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Domaine Follin-Arbelet Aloxe-Corton Premier Cru “Les Vercots” 1990

6 Maggio 2016
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Dai finages di Borgogna condividiamo una bottiglia che è piuttosto un accumulo di carezze Pinot su carezze Noir del Domaine Follin-Arbelet ad Aloxe Corton dalla parcella premier cru “Les Vercots” d’annata leggendaria cioè la 1990!13151882_1788263468068545_7859072502459785969_n

Le fiamme del camino ravvivano la stanza, tiriamo fuori le cipolle dalla brace alla maniera di come le preparavano le nostre nonne; un piatto queste umili cipolle alla cenere, d’una prelibatezza e lussuriosità sublimi assieme alla salsa d’acciughe e capperi e ad un’opulenta salsa bernaise fatta au moment a contorno degl’oltre 2 kg di bistecca Chianina – 35 i giorni di frollatura cotta con consapevole scienza alla griglia nel mentre sfugge alla bocca di qualcuno inginocchiato sul camino una frase ripetuta spesso dal padre ristoratore di qualcun altro: “Perché cuochi si diventa ma griller si nasce!IMG_9678IMG_9685IMG_9686

Filippo Volpi quando sia io che Michele Oste Alesiani siamo oramai a pance ben satolle, con #bioselvatica meraviglia ci legge quindi dai suoi appunti scrupolosi alcuni passi
che riguardano il vecchio Albert Massot un’autorità all’Hospices de Beaune e che il frutto celestiale di questa bottiglia germogliato dal suolo pietroso detto “tête de mouton” (Giurassico superiore) l’ha prodotto proprio con le sue stesse mani.

Ecco che allora scopriamo che anche in vecchiaia il Massot usava ripetere tipo mantra una frase disarmante e semplice come solo può essere semplice e disarmante la verità:

“Il vino deve essere il frutto di uva sana che poi ha da essere semplicemente pressata… c’est tout!”

Champagne André Beaufort Polisy Brut Réserve + Rosè

25 Aprile 2016
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Nel giro di una settimana – una bottiglia sull’Etna al mitologico Cave Ox di Sandro Dibella con pasta ai grani antichi e salsiccia al ceppo, l’altra a Roma da Roscioli in abbinamento sul bombolotto all’amatriciana ad altissimo livello – ho bevuto 2 differenti versioni, memorabili entrambe, dello Champagne A&J Beaufort: il Polisy Réserve Brut e il Rosè. 2IMG_9213Per tutti e due i vini ho percepito nel bicchiere una stessa vibrazione psichica, un prepotente sentimento di bellezza-e-bontà sferica immaginando queste bottiglie quali valve di un’ostrica entro cui – tempo al tempo – si deposita il carbonato di calcio che poi cristallizza nella “conchiglia in vetro” come una vera e propria perla vivente di champagne!

ps.

Le Migliori 99 Maison di Champagne (Edizioni Estemporanee) per approfondimenti ulteriori sul Beaufort.

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Alla cieca per vederci meglio. Contributo a una fenomenologia del sorseggio in sé

3 Aprile 2016
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Alla cieca per vederci meglioHouse of the Amphitheater in Mérida SpainPoetica, etica, estetica e prassi della degustazione a bottiglie bendate. Contributo minimo a una fenomenologia del sorseggio in sé.

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“La vite se ne sbatte le palle del vino perché la sua natura profonda, il suo temperamento botanico è solo quello di gettare a terra il seme per rigenerarsi.”

Damijan Podversic

Assaggiare il vino senza sapere cos’è che si sta bevendo. Se non ci si fossilizza allo sterile esercizio masturbatorio-intellettualistico tra feticisti, bere alla cieca può invece assumere profondi connotati teorici di conoscenza molto pratica applicata alla materia così complessa solida/fluida che proprio il vino rappresenta.

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La liseuse (La lettrice) di Henri Fantin-latour (1861)

Bere a bottiglie bendate può approssimarsi per prassi a una sana dimensione d’obiettività organolettica in cui il testo da leggere è finalmente soltanto il vino in sé nel calice del tutto liberato da inquinamenti propagandistici, pregiudizi sociali e inquietanti condizionamenti del marketing. Siamo cioè ignari del titolo di copertina quindi non pregiudicati nel giudizio critico finale dall’immagine commerciale, dall’ideologia mercantile di fondo o dal brand d’un prodotto noto riconoscibile in etichetta e perciò condizionante il nostro reticolato nervoso d’impressioni intuitive, filamenti emotivi e pulsioni affettive attraverso il cui filtro valutiamo e giudichiamo  fin da subito profumi, puzzette e fragranze del liquido nel calice spaginato come un volume enciclopedico sensoriale innanzi a noi.

127+Ulisse+acceca+PolifemoÈ il nostro sistema nervoso infatti a segnare lo schema intricato d’intuizioni e di percezioni di fondo. È (siamo) una spugna epidermica tra un fuori verosimilmente reale (il mondo esterno) e un dentro di viscere, di flussi arteriosi e d’astrazioni vascolari che configura un apparato tanto fugace eppure consistente d’impressioni messo in moto dai nostri sensi a beneficio delle semplici – che non vuol dire semplicistiche – e spontanee sensazioni personali che contano di più e  cioè: mi piace-non-mi-piace, buono-non-buono, ognuno stimando secondo i propri livelli di raffinatezza soggettiva, parametri individuali di gusto che poi vanno riscontrati con variabili molto più oggettive, collettive e circoscritte quali: tipo di lavorazione nelle vigne, tecniche di vinificazione in cantina, sovraesposizione se non addirittura sopruso di queste tecniche o minor approccio invasivo possibile sia in campagna che in cantina; costo produttivo e prezzo finale, vino sterile-funebre elaborato secondo i protocolli farmaceutici da obitorio dell’enologo standard o vino vivo del contadino trapezista da millenni in bilico sull’orlo del precipizio fra l’Ossidazione e l’Aceto; e poi ancora tanti altri fattori fondamentali alla buona o alla cattiva riuscita del risultato finale nella botte prima, nella bottiglia dopo quindi nel calice e dentro di noi che lo accogliamo al termine del suo percorso partito dal seme fino all’esofago.

