piena o quasi. Passeggiamo per ore tra le vigne di Joško l’uno accanto all’altro mentre il mio Frank Lloyd Wright dell’uva con il passo sereno e il sorriso onesto di un bambino tra i suoi giochi prediletti mi illustra i lavori nei campi del giorno prima e quelli da fare il giorno appresso, le orme dei cinghiali, le pre-potature delle viti e le potature degl’alberi da frutto, la simmetria delle vigne e loro forma d’allevamento, il senso della disposizione degli stagni per tutto l’anfiteatro dei vigneti al fine di ricostituire maggior biodiversità possibile (api, insetti, zanare, uccelli, pesci, gelsi, meli selvatici, sorbi dell’uccellatore, mandorli, peschi…), per una riappropriazione del senso più genuino di podere agricolo inteso a trecentosessanta gradi e non solo come sistema monocolturale intensivo così come purtroppo si è tramutata la gran parte della viticoltura attuale anche quella piu virtuosa e attenta per ovvie ragioni di commercio e sussistenza economica. “Essere contadini non significa fare solo il vino, il contadino deve saper fare tutto!”Ogni dettaglio anche il meno visibile ad occhio umano medio nella mente architettonica di Joško, perfezionista ed essenzial-centrico, è un elemento minimo mai ornamentale ma sempre sostanziale alla visione d’insieme. Allora mi racconta del restauro della casa degl’avi, di uno scultore che vive in selvatica solitudine trai boschi della Solvenia che gli ha fatto dei lavori in pietra di una devozione da artigiano medievale, sia la nicchia che la Madonna per una cappelletta con un tormentato percorso burocratico d’edificabilità affidato alle solite amministrazioni comunali, di una bellezza severa e di una precisione universale da commuovere un umile bracciante tanto quanto un raffinato storico d’arte. Ragioniamo e passeggiamo quindi come due peripatetici di scuola Stoica, calcando la terra, sfiorando i filari, scalciando i sassi affioranti dalla ponka. Discutiamo di cambiamento climatico, di biodinamica, di espianto dei vitigni internazionali, di Ribolla, di annate con la botrite nobile, di trattori e cingolati, di caprette tibetane ne ha tre in azienda una quarta è morta perché malata, di controllo della qualità e maturazione delle uve: “mandare ad analizzare la propria uva in laboratorio è indice di insicurezza ed ansia da prestazione, ogni viticoltore dovrebbe essere certo per consapevolezza ed istinto di quel che è il grado di maturazione della sua uva semplicemente assaggiandola… nella serenità si può attendere l’ultimo giorno possibile per la vendemmia!”
Ragioniamo ancora di fasi lunari, d’attitudine agricola artigianale, d’approccio limpido in vigna e in cantina il meno invasivi che si possa: “perché il vino si è fatto per millenni così nella maniera giusta, la Tecnica è un bene solo se a supporto non a sopruso della materia prima, – l’uva cioè -, che deve arrivare a vendemmia il piu sana, croccante e perfetta possibile prima di poter essere portata in cantina.” Passeggiando e conversando, saranno passate così un paio d’orette, in un campo che dirada verso i boschi immerso in una marea d’erba lunare Joško chiama a raccolta il suo cavallo Saška e Saška dal fondo del campo nitrisce e corre in su elegantissimo verso di noi, il manto rilucente di rugiada notturna. Lo riprendiamo con noi assieme ai due cani che erano già fin dall’inizio in nostra compagnia per rientrare verso casa.
Fermi davanti a un albero con una potatura a pergola da farmi pensare a certi splendidi giardini Zen intravisti in Giappone, Joško accanto al suo Saška mentre gli strofina amorevolmente il dorso mi fa: “Sai che cosa è? Ne ho piantati due di questi alberi qui tra le vigne. È un Ginkgo Biloba, una pianta antichissima e resistente che è sopravvissuta all’estinzione dei dinosauri e alla bomba di Hiroshima.”
Date queste premesse in cui a rischio d’autoreferenzialità mi sono permesso di raccontare l’emozionante lezione di vita, di etica ambientale e di botanica che ho ricevuto ad Oslavia una sera fredda e ventosa di metà Marzo, ecco che assieme ad Alberto e Nanni dell’agenzia di comunicazione Cultivar ci siamo riproposti di portare Joško Gravner giù a Roma ad una cena da Per Me Giulio Terrinoni con un’approfondita verticale della sua Ribolla in assaggio.
In questa serata romana d’incontro tra Joško Gravner, Giulio Terrinoni e la ventina di fortunati che sarebbero riusciti a prenotarsi per tempo e ad affrontare il costo impegnativo della cena, l’intento impossibile ma prioritario che mi ero ripromesso era proprio quello di riuscire a portare in città almeno un frammento campestre e densamente magico di quella mia notte d’iniziazione con Joško nella sua vigna-giardino.Certo non è mai facile in queste degustazioni dove ci si ritrova fondamentalmente racchiusi con estranei in una stessa sala a condividere un’esperienza conoscitiva che presuppone intimità, confidenza e misurato tono di voce, è proprio questa la barriera psicologica più aspra da abbattere, il ghiaccio più duro da spaccare. Nel caso di Joško poi a maggior ragione, pesce fuor d’acqua quanto mai e soprattutto fuori dai suoi usuali scarponi di campagna da dove l’abbiamo sradicato per catapultarlo in una dimensione di cena urbana tra sconosciuti.
Ritengo tuttavia che alla fine l’esperienza unica di penetrare a fondo i segreti più riposti della Ribolla Gialla assieme al suo interprete più geniale Joško Gravner sia abbastanza ben riuscita e Joško stesso senza troppe forzature espressive, perplessità o formalismi ha avuto agio, spazio e modo di raccontare se stesso, l’ecosistema delicato del suo cosmo vitivinicolo, l’Oslavia e la propria vigna-giardino.
Con la complicità di Giulio Bruni, Fabrizio Picano e Flaminia Francia in sala assieme agli amici Jacopo Cossater e Federico de Cesare Viola ad incoraggiare le pulsioni della conversazione domestica sul vino, le annate, il cibo, il suolo, il terroir in compagnia di Joško, Mateja e il pubblico dei partecipanti accordati allo spirito di relazione della serata, il convivio ospitato nella casa-cucina di Giulio Terrinoni ha assunto man mano sempre più il giusto timbro atmosferico e l’umore uterino di una conversazione in famiglia tra noi, Lui, la sua Ribolla Gialla presentata in 7 annate diverse assieme ad altrettante portate fortemente pensate da Terrinoni per l’abbinamento ai vini su alimenti indicati dallo stesso Gravner e trasformati come per miracolo in cibi filosofali nelle mani controllatissime di Giulio, alchimista dei fornelli.
Questo è stato il menu della serata:
Il risotto di triglie, carciofi, animelle e mentuccia romana ad esempio ha quintessenzializzato il senso dell’intera serata con l’utilizzo di elementi/alimenti nobili ed eterei quali l’animella appunto armonizzata ai più umili e terrosi carciofo e triglia, il rimando ancestrale quasi proustiano direi alla memoria della mentuccia usata dalle nostre nonne, cogliendo così l’abbinamento forse più con/geniale con i vini di Joško che sono difatti una vera spremuta di nobile umiltà e rammemorazione presocratica generati tanto dalla Terra che dal Cielo che dall’Acqua, matrice di vita fluida.