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Cornelis Bega, Contadino seduto con boccale

Abbiamo dunque solo questo vino nel bicchiere che è il romanzo da interpretare attraverso gli strumenti nudi e crudi messi a nostra disposizione dalla natura, strumenti affinati (abbigliati e cotti) dalla cultura cioè: l’olfatto, la vista, il sapore anche il suono perché no? Come di un libro di cui non conosciamo né titolo né autore dobbiamo allora provare a ricostruirne trama e struttura stilistica attraverso la lettura, capire dove va a parare dal timbro di scrittura, dalla ricostruzione d’ambienti, radiografare dalle tonalità dei dialoghi l’humus vigoroso o infetto della prosa, analizzare dallo svolgimento delle parole se il libro – cioè il vino – in questione appunto ci piace oppure no, se ha del sangue sano e ribollente a scorrergli nelle vene delle frasi o è qualche ultima lacrima di sangue pallido sottratta ad un cadavere. Il gusto a questo punto si trasfigura come fattore principalmente culturale, quindi è una specie di barometro che misura il grado di pressione atmosferica del nostro “vuoto” e/o “pieno” di civiltà.

andrea solario Italian Renaissance Milanese school Mary Magdalene. She is preparing the oils to anoint Jesus' dead body
Andrea Solario, Maria Maddalena prepara l’olio d’unzione per il corpo del Cristo morto

Il libro-vino che abbiamo adesso tra le mani ci suona per caso falso? artefatto? mistificatorio? ornamentale? troppo di maniera? È solo una virtuosistica esercitazione d’arte per l’arte? un testo troppo costruito a tavolino? elaborato senz’anima o trasuda vita vera vissuta? perlustra vertiginosi abissi di dolore, di sapienze e di gioia? Sa trasmettere emozioni dirette, dure, non compromesse dai filtri frivoli, piacioni e ipocriti da best-seller della spendibilità per tutti e vendibilità usa-e-getta ad ogni fottuto costo? Sa sprizzare purezza e genialità priva di bieco narcisismo nonostante quei personaggi di carta finti eppure più veri del vero? Sa scintillare più profondo e più reale della stessa realtà? Ci fa venire i brividi alla spina dorsale? qualità rara quest’ultima ma controverifica assai certa che il grandissimo Nabokov attribuiva su se stesso – e che parametro! – alla lettura e al riconoscimento indiscutibile dei capolavori della letteratura…2e34gah

Ma noi qua si sta ragionando pur sempre del vino e il capolavoro che ci scuote la spina dorsale lo dovremmo riconoscere obiettivamente sempre e comunque “a pelle” nell’aderenza assoluta fra chi lo produce e noi che lo beviamo, nel rispetto coerente del territorio, nel sacrificio degl’avi e delle generazioni future, nelle fasi lunari, nella sostenibilità del suolo e dell’habitat ma in sostanza però e non per ripetuti cliché e niente affatto per slogan tipici da stronzeggiante campagna di marketing falsona ben assestata, ma confidando nel filosofico “amore di conoscenza” per il vino – merce-vino e vino-merce – senza che chi lo produce o chi lo smercia debbano necessariamente mercificarsi a loro volta al meretricio di un mercato sempre più manipolatorio, distratto, banalizzante e vuoto che appiattisce tutto e tutti nel suo alienante tritacarne consumistico.

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Scuola Olandese, Contadino seduto che beve in un interno

È materia molto scivolosa ora, incandescente come lava, è cosa ambigua – fenomenologicamente ambigua – questa faccenda del vino sempre sospeso tra soggettività e oggettività. Riguarda i gusti personali ma mette anche in circolo tutto un sistema conoscitivo pluridisciplinare di giudizi di valore che se applicato con scrupolo dal soggetto sbevazzante può figurare da metodo di inquadramento oggettivo del problema risultando alla fin fine pure quale approccio abbastanza scientifico se vogliamo – la scienza del bevitore di coscienza – o quantomeno funzionare da bussola d’orientamento su un caotico oceano mondiale di vini, di produttori, tecniche di vinificazione, filosofie produttive, scuole di pensiero enologiche, rese per ettaro, sistemi d’allevamento, sesti d’impianto, tipo di potature, lavorazione dei suoli, sperimentazioni d’affinamento, prove di macerazione, pratiche biodinamiche.

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Rilievo Gallo-Romano
Man hauling barrels to:from ship in a port (France mid 17th century)
(Francia metà del XVII secolo)

Un metodo funzionale di difficile puntualizzazione che non può essere codificabile perché ogni codificazione col tempo irrigidisce delle verità passate che diventano equivoci al presente se non addirittura bugie future: astruse regolette di scuola che si cristallizzano su se stesse perché certe verità non si insegnano ma vanno imparate singolarmente sulla pelle – possibilmente la propria -, tutta a favore dell’esperienza personale, della conoscenza incarnata e del riconoscimento con distinzione chiara e quasi sicura del verace ben separato dall’inautentico.mostra1Si tratta cioè infine di ricercare la verità fluida – stiamo sempre parlando del vino vi ricordo – la complessità in movimento di un cristallo perennemente in corso d’opera, sempre sull’atto di formarsi perché così è anche la nostra propria natura animale: deforme prima, uterina poi quindi man mano più o meno umana, grezza, sofistica, civilizzata, fallibile cioè in fase di crescita fino al deperimento terminale… una vita insomma che al pari di tutte le vite animali si sforma nuovamente con l’avvizzimento dei tessuti per giungere al decesso organico definitivo.

Geografia, agronomia, antropologia, geologia, storia, ampelografia, chimica, cosmologia, botanica, mitografia, epistemologia, tradizione orale, tecnologia, poemi epici… di quante discipline, di quanti saperi di quali linguaggi è sintesi la trasformazione fermentativa d’un solo chicco d’uva?

Ulisse e Polifemo nella grotta del ciclope - mosaico nella Villa del Casale di Piazza Armerina
Ulisse e Polifemo nella grotta del ciclope – mosaico nella Villa del Casale di Piazza Armerina

Ulisse con due occhi è l’eroe dell’intelligenza e dell’astuzia, Polifemo con un occhio solo è invece il cannibale mostruoso dalla brutalità e dall’istinto selvaggi.
Ulisse per accecare il Ciclope con un grosso ramo d’ulivo appuntito, lavorato al fuoco, deve però prima far ubriacare il gigante antropofago.
La forzatura metaforica viene quindi spontanea: Ulisse è il portavoce epico della razionalità, della ragione ordinatrice che per provare a se stessa la propria supremazia sul caos della natura ma soprattutto per completarsi ha necessariamente bisogno di competere contro di sé e contro una potenza maggiore. Deve misurarsi con l’impulso incontrollato della forza cieca espressa dal Ciclope portatore d’ottusità, fredda indifferenza e spietatezza, tanto da abbattere con le armi affilate della ragione imperialista il mostruoso Polifemo per superare così con orgoglio da conquistadores del Mediterraneo, con presunzione da pioniere proto-colonialista i propri oltraggiosi limiti umani troppo umani.

DamijanTutto questo excursus omerico assieme ad Odisseo al di là del limite storico-geografico delle colonne d’Ercole, mi riporta quindi dritto dritto alla frase sboccata a caldo dalle viscere dell’amico carissimo Damijan Podversic, viticoltore nel Collio, mentre proprio poco tempo fa si discuteva assieme tra casa sua, la vigna e la cantina, si ragionava dei massimi come dei minimi sistemi attorno al cosmo dell’uva, delle macerazioni medio-lunghe, del perfetto (o perfettibile) grado di maturazione dei vinaccioli, della fermentazione spontanea, delle temperature di cantina:

L’uomo è un cretino e la vite se ne sbatte le palle del vino perché la sua natura profonda, il suo temperamento botanico è solo quello di gettare a terra il seme per rigenerarsi. Il vino, anche se è la più spirituale delle droghe, è tuttavia solo una droga creata dall’uomo e per l’uomo il quale nel cerchio dei 365 giorni di un anno non può far altro che sbagliare“.

Ma è proprio in questo “sbagliare” aggiungerei io, nel commovente tentativo di arginare questo caos, nella forzatura ostinata e nel non evitabile margine d’errore umano è proprio qui che andrebbe quindi riconosciuta la mania dell’animale-uomo d’avvicinamento ossessivo alla perfezione – che è già questa, mi pare, una qualche lieve forma di perfezione. Siamo cioè sempre impaludati, ancora dopo secoli, nel dualismo cartesiano della res extensa e della res cogitans da cui non ne veniamo fuori se non talvolta, per pochi momenti, in quello stato d’effusione e di fusione alla natura proprio attraverso l’ebbrezza che il vino ci da’ e il vino ci toglie a suo buon cuore. L’animale-uomo dunque, eroe e cretino allo stesso tempo, aggregato indissolubile di sacrificio e di spreco, estremi irrimediabili di civiltà e selvatichezza, Polo Sud di materia e Polo Nord dello spirito.

Roman mosaic, from the House of Dionysus, depicting the legend of Dionysus teaching 
people the art of viticulture and wine production (3rd c AD, Paphos, Cyprus)
Mosaico Romano dalla Casa di Dioniso, rappresenta la leggenda di Dioniso che insegna agl’uomini la produzione del vino e l’arte della viticoltura (III sec d.C., Paphos, Cyprus)

Possiamo allora da qui, per redigere un approssimativo bilancio a queste divagazioni da vinosofi irrazionalisti, possiamo provare a sostituire Polifemo alla pianta che genera l’uva – la vite che è resistenza gigantesca, istinto rigenerativo puro – quindi rappresentarci dei tanti piccoli Ulisse negl’uomini e nelle donne che da millenni ne coltivano il frutto con l’astuzia opportunistica, il senso del dovere, la razionalità calcolatrice, lo spirito di sacrificio generazionale, la manipolazione tecnica e l’intelligenza regolatrice tanto da produrre poi quella merce artificiale-naturale-soprannaturale a seconda di chi la fa, di dove la si fa e di come la si fa, denominata VINO, nutrimento sacro allo spirito oltre che al corpo. Il vino, bevanda prodotta appunto dall’uomo e dalla donna, droga sociale ad uso esclusivo proprio dei commerci degl’uomini e delle donne i quali alla fin fine poi sempre attraverso il vino, se usato con equilibrata sobrietà – ma qui ci sarebbe da chiedersi se non sia nella natura più intima e malevola del vino anche l’abusarne proprio al fine di “squilibrarsi” -, quegli stessi eroi cretini d’uomini e donne raggiungono a seconda dei casi d’ubriachezza più o meno molesta una dimensione quasi sovrumana cioè a dire divina in cui l’Ulisse femmina e l’Ulisse maschio nostri simili diventano un tutt’uno di scaltrezza e di forza amalgamandosi alla perfezione – o alla quasi perfezione cui follemente sempre tendono – per completarsi col loro nemico più mortale cioè con Polifemo stesso.

PolifemoCiecoSedutoAllIngressoDellaSuaCaverna-Heinrich Fussli
Heinrich Fussli, Polifemo cieco seduto all’ingresso della sua caverna

Le Radici Ancestrali Del Friuli, Sentinelle dell’Habitat

30 Marzo 2016
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Foto di Fabrice Gallina

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Non è mai cosa facile ricreare a posteriori l’atmosfera, gl’umori, i discorsi, i gesti di una serata soprattutto se così densa come questa di cui qui si parla: Le Radici Ancestrali del Friuli (la ricognizione della degustazione è stata già assai ben minuziosamente ricostruita da Stefano Cergolj su LaVINIum).

Abbiamo intitolato proprio così una sorta di simposio epico avvenuto a Capriva del Friuli il giorno giovedì 24 marzo del 2016 presso il Laboratorio Roncùs ospiti dell’azienda agricola omonima dove si è ragionato approfonditamente tra vignaioli e appassionati, stratificando discorsi, punti di vista, assaggi in questo del tutto a tema con la stratificazione profonda delle radici ancestrali delle vigne di un certo Friuli che esprime appartenenza, apertura al dialogo, solidità e bellezza.