Verticale di Ribolla Gialla Gravner in abbinamento alla cucina del Per Me Giulio Terrinoni:
Non posso qui non ringraziare tutti quelli che hanno contribuito alla realizzazione di una cena a dir poco perfetta: ospitalità, controllo delle materie prime, servizio in sala, temperatura dei vini, tono familiare della conversazione a tavola, serena aria di convivialità tra i commensali, curiosa disposizione all’ascolto, sacrosanta sete di buon vino, semplicità e conoscenza. Il vino di Joško Gravner è un vino cosmico, è il respiro del mondo sotto-vetro, è uva al suo grado di maturazione perfetta, è poco-poco zolfo, è eternità di Tempo Opere e Pensiero spremuta dagl’acini d’oro finissimo racchiusi nel grembo della vigna-giardino e armonizzati al sistema solare materno. Dalle rocce calcaree alle stelle, posso ritenermi davvero strafelice d’aver innescato quest’alchimia filosofale tra Supremazie.. dal buon vino al buon cibo alla buona compagnia.Concludo infine aggiungendo in rosso il commento di un “lettore social”, commento se vogliamo anche legittimo in senso amplio, ma un po’ troppo generico e superficiale nello specifico, a cui rispondo più sotto in verde.
Dalla degustazione bendata Alla Cieca per Vederci Meglio messa in piedi assieme a Bevitori Indipendenti al Cave Ox di Solicchiata la sera della vigilia di Contrade dell’Etna il 17 Aprile scorso (2016), ecco che dopo neppure un mese spunta fuori all’improvviso una mirabolante relazione ricostruita con occhio e orecchio precisi, genuina curiosità, partecipata ironia ed efficace senso della misura dall’economista, archeologo e wine enthusiast Keith Edwards riportata nel suo blog: Wine – Mise en Abyme.
Edwards era presente anche lui quella sera alla strabordante degustazione etnea trovandosi in Sicilia – come ben racconta nel suo pezzo – per un giro di perlustrazione enogastronomica europea direttamente dalla sua Orlando (Florida). Avremmo dovuto essere massimo 70 persone ma alla fine eravamo quasi cento cristiani tra gente in piedi e seduti ai tavoli in quella fatidica sera che ancora non mi è ben chiaro – né credo sia chiaro altrettanto a Valerio Capriotti, Alberto Buemi e Sandro Dibella – di come siamo riusciti a sfangarla fino a uscirne vivi.
Traduco quindi di seguito il vivace articolo di Keith: Blind Tasting at Cave Ox, ringraziando innanzitutto il comune amico Brandon Tokash caloroso ambasciatore della Sicilia residente sull’Etna il quale ha fatto scintillare questo stupefacente cortocircuito tra noi fomentati della degustazione bendata, nella medesima serata di cui appunto si ricostruisce qui l’essenza, le ragioni e gl’esiti di fondo catturati con non comune arguzia dallo stesso Keith Edwards.
Queste sono risultate essere dunque le bocce una volta smutandate delle loro bende:
I batteria:
1. Cantine Olivella Catalanesca 2013
2. Filippi Soave Vigne della Bra’ 2013
3. Monte dei Ragni Soave Inamphora 2014
4. Malvasia di Candia Camillo Donati 2012
5. Cidre Brut Eric Bordelet
II batteria:
6. Rosato Le Coste 2014
7. Vittorio Graziano Lambrusco Grasparossa Fontana dei Boschi
8. Masseria del Pino – Rosato Super Luna (Sample not for sale)
9. Francesco Guccione NM (Nerello Mascalese) 2013
10. Eduardo Torres Acosta – Versante Nord 2014
11. Masseria del Pino – I 9 Fratelli Etna Rosso
12. Chateau Las Collas Rivesaltes 1995
Ad ogni modo per gli interessati linko qui il videoclip (a cura di Salvatore Gravina) che testimonia il mood della serata e per chi volesse poi proseguire con ulteriori approfondimenti sul tema sempre in questo mio spazio virtuale da vinosofo ambulante avevo già proposto fondamenti, linee guida e motivazioni generali sia pratiche che teoriche del degustare i vini alla cieca poiché solo così si sente, si giudica e si gusta attraverso i propri occhi naso e bocca scintillanti sciolti da opportunistici vincoli d’ordine sociale e senza quegl’insidiosi condizionamenti del Marketing.
Alla cieca insomma per aprirsi ancor più gl’occhi il palato e la mente!
Accecando le bottiglie di bianchi frizzanti rossi e rosati “ciclopici”, abbiamo inteso così restituire più vista a tutti i sensi di chi s’approccia al vino senza condizionamenti, frigidezze, ansie da prestazione, serietà da beccamorti e ottusi pregiudizi ritrovando così quello stesso vento di scoperta e spirito d’avventura che muove Ulisse, primo esploratore sul mare “color del vino”.
[gae saccoccio]
Degustazione alla cieca al Cave Ox (Solicchiata – Castiglione di Sicilia): il mio primo evento in assoluto sull’isola.
Con un “amico di bevute” ci si stava organizzando per una visita nella provincia della Rioja a fine Aprile. Stavamo decidendo di estendere quel viaggio in modo da poter includere anche le degustazioni di Galloni con Vinous a Londra non appena sono state annunciate. Man mano che si avvicinava la data del viaggio ho cominciato però a pensare che in fondo ero già stato nella Rioja quindi se proprio dovevo ritornare in Europa, forse avrei dovuto visitare un altro posto che non avevo ancora avuto occasione di vedere. Così ho comunicato al mio amico che ce ne saremmo belli che andati sull’Etna!Ho quindi scritto un messaggio a Brandon Tokash (il mio nuovo miglior amico che vive proprio sull’Etna e che ho incontrato la prima volta al IV Winelover Anniversary Celebration di Atene) dicendogli che con un gruppo di amici saremmo andati sull’Etna per un fine settimana. Brandon mi ha subito scritto così: “non puoi venire sull’Etna e non visitare anche il resto della Sicilia”, consigliandomi di prenderci almeno un altro paio di giorni per scoprire anche un’altra parte di Sicilia oltre all’Etna. Mi sono in effetti trovato subito d’accordo con Brandon così proprio assieme a lui avremmo visitato prima altre zone della regione e saremmo poi andati sull’Etna per il fine settimana a visitare alcune aziende vinicole.
Una volta che andavo sul Vulcano più alto d’Europa Brandon ha aggiunto che sarebbe stata un’ottima occasione per me, capitava di lunedì, di partecipare a Contrade dell’Etna – un grande evento dove si ritrovano tutte le aziende dell’Etna con i loro vini in esposizione – e poi visto già che c’ero, la domenica sera prima di Contrade al Cave Ox di Solicchiata avrei potuto anche partecipare all’evento in programma: Alla Cieca per Vederci Meglio. Ed è così che mi sono ritrovato alla fine a partecipare appunto a questa degustazione alla cieca sull’Etna, una domenica sera di metà Aprile.La degustazione comprendeva due batterie – una I batteria di 5 bottiglie e una II batteria di 7 bottiglie – ed è stata condotta da Valerio Capriotti di Bevitori Indipendenti e Gaetano Saccoccio di Natura delle Cose. Gli organizzatori hanno impostato la degustazione alla cieca con l’intento principale di sbarazzarsi del fardello della riconoscibilità di un’etichetta di vino da parte di chi si dispone a degustare. Se l’identità di un vino resta sconosciuta ai degustatori, questi ultimi non condizionati dalle etichette possono concentrarsi meglio sulle caratteristiche prinicipali del vino basandosi maggiormente sui sensi dell’olfatto del gusto e della vista non facendosi influenzare dal marketing.Il Cave Ox si ritrova dentro un cortile interno. Lo spazio di fuori davanti all’entrata è allestito con tavolini da esterno e ancora più su ha un aspetto di giardino rustico contornato di altri posti a sedere. Al nostro arrivo alcune persone erano sia sedute che in piedi a discutere tra loro fuori l’ingresso e Brandon si è fermato a salutare e parlare con ognuno di loro. Ci sono voluti letteralmente 30 minuti prima che dall’entrata riuscissimo a raggiungere l’interno del ristorante dove a quanto pare avremmo dovuto prender posto. Brandon ha stretto ogni mano, abbracciato ogni petto, baciato ogni ragazza prima di arrivare al nostro tavolo. Brandon, che tipo! Dovrebbe proprio considerare l’opportunità di candidarsi a fare il sindaco o qualcosa di molto simile!La serata era al completo oltre ogni dire. Nella sala principale c’erano tre o quattro tavolate disposte in parallelo e altri tavoli aggiunti sotto le due nicchie adiacenti alla sala maggiore. I tavoli erano molto costipati così le sedie erano tutte appiccicate tra di loro tanto da avere un senso d’oppressione e la viva impressione di come possano sentirsi le sardine quando vengono disposte dentro le loro scatolette di latta.