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Foto di Fabrice Gallina

Già il solo fatto che un’azienda vinicola abbia aperto i propri cancelli anche ad altri produttori di vino invitandoli in casa propria è un dato niente affatto scontato che va subito intepretato come segnale molto positivo che dovrebbe far ben sperare su un’idea attuata nella pratica di comunità sana e disponibile al confronto. Mi pare che sia questo un presupposto basilare su cui cominciare a confrontarsi esponendo una visione generale d’intenti condivisi e la volontà di portare avanti la bandiera del territorio in complicità piuttosto che in una logorante competizione accanita; certo ognuno mantenendo la sua visione specifica ma senza troppi particolarismi o contraddizioni a far da freno con il solito apparato d’irrisolvibili beghe di campanile – tanto si sa che tutto il mondo è paese -, perpetrando rancori familiari trascinati da secoli tra consanguinei, ostilità interminabili, risentimenti ottusi tra confinanti che depistano e arrestano il progresso civile di perfezionamento dalle tecniche tradizionali d’agricoltura e vinificazione tramandate dagli antenati facendo così solo il gioco delle grandi industrie alimentari, delle falangi armate dei giganteschi gruppi vinicoli che amministrano diabolicamente il comparto secondo il principio insidioso benché millenario studiato fin dalle scuole elementari del divide et impera.

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Foto di Fabrice Gallina

Quel che posso dire fin da subito è che nonostante la vastità dei temi affrontati, la complessità dei discorsi fatti, il vapore dei sentimenti inespressi, grazie alla disponibilità di tutti i produttori presenti e assaggiando nel bicchiere assieme a loro il frutto delle loro fatiche in vigna, stesso frutto giunto a maturazione e trasformato poi nel vino di una determinata annata, siamo riusciti civilmente a ragionare di vecchie radici, di suoli, di Friuli di Collio di Carso di Vipavska Dolina, di manipolazione industriale di verità artigianale, di macerazioni, di gusto adulterato e di coscienza critica dal produttore al consumatore, d’imposizione del mercato e di libertà di scelta e di molto, molto altro ancora tutti assieme i vignaioli e il vigile pubblico interessato non soltanto ad intrattenersi ad un ennesimo convivio enogastronomico ma compartecipi a un conciliabolo d’assetati tanto più di sapere, di voler conoscere il vino, di vederci e di sentirci chiaro piuttosto che di bere roboticamente tanto per bere o riconoscere come al circo degli scemi un descrittore fasullo d’ufficio e di riconoscersi in un adulterato elenco d’aggettivi di rito.

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Foto di Fabrice Gallina
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Foto di Fabrice Gallina

Il tema centrale della serata è stato proprio la “vigna vecchia” custode vegetale di un territorio, memoria botanica di una tradizione millenaria. È proprio l’età delle viti insomma il fattore cruciale – parallelamente alle mani dell’uomo – che determina leggerezza, struttura ed equilibrio del vino da esse ricavato.

Preservazione della natura, equilibrio della crescita, lentezza di maturazione, politica ambientale, filiera agricola, economia contadina, etica della bontà, consapevolezza del ruolo dell’uomo e sua posizione nel cosmo… le vecchie vigne custodiscono tutto questo già alle radici attraverso la linfa, le foglie, il frutto. Tronchi scolpiti da pioggia e vento, testimoni mute tra suolo e sole di una sapienza che il tenore di vita frenetico moderno meccanizzato ci fa sempre più spesso dimenticare. Eroico lo spirito di sacrificio e l’abnegazione spassionata dei vignaioli che si sono allora qui opposti alla logica commerciale dell’internazionalizzazione del gusto, all’estirpamento dei vitigni autoctoni mantenendo in vita antiche viti resistenti alla roccia, alle erbacce, ai soprusi del mercato e ai capricci delle stagioni.

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Foto di Fabrice Gallina

Vigne antiche quindi dai cui grappoli iniettati di luce, spremuti prima poi fermentati quindi riposti in bottiglia, sgorga un messaggio di serenità naturale, un lascito all’umanità impazzita che incoraggia ad una vita più sana in armonia con l’ambiente, un testamento liquido che è proprio il vino prodotto da queste vigne attraverso la cura di padre le carezze di madre e le fatiche dure ma dolci delle mani degl’uomini e delle donne che le lavorano.

Abbinamenti esclusivissimi di territorio:

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Foto di Fabrice Gallina
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Foto di Fabrice Gallina
  • I salami e l’ossocollo dei contadini di Capriva

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frittata
Foto di Fabrice Gallina

Dalla Tradizione:

  • La zuppa d’orzo e fagioli della Carnia accompagnata dall’olio tergeste dop di Rado Kocjančič forse l’olio extravergine d’oliva prodotto nella zona più settentrionale del mondo.

zuppa d'orzo

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Dal cortile:

  • Il gallo ruspante in tecia con le patate di Godia e la polenta

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polenta
Foto di Fabrice Gallina

Dal sottosuolo:

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Foto di Fabrice Gallina

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Questi dunque a seguire i vignaioli presenti con i loro vini al seguito:

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Introduzione al senso e alle motivazioni della serata. Sono qua pronto ad incorniciare il quadro tematico della degustazione assieme a Marco Perco di Roncùs che ospitava l’evento in azienda da lui (Capriva del Friuli)

  • Pinot Bianco 2014
  • Collio Vecchie Vigne 2008
Marco Perco Roncus
Foto di Fabrice Gallina

 

Mario Zanusso azienda I Clivi (Corno di Rosazzo)

  • Malvasia 80 anni 2014
  • Brazan “140 mesi” 2001
Mario Zanusso
Foto di Fabrice Gallina

 

Lorenzo Mocchiutti Vignai da Duline (San Giovanni al Natisone)

  • Friulano la Duline 2014
  • Morus Alba 2013 (da Malvasia Istriana e Sauvignon da vecchi biotipi)
Lorenzo Mocchiutti
Foto di Fabrice Gallina

 

Mauro Mauri di Borgo San Daniele (Cormons) sua la frase più rappresentativa di tutta la serata assolutamente in linea con la mia visione del mondo, in perfetta armonia con il sentimento dell’ancestralità delle vigne, del rispetto verso di sé e verso il prossimo, della cura dell’ambiente, della manualità non alienata e della gioia di un lavoro ben svolto: “Lavorare con lentezza.”

  • Arbis Blanc 2010 (uvaggio di Chardonnay, Sauvignon, Pinot Bianco, Friulano)
Mauri
Foto di Fabrice Gallina
borgo san daniele
Foto di Fabrice Gallina

 

Kristian Keber (Medana)

  • Brda 2012 (12 giorni di macerazione, “la Ribolla va trattata più da rosso che da bianco!”)
  • Edi Keber Collio bianco 2001
Kristian Keber
Foto di Fabrice Gallina
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Foto di Fabrice Gallina

 

Lavrenčič Primož (Valle della Vipava)

  • Burja Bela 2010 (macerazione prefermentativa e fermentazione spontanea)
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Foto di Fabrice Gallina

 

Rado Kocjančič (Dolga Krona Dolina Trieste)

  • Brezanka 2009 Vigne piantate prima ancora della Grande Guerra, brezanka sta appunto per vecchie vigne radicate nella Ponka ovvero nel suolo tipico del Collio e dei colli Orientali composto principalmente di marne (argille calcaree) ed arenarie (sabbie calcificate).
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Foto di Fabrice Gallina

Immensamente grazie a Gianluca Castellano, è stato lui il nostro uomo nel Collio, naso scintillante in quel di Trieste, professionista iperattivo, palato spumeggiante; è proprio lui il coordinatore “carsico” di ‪#‎naturadellecose di cui riporto da qui a finire le sue personali note di degustazione per tutti i vini di questa serata memorabile degustati in batteria illustrati uno ad uno dalle parole i gesti i silenzi gli sguardi i sorrisi la fisicità e lo spirito dei produttori presenti alla cena.‬ (gae saccoccio)

Gianluca Castellano
Foto di Fabrice Gallina

Seguono da qui in poi gli appunti di degustazione ai vini annotati da Gianluca Castellano

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Foto di Fabrice Gallina

Malvasia vigna 80 anni 2014 I clivi

I Clivi
Foto di Fabrice Gallina

Un naso che racconta il significato del termine “essenza”.
La Polvere di gesso fa da eco a un comparto ricco di foglie d’alloro, anice e biancospino.
In bocca rimane sempre ordinato. Acidi e sali si spingono a vicenda.
È solo all’inizio di un percorso glorioso.

 

Friulano La duline 2014 Vignai da Duline

Vignai da Duline
Foto di Fabrice Gallina

Annata minore a chi?
Da uno dei millesimi più infami degli ultimi decenni per questa varietà, sfodera una prestazione monster!
Tutto è maturo! Dalla ricca componente fruttata autunnale al carnoso fiore di ginestra.
In bocca è da avvitamento in avanti, un centro bocca pieno e appagante, componente salina che si è trasformata in salgemma.
Racconta fiero una storia partita già nel 1920 e dove ogni veccia vigna porta i segni di almeno 100 anni di potature!

 

Pinot Bianco 2014 Roncus

Roncus Pinot Bianco
Foto di Fabrice Gallina

Raffinatezza è proprio quello che vuole comunicare per tutto il tempo!
Fiori di tiglio e camomilla, scorza di limone e pepe bianco.
Al palato mostra eleganza e sostanza in barba al millesimo ben poco fortunato.
Le sue gambe (radici) sono lunghe ormai il giusto, ben assestate in profondità dove le abbondanti piogge non sono
riuscite ad arrivare per diluire la linfa.
Splendida quarantenne, ormai sa bene come sedurre e far strage di cuori.

 

Arbis Blanc 2010 Borgo San Daniele

Muro Mauri
Foto di Fabrice Gallina

Un’identità data dal meglio che ognuna delle varietà che lo compone sa apportare!
Zenzero e pesca, miele d’acacia e balsamicità mentolata.
Mostra la personalità del Collio fatta di raffinatezza e sostanza.
Grazie a un sorso che sorprende ripetutamente ad ogni assaggio grazie a sfumature aromatiche sempre diverse.
Una mano che sa essere piuma ma anche pietra nello stesso momento…. unico.

 

Morus Alba 2013 Vignai da Duline

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Foto di Fabrice Gallina

È un raggio di sole.
Profumi che ci portano al caldo, ricchi di frutta matura in derivazione tropicale, mai banale grazie ad una statuaria mineralità che grida sempre la sua fiera appartenenza al territorio.
Più a ridosso del mediterraneo che delle alpi.
Bocca che viene completamente paraffinata da una miriade di sensazioni saporifere e minerali.
L’apporto del Sauvignon come lo vorremo sempre sentire.
La tradizione in evoluzione.

 

  Collio Vecchie Vigne 2008 Roncus

14 Roncus Vecchie Vigne

Un’onda di mare agitata, propulsore aromatico di spunti marini e richiami agrumati su cui svetta il cedro.
Figlio di un’annata fresca, mette da parte la polpa del frutto per svelarsi con tutta la sua passionale territorialità fatta di balsamicità e sussulti resinosi.
Bocca di grande dinamicità, non sta mai ferma grazie alla ricca dotazione salmastra e comparto acido che rimane sempre in sinergico affiancamento uno fuso all’altro.

 

Collio Bianco Edi Keber 2001

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Foto di Fabrice Gallina

Figlio di una tradizione che qui nella famiglia Keber è legge.
Brillante oro verde. Scalpita nel volerci mostrare il lungo sentiero del “territorio” compatto di roccia calda e fieno, ginestre e frutta gialla disidratata.
A dispetto della sua maestosa evoluzione non cade mai in accomodanti morbidezze.
Mostra energia e struttura salda.
Inonda il palato con uno tsunami sapido che lascia le labbra intrise di sale.
Maestoso epilogo fumè, sigillo di garanzia delle dolci colline Cormonensi.
Brazan 140 mesi 2001 I Clivi

I Clivi Brazan

Se fosse uno dei personaggi di Oscar Wilde, sarebbe sicuramente Dorian Gray!
A dispetto della sua età, racchiude luminosità in tutte le sue parti.
Dal suo aspetto così giovanile alla sua fragranza aromatica ricca di florealità, agrumi, frutti esotici, iodio, idrocarburi … il meglio del mare e della terra.
Corpo atletico e affilato, tutto un fascio di nervi … non ha nessun bisogno di mostrare i muscoli.
Mostra bensì di aver placato l’arroganza della gioventù ma non di averla abbandonata.
Icona di una Brazzano che da sempre ci stupisce per la straordinaria longevità dei suoi Friulano.