Ammeto di aver avuto una certa apprensione su come potevano andare a finire le cose sapendo che la degustazione sarebbe stata condotta in italiano – la conoscenza del quale per quanto mi riguarda si limita ad alcuni pochi nomi di produttori di Barolo e Montalcino – e non volevo poi di certo gravare eccessivamente sulle spalle di Brandon facendogli sentire che avrebbe dovuto marcarmi a vista al fine di smorzare il mio disagio. Tutte queste mie perplessità si sono comunque disciolte in aria non appena ho visto Gae. Ho riconosciuto il tipo fin dall’aspetto, venuto fuori direttamente dalle strade di Williamsburg a Brooklyn, Gae sembra un hipster di quelli che piacciono a me, gente della mia gente senza dubbio, quindi tutto non sarebbe potuto che andare di bene in meglio!Il discorso d’apertura l’ha tenuto Valerio, un’introduzione piuttosto lunga ma ha mantenuto viva l’attenzione dei partecipanti. Basandomi sui commenti di Brandon sembra che Valerio abbia illustrato una contrapposizione tra vini naturali e vini convenzionali, o, sempre a detta di Brandon, una: “bastardizzazione del vino.” Come Valerio ha finito il suo imbonimento è arrivato il turno di Gae di tirare il suo calcio di rigore e così siamo stati accompagnati per mano nel cuore vivo della faccenda.
La sala era tutto un ronzare e un brulicare delle conversazioni cacofoniche del pubblico intento a tentare d’anticipare l’identità del vino bendato, con la moltitudine dei camerieri saltellanti attorno ai tavoli per servire il vino e degli operatori fotografici intenti a riprendere con video e foto le successioni dell’evento. Appena servita la prima bottiglia il silenzio è calato sulla sala con i partecipanti tutti presi e concentrati a valutare il vino di prima mano. Già dopo le prime annusate e i primi sorseggi il livello del rumore di fondo si è nuovamente rialzato con la gente che cominciava a descrivere le proprie sensazioni al riguardo azzardando ipotesi e supposizioni sull’identità del vino in questione.
Il giovane seduto proprio di fronte a me (Dimitri Lisciandrello) ad esempio ne ha fatto un vero caso appassionato in merito alla sua convinzione su che tipo di vino si trattasse e alla fine, per quanto la sua ipotesi sembrasse contro corrente: “un bianco campano”, si è rivelata essere proprio quella giusta nel frattempo che gli altri partecipanti erano invece quasi tutti completamente orientati verso un’altra idea, tipologia di vino e regione vinicola.
Questa procedura, inclusi i dialoghi fra “i deputati” e i commenti dagli “imputati” in aula si è ripetuta per ogni vino e per tutta la prima batteria.
Cave Ox è particolarmente famoso per la sua ottima pizza, quindi dopo averci servito un gustosa serie d’attraenti antipasti siamo stati intrattenuti con una successione di ancor più allettanti e clamorose tipologie di pizza. Brandon sempre accanto a me e sempre così disponibile man mano mi aggiornava sui nomi e gli ingredienti di ogni tipo di pizza, su chi fossero gli altri partecipanti alla serata, le loro connessioni alle aziende vinicole visto che quella stessa sera la gran parte dei componenti del pubblico erano tutti chi produttori chi enologi chi vignaioli o comunque tutti in un modo o in un altro coinvolti nel mondo del vino.Alla fine della prima batteria tutti i vini sono stati rivelati uno ad uno. Ad ogni scoperta di bottiglia è seguito un dialogo piuttosto animato tra il pubblico e gli organizzatori, una discussione che presumo esser stata assai istruttiva e ben informata.Insomma, alla fine della serata non conoscevo neppure un’etichetta di tutti e 12 i vini scoperti ma l’intera esperienza mi ha davvero aperto gl’occhi.
C’è sicuramente maggior interazione e coinvolgimento in questo modello di degustazione che nei convenzionali format d’assaggio del vino con un oratore che conduce la parata. E veramente devo dire che bere alla cieca così mi ha quasi costretto ad usare tutti i sensi per scovare le caratteristiche nascoste dei vini sebbene non avessi alcun riferimento o parametro dalla mia parte su cui fare affidamento per una comparazione e un confronto.
Sono poi rimasto molto impressionato da un dialogo che si è sviluppato verso la fine della serata.
Appurato che il pubblico si componeva dei massimi produttori e chef della regione, un dibattito di considerevole portata filosofica è esploso verso la fine. Non ho potuto comprenderne le parole ma ne ho intuito pienamente il senso, le emozioni e le radicate convinzioni che lo animavano. Ah in quel preciso momento, quanto ho desiderato essere una mosca sul muro.
Del Food Advertising e d’Altre Incresciose Prese per il Culo – George Carlin sul Cibo-Marketing
Accolgo in questo mio angolino dello “sfogo psicoanalitico” alla Charlie Brown, un pezzo al fulmicotone di quel gigante della stand-up comedy che fu George Carlin.
È uno spietato monologo relativo al linguaggio pubblicitario del cibo e alle manie, ossessioni, mode, cliché, paranoie ad esso collegati. Non ho fatto altro che riportare più sotto il testo della traduzione ritrascritta (riveduta in rari casi), contornato da alcune nostalgiche e belle immagini d’archivio da me stesso ricercate con ardore da maniaco nelle biblioteche online del mondo.La perdita più grave nella sola lettura di un testo comico/teatrale/performativo come in questo caso è il guizzo di vitalità immediata, la sfumatura irreplicabile dei toni, la mimica della maschera facciale, lo slang dei gesti del monologante, un suo tic linguistico, una maniera tutta sua d’accentare le parole, un cambio di timbro, una smorfia, un tentennamento o una pausa improvvisa.
Ho evidenziato in rosso granata il testo di Carlin che seguirà ed è la trascrizione di questo brano raccolto da youtube che qui potete anche vedere e goderne fino alle lacrime proprio per lasciarvi la visione d’insieme sia all’ascolto che alla lettera che alla vista in maniera tale da non perdere il contatto con quella che è soprattutto l’energia e la vivacità del parlato. Mancherebbero poi in effetti l’olfatto e il gusto cioè i sensi fondamentali e quelli forse più trascurati da noi mammiferi urbanizzati ed è proprio di questi che qui infatti si tratta visto che di cibo pure ragiona Carlin, satireggiando, schiaffeggiando e sferzando con una lucidità ed una consapevolezza tali che produttori di vino o di cibo, ristoratori, gastronomi, food-blogger, critici della tavola, massaie, praticanti cuochi e master-chef dovrebbero farne assoluto tesoro a buon uso e senz’altro minor abuso della propria professione.
Un altro mostro sacro/dissacrante della comicità diretta e senza peli sulla lingua Bill Hicks era anche lui molto esplicito nei confronti dei pubblicitari, apertamente schierato contro il Grande Male rappresentato dal “fucking marketing” più in generale.
Rivolgendosi al suo pubblico a teatro diceva: “Se c’è qualcuno qui tra voi gente che lavora nella pubblicità o nel marketing… prego, uccidetevi pure, ammazzatevi adesso!”