 

Kristian Keber Brda 2012

Brda
Foto di Fabrice Gallina
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Foto di Fabrice Gallina

Il Keberismo continua la divulgazione della sua filosofia con questo vino, splendida esempio di “tradizione” tramandata di padre in figlio .
I confini geopolitici non hanno bloccato quella che è e rimarrà sempre un’unione fraterna indissolubile: il Collio è la Brda.
Colore che mostra la profondità dell’ambra.
Naso che richiama subito alla buccia, ricca di energia e calore.
Miele di bosco, fiori ormai secchi, mela cotogna ma non finisce qui; un timbro speziato e inequivocabilmente roccioso mostrano il suo lato ruspante, virile in una parola Autoctono.
Assaggio ricco e saporito che ripropone con precisione calligrafica i suoi splendidi aromi.
“Texture” data da un tannino superbamente gestito che ha lo splendido compito di rallentare la beva e fissare i sapori al palato.
Burja. Burja Bela 201017 Burja

Naso che richiama la freschezza dei venti di bora invernali così legati con il clima della Valle del Vipacco.
Menta ,eucalipto e resina fresca; delicate note idrocarburiche fuse a splendida florealità di biancospino e bergamotto.
Un’anima aromatica aggraziata e di nutrita eleganza.
Prosegue la sua sfilata mostrando un corpo agile, sbrilluccicante di freschezza e debordante sapidità.
Crea dipendenza immediata invogliando continuamente al riassaggio.
Rado Kocjančič Brezanka 2009

rado kocjancic
Foto di Fabrice Gallina

Figlio del vigneto più vecchio della serata (impianto antecedente la I Guerra Mondiale).
Mostra una passionalità aromatica stordente.
Tutto è completamente fuso; piccoli frutti canditi, un soffio esotico di cardamomo e coriandolo, fiori dolci e ancora cremosi sensazioni di pasticceria che seduce i sensi senza mai essere volgare.
Ma cosa rende così coesa l’espressione di 15 diverse varietà? Il collante di tutto è lo splendido terreno calcareo marnoso di San Dorligo che arricchisce tutto con la sua preziosa mineralità di fondo.
È lui a dirigere l’orchestra sinfonica e il timbro sonoro di ogni singola uva ognuna delle quali sostituisce uno strumento musicale intessuto a formare una polifonia liquida che ammalia il palato.
Un vino da bere tutte le volte che si può in quanto queste piante ancestrali sono sempre più vicine alla loro naturale e ahimè inevitabile fine.

Gianluca Castellano

appunti
Foto di Fabrice Gallina
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Foto di Fabrice Gallina

Nomi Di Cose Cibi Vini Città Santi Mondi Galassie

22 Marzo 2016
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Uno poi dice, ma perché tutte ‘ste astruse divagazioni astrali per descrivere un semplice pranzetto tra amici fatto nei primi giorni di Marzo? È solo un tentativo, maldestro lo so, di raccontare la complessità delle cose semplici; una sorta di “unisci i punti” della Settimana Enigmistica in cui al posto dei numeri da collegare ci sono però: la torta pasquale ternana, le tagliatelle ai porcini, l’agnello marinato al limone, il torcolo di San Costanzo, un Vin Santo “sfuso” del 1970, il passito di Pantelleria 2006 di Ferrandes, il Barbacarlo di Lino Maga 1996, Gli Scarsi 2003 di Pino Ratto, il metodo Classico del Venturelli, il viognier do.t.e di Cortona, una magnum di Montevertine 2002, il Poggio a’ Venti di Massa Vecchia 2001, gli Hermitage 2005 di Faurie e 2010 di Dard & Ribo… ed ecco che “uniti i punti” viene fuori così una costellazione d’amicizie, di ragionamenti interconnessi attraverso il calice mai scolmo e di calore umano incolmabile.4

Primo sabato di Marzo. Giornata ventosa, atmosfera livida di nubi oltre le valli le spianate e i monti. Pranzo in famiglia tra amici a San Gemini… ma non per bere acqua!

Nomi di persone: rappresentano già da sole o in gruppo le tessere d’un mosaico privato d’italiani un certo pubblico d’Italia tanto immaginario quanto reale, domestico, sostanziale: Giampiero, Marco, Filippo, Barbara, Valentina, Pietro, Manfredi, Gaetano, Petra, Tancredi… ma che sono anche denominazioni di pianeti raccolti in un sistema astrofisico ovvero singoli universi in carne ed ossa. Micromondi d’affetti riproduttivi eppure irriproducibili; stratificazioni geologiche di pelle con coscienza; cosmologie di percezioni sempre in movimento anche da fermi; congegni psichici, morfologie di parole, frammenti di un Tutto il quale è a sua volta parte d’un altro insieme senza limite; enciclopedie di segni a forma di volto; ragnatele cardiovascolari, circuiti nervosi d’esperienze e flussi sensoriali che s’adocchiano consapevoli o incerti; apparati digerenti che si sfiorano s’allontanano e riavviciano, ognuno orbitante nella propria galassia emotiva che scorre al ritmo attivo/passivo del respiro e delle pulsazioni del sangue, ognuno intento sul proprio individuale anche se condiviso tragitto obbligato d’opere, d’aspirazioni di volontà di sogni e di giorni; masse gravitazionali addensate d’accadimenti fusi in sfere sonore che musicano l’allegria e il dolore d’essere presenti al bene come al male della ciclicità stagionale; disarmonie prestabilite, simboli linguistici coinvolti nel vivo zampillante della natura, insomma, mammiferini spirituali compartecipi alla natura della vita… e questo tanto per dire solo una milionesima molecola d’umanità di quel che siamo, o eravamo fino a mezzo secondo fa…

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Nomi di cose cibi e santi: torta al formaggio pasquale “ternana” e capocollo, fettuccine fatte in casa con i funghi porcini e la salsiccia Umbra non particolarmente pepata, patate al forno, agnello alla maniera della nonna marinato al limone e cotto in forno, torcolo di San Costanzo patrono di Perugia, frittelle al riso di San Giuseppe, colomba di Pasqua e quel Vin Santo strepitoso del 1970 (malvasia grechetto e trebbiano?) di madre antica e matrice oscura ritrovato da Marco in un reliquiario di cantina + località + contadino = anonime virtù.

52Bottiglie tutte coperte con la stagnola per il semplice gioco dei rimandi mentali, le associazioni d’idee, le sensazioni esplicite tra di noi beventi per evitare automatismi familiari o condizionamenti sociali scatenati anche involontariamente dal riconoscimento dell’eteichetta.

Nomi dei vini: Trebbiano di Spagna a Metodo Classico elaborato in Emilia Romagna dal professore Venturelli artigiano del lambrusco: esuberanza di lieviti al naso (stappato ancora “acerbo”?), qualche rotondità di troppo in bocca comunque vino brioso, bollicine compatte che ben dispongono il palato a quanto andrà a seguire.13Viognier a Cortona, esperimento alquanto insolito ma molto divertente di macerazione sulle bucce per qualche giorno, fermentazioni spontanee con i propri lieviti. Va subito aggiunto che il vino di Filippo Calabresi do.t.e. (nelle prossime settimane l’ufficializzazione del progetto) è ancora in fase prematura ad affinarsi e a decantare in vetro dunque quest’assaggio resta inteso come un prelievo “acerbo” da damigiana. Emerge un filo troppo fin da subito all’olfatto la semi-aromaticità già implicita al vitigno e che lascia un ricordo d’esuberanza alcolica, surmaturità del frutto o grassezza di polpa che lo apparanta ai ben più opulenti Condrieu; ci sono tutte le potenzialità nel vignaioolo e nella vigna per ottenere da qui a qualche anno dei bianchi – o orange (why not?) – e dei Syrah rifermentati in bottiglia (al Vinitaly 2016 assaggeremo questa chicca) più salini, misurati d’alcol, d’acidità più spiccata, beverini salivanti e smussati il giusto proprio come Dioniso comanda.IMG_7333

Bottiglia di Pino Ratto vignaiolo d’altri tempi, d’altre levature morali, uomo di rancure sane e di ferrea onestà intellettuale. Così altrettanto il suo Dolcetto d’Ovada Gli Scarsi anche in un’annata impossibile, un’annata d’inferno come questa 2003 (neppure indicata in etichetta). Esuberanza di personalità e visione del vignaiolo nel vino che egli stesso fa ma non ad aggiungere bensì a levare. Vino struggente, miracolo di bontà in tutta la sua spigolosità ed “imperfezione” sana. Desolazione dell’uomo vecchio e solo abbandonato a se stesso e alle sue vigne, stratificazione della polvere, sentimento dolceamaro delle rovine, muto urlo verso un cielo avverso o meglio indifferente; consapevolezza della morte imminente, rabbia cieca contro il mondo ottuso più dei suoi abitanti… e poi questo suo armonicamente contrastato vino duro/lieve, verace/terrigno, messaggio d’amore spremuto, fraseggio liquido di Charlie Parker da Now’s the Time, pacificazione dell’irrequietezza, estasi d’ogni senso logico o irrazionale, improvvisazione be-bop e amplesso consumato alla perfezione tra uomo e natura, miraggio della quotidianità faticosa ma felice fermentata in succo d’uve offerto ai sorrisi dell’amicizia, della condivisione del puro desiderio di conoscersi meglio bevendo-conversando-tacendo-mangiando assieme.

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Lino Maga è l’altro bel monumento incarnato all’enologia verace nazionale quella di matrice più indomabile e ruspante, vignaiola e borgognona se vogliamo. Il Barbacarlo è questa composizione promiscua come tradizione contadina comanda di Croatina, Uva Rara, Ughetta (ovvero Vespolina) e forse della barbera in percentuale minima, (in Provincia di Pavia nell’Oltrepò Pavese). Vinificazione alla maniera antica, nessun maniaco-ossessivo controllo delle temperatura e soprattutto maturazione del vino in vetro cioè direttamente in bottiglia il che porta una voluta-non-voluta rifermentazione naturale che dona al vino o meglio denota ogni singola bottiglia con la propria unicità di dolcezza e/o sapidità terrosa alimentata dal residuo zuccherino in fieri, acidità più o meno tagliente a seconda dei casi e filigrana carbonica che vivacizza il frutto nero-notte che schiude a un ventaglio di notazioni più balsamiche di speziature intermedie arpeggiate sul pentagramma della piacevolezza di beva e dell’ariosità di gorgolgio al calice ma soprattutto ad attizzare il gargarozzo per pacificarsi poi genuinamente in pancia via cuore-cervello.

77 bis

A Montevertine i peggiori millesimi di sempre sono stati la 1972, la 1976, la 1984 addirittura non prodotta. 2002 in linea assolutamente generale, non è certamente considerata un’annata memorabile, andrebbero poi analizzati nello specifico i vari territori, microclimi e vigneti caso per caso, ettaro per ettaro. Questa bottiglia di Sangioveto Canaiolo e Colorino prima ancora di smutandare la stagnola, ha rivelato già da subito al bicchiere il suo inconfondibile profilo d’identità ben precisa, non poteva che essere uva sangiovese di una zona assai specifica del Chianti, Radda ovvero proprio Montevertine che ne è la quintessenza; generato, vinificato assaggiato affinato dall’incastro astrale di altri vorticosi pianeti umani affinanti vinificanti assaggianti, e cioè: Sergio (che però il 2000 era già andato via in un altro cosmo chissà), Martino, Bruno, Giulio.9

Altro nome di battesimo di un pianeta di chissà quale galassia al di là d’ogni limite immaginato o scrutato dagl’astrofisici. Fabrizio Niccolaini ed è un pianeta aspro, ricco di sale, sabbia, abbagli marini, macchia mediterranea – solo per associazione in verità ma indubbiamente è un altro mare su quel pianeta lì di certo più incontaminato del nostro – abbagliato da un sole certamente più carezzevole, benefico e meno avvelenato di quel che ci tocca. Poggio a’ Venti è (era?) un terrazzamento di vigne, il più elevato, da cui provengono (provenivano?) uve sangiovese purissime che una volta pigiate si conserva (si conservava?) liquido in botti di rovere per quasi quattro anni. Poggio a’ Venti 2001 identifica la bevuta più straziante del pranzo, un vino semplicemente meraviglioso, il succo temperamentale dell’uomo tormentato che l’ha manufatto; bellezza e bontà, struggimento appunto ma anche complicità per un vino ed un vignaiolo di assoluta potenza fusa all’atto, e si sa le cose buone e belle hanno breve seppur intensa durata o forse come in questo caso hanno concimato il terreno per dar vita ad una realtà vitivinicola – Massa Vecchia – di sempre più potenziale (potente) bellezza e attuale (attiva) bontà.