Stesso auspicio che solidale con Hicks e Carlin rivolgerei benignamente anch’io alla faccia tosta della categoria intera dei pubblicitari parassitari, sparacazzate pubblicisti rivenditori di fumo in cui ahimè, – acquisita questa vita sempre più virtuale e mercificata in cui sprofondiamo tutti nessuno escluso a quel che m’è dato di capire, – a quella stessa categoria ci rientriamo bene o male tutti quanti indistintamente maschi e femmine, vecchi e bimbi, belli o brutti a Oriente come a Occidente, al Sud come al Nord destinati a un’estinzione anonima di massa global-village che non mi pare poi così tanto funesta e nemmeno cosa tanto più lontana.
Allegria comunque, felicità e buona lettura a chi ride e chi legge, intanto che dura la festa!
George Carlin sulla Pubblicità del Cibo (Food Advertising)
Adesso ci rallegreremo un po’. Torniamo alla pubblicità e facciamo una piccola caccia della “cazzata”, si una piccola caccia alle cazzate!
Osserveremo il gergo della pubblicità e soprattutto le pubblicità del cibo, voi sapete di chi e di cosa sto parlando, conoscete i tipi no?: “..una delizia fresca, sana, naturale, una gustosa bontà, fatta-in-casa, tradizionale… si ma in lattina!” Ecco, proprio di questo sto parlando!
Allora proviamo a dare un’occhiata ad alcune di queste parole:
Tradizionale
Quando senti nominare questa parola “tradizionale”, ti viene subito da pensare: “Oh i vecchi tempi andati…” esatto, proprio quelli là, prima che avessimo le leggi sulle misure sanitarie. Prima che l’igiene diventasse popolare. Quando cioè i bacilli erano ancora considerati una salsa di condimento. “Tradizionale” dovrebbe suggerirti una sensazione di calore, farti pensare a tua nonna. Bah, non so voi ma quando maneggio del cibo non voglio affatto rivedermi davanti quella quarantina di kili di rughe infagottati dentro a una veste nera con un grosso neo peloso che le sporge dalla faccia e il labbro infetto…”Tradizionale” si… e poi c’è il “Fatto-in-Casa”
Fatto-in-Casa
Lo si vede scritto sulle confezioni al supermercato… gente, credetemi, è fisicamente impossibile per una fabbrica di alimenti produrre qualsiasi cosa fatta in casa! Me ne frego se l’Amministratore Delegato vive nello scantinato e cucina su una piastra elettrica. Non succederà mai! E comunque a prescindere non dovreste mai mangiare il cibo precotto o messo in scatola, non fa bene alla salute! Sapete come ho smesso io di mangiare il cibo precotto? Ho cominciato ad immaginarmi la gente che ci lavora alla catena di produzione del cibo in scatola. La prossima volta che salite su un autobus e vedete uno con la cancrena alle mani, ecco immaginatelo nella catena d’assemblaggio mentre inserisce dei pezzettini di pollo dentro una confezione… questo vi guarirà di sicuro, poi tornate a casa e mangiate della cazzo d’uva! “Fatto-in Casa”. Vedete questa scritta anche nei ristoranti: “Zuppa fatta in casa”. Me ne frego di quanto la cameriera devastata dalle anfetamine e con le linee delle Malboro che le segnano la faccia possa ricordarvi vostra madre… ma state pur certi che la zuppa non è manco per niente fatta in casa. A meno che qualcuno non viva nella cucina, ma se è così allora voglio proprio vederlo in faccia ‘sto gran figlio di puttana, voglio controllarlo per bene per accertarmi di persona che non abbia lesioni, pustole, dermatiti, la congiuntivite o la tigna… e pure i pidocchi. Poi c’è lo “stile-casalingo”…
Stile-casalingo
Quando quegl’imbecilli della pubblicità si rendono conto che “fatto-in-casa” sembra pure a loro una cazzata troppo grossa e merdosa da sparare, allora passano allo “stile-casalingo”. Che aroma di “stile casalingo”! Ma della casa di chi stiamo parlando? Quella di Jeffrey Dahmer [il serial-killer cannibale che ammazzava principalmente asiatici e africani]? Credetemi, non c’è niente di “casalingo” nella testa di un adolescente cambogiano, va’ bene? Anche se gli metti del prezzemolo sui capelli. Insomma, ogni volta che aggiungono la parole “stile” ad un’altra parola qualcuno vi sta di certo prendendo per il culo. “Una vera bontà vecchio stile”… ma che significa? Niente! Non vuol dire assolutamente niente! “Salumeria in stile newyorchese”, significa che non si trova a New York! Non significa altro o non avrebbero avuto bisogno di dirlo, no? Invece si trova a Calgary il proprietario è di Hong Kong e il cibo sa di cose che pure i bangolini in cucina hanno buttato nell’immondizia. “Ristorante in stile familiare” sapete cosa significa invece quest’espressione? Significa che c’è un litigio ad ogni tavolo, troppa gente che piangee e l’uomo più anziano della famiglia che prende le donne a pugni.. “stile familiare”…bleah e poi c’è la parola “Gourmet”.