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Bernard Faurie l’ultimo dei viticoltori Mohicani sui colli d’Hermitage, ultimo di cinque generazioni di viticulteur a Tournon-sur-Rhône che ancora fermenta naturalmente, imbottiglia a mano, pigia con i piedi la sua uva a grappolo intero lavorando sempre manualmente come i suoi predecessori prima di lui le sue belle vigne ultracentenarie i cui nomi di parcelle scintillano come la costellazione di Cassiopea nel cielo dei vigneti dell’Hermitage: Bessards, Méal, and Gréffieux. Suoli granitici come a Cornas o a Saint-Joseph da cui nelle mani di un grande vignaiolo quale Bernard generano dei Syrah elegantissimi, il tannino è un filamento di seta, acidità tagliente e raffinata, struttura e succulenza di pietra liquefatta approssimativamente persistente ad infinito. 

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Jean-René Dard & Francois Ribo sono in Rodano del Nord a Mercurol il nome d’un paese che già di suo suona come il pianeta più “eccentrico” e prossimo al sole. Hanno cominciato nei primi anni ’80 da un minuscolo vigneto, poi cresciuto negli anni, ad applicare la loro visione pionieristica di approccio non-interventista, naturale nei fatti oltre che a parole e non invasivo sia in vigna che in cantina continuando empiricamente di annata in annata con uso minimo di rame e zolfo, nessuna aggiunta nella trasformazione dell’uva, nessuna macerazione carbonica o a freddo e l’utilizzo quasi impercettibile di solforosa in cantina. Il vino è un soffio improvviso di felicità ai sensi, un Syrah di sorgente che zampilla tra rocce d’alta montagna a dissetare la gola arsa di chi osa avventurarsi a tali impervie asperità, di una digeribilità cristallina, nutriente e scorrevole… bevanda “mercuriale” così come mercuriali sono Dard & Ribo che riversano il loro fuoco sacro spontaneamente anche in questo Hermitage solido ma leggiadro con le ali ai piedi proprio come il Mercurio volante del Gimbologna al Museo Nazionale del Bargello a Firenze.12

Sublime in tutto (provenienza, colore, consistenza tattile, profumi, gusto) il Passito di Pantelleria di Salvatore Ferrandes da Zibibbo ovvero Moscato d’Alessandria, in Contrada Mueggen ed altri appezzamenti sparsi (neppure 2 ettari di vigneto), coltivato ad alberello nel pieno rispetto dell’agricoltura sostenibile che col vento perenne dell’isola qui a Pantelleria costa ancora maggior fatica. Oltre ai duri sacrifici della lavorazione in vigna (alberello pantesco in conca scavata nel terreno), fondamentale alla riuscita di un grande passito (prodotto in poche migliaia di bottiglie) è il delicatissimo equilibrio di controllo “umano” dell’essiccazione al perfetto punto d’asciugatura dell’uva messa al sole per 8-15 giorni negli appositi stenditoi a ridosso dei muri in pietra lavica prima di essere ammostata e fermentata naturalmente in cantina ovvero nel ammuso quindi travasata di tanto in tanto rispettando le fasi lunari prima dell’imbottigliamento.

Ricordo vagamente trai fumi postprandiali, che l’abbinamento premeditato sia del Passito di Ferrandes che del Vin Santo d’anonimo del 1970 sul Torcolo di San Costanzo – molto più francescano per la verità – ad uva passa, canditi e pinoli, ha generato in me un’abissale meditazione sull’esaurisri nostalgico di un pomeriggio tra compagni d’orbita, un senso fenomenologico dell’esserci-per-la-morte-e-basta eppure nonostante il tema arcigno con l’ultime lacrime di vin santo e passito pantesco in gola un sorriso mi si è spalancato in faccia non soltanto limitato al volto o al cervello ma invasivo, coinvolgente tutti e tutto attorno a me, quasi l’esplosione di una supernova dentro la sala da pranzo e poi una catena di palingenesi, una quiete cosmica da cui originano in un istante nuove amicizie, alcune gioie, molte galassie altri mondi e buchi neri.

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Dom Perignon 1990 + Egly-Ouriet Brut Grand Cru Millésime 2000 (Magnum)

15 Marzo 2016
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12806009_1761755994052626_2898227749244813092_nCospicuo il millesimo, bollicina sfolgorante, dorature allo zafferano, pungenze di buccia d’agrumi, aromi di zenzero e zucca candita… eppure perdio, in fondo a tutto sapeva di tappo; lurido, puzzone d’acqua stagna, putredine di carte stracce, infame sughero, cane rognoso d’inferno!IMG_7544Su un gran Comtè del Jura ma il Dom Perignon finisce nel rubinetto e si continua con la magnum d’Egly-Ouriet Brut Grand Cru Millésime 2000 sboccata nel Luglio 2010, niente di così esaltante pure se le aspettative erano notevolmente superiori alla insoddisfacente piacevolezza nel calice: grassoccio di corpo, poco persistente e corto in bocca, fiacco di bolla, stanco forse per tenuta della bottiglia nello specifico o perché è proprio così l’annata, il lotto d’imbottigliamento il dégorgment o chissà.

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Brunello di Montalcino Case Basse Riserva Soldera 2004

9 Marzo 2016
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soldera Riserva 2004Da Emma pizzeria con cucina in via Monte della Farina per festeggiare il compleanno di un carissimo amico responsabilmente Bevitore e Indipendente .

Ogni tanto capita di ritornarci sopra sotto o dentro alla 2004 del Case Basse Riserva di Soldera.

Grandiosa bevuta, picchi insormontabili di toscanezza quella verace, bottiglia dalla luccicanza* smisurata: summa enciclopedica di sangiovesità brunellesca, spremitura mani e piedi dei raggi solari inumiditi alla macchia mediterranea. Caso alquanto raro oltretutto d’un vino inversamente proporzionale alla risaputa – credo risaputa anche da lui – “simpatia affabilità modestia” del produttore il cui nome sventaglia fiero in etichetta. I ragionamenti sul prezzo esoso li rimandiamo ad altra occasione, per il momento basti rilevare un paio di riflessioni contingenti relative al vino e alle genti che lo fanno. In una tina di questa 2004 sarebbe bello annidarsi ed essere nutriti come in una placenta materna; ma poi