Gourmet
Un’altra parola con cui quei cretini assoluti della pubblicità ci si sono completamente ripuliti il culo. “Cena gourmet in tazza”, “gourmet cuisine in lattina”, a proposito quando sentite la parola “cuisine” al posto di “cibo” preparatevi a pagare un extra d’almeno l’80% in più sul conto. Involtini-gourmet, caffè-gourmet, pizza-gourmet… queste cose non esistono! Volete sapere che cos’è il cibo gourmet? Cazzetti di lumaca tostati. Palle di alce candite. Sformato di cazzo di yak… “Gourmet”!
Fatto col cuore
Ancora un’altra fottuta serie di parole-cazzate inerenti al cibo: “fatto col cuore”. La zuppa è “fatta col cuore”, la colazione è “fatta col cuore”… volete sapere cosa faccio quando sento le parole “fatto col cuore”? Guardo subito l’etichetta… ecco qua, 300 grammi di grassi saturi, bene, proprio “col cuore” sì, ma perché ti fa venire l’infarto!
Lo stesso poi vale per:
Burroso
Limonoso
Cioccolatoso…
una vera prelibatezza “cioccolatosa”, sapete che significa? Nessun cazzo di cioccolato, NESSUNO!
E poi state molto attenti quando riferiscono le parole “al gusto di” aggiunte ad un’altra parola. Bevanda “al gusto di” limone… nessunissimo limone del cazzo neanche qui! Come un cibo per cani che si autodefinisce: “cibo al sapore di pollo”. Un cane non sa che cosa sia un pollo, potrebbe piacergli se gliene dai ma non dirà mai: “Oh bene, speravo proprio che ci fosse ancora del pollo”. E visto che ci siamo: “bocconcini al gusto di pollo” giusto? Ma anche qui dentro, nessun pollo del cazzo!
Saporoso
Stuzzichevole… “saporoso” e “stuzzichevole” non sono parole vere che esseri umani sani di mente usano in una normale conversazione, ma sono parole pubblicitarie! Qualcuno vi ha mai detto indicando un cibo: “certo che questo è proprio saporoso!”? oppure “oh, ma quanto è stuzzichevole…”!
Ora, prima che cambiamo completamente argomento e passiamo ad altro, un’altra parola del cibo è:
Naturale
Questa è diretta a voi tutti indemoniati del cibo salutistico, hipster ecologisti e gastrofighetti succhiacazzi [qui Carlin usa la parola datata Yuppies ma m’è sembrato opportuno attualizzare con Hipster/Gastrofighetti] che correte in giro con addosso le vostre belle fibre naturali. La parola “naturale” è del tutto priva di senso. Tutto è naturale! La Natura include tutto, non solo gl’alberi e i fiori, ma proprio Tutto. I rifiuti tossici di una compagnia chimica sono del tutto naturali. Sono parte della Natura. Facciamo tutti parte della Natura, tutto è naturale. La merda di cane… questa anche è naturale certo, solo che vabbè, non è che poi sia granché da mangiare!
[George Carlin, New York 1937 – Santa Monica, 2008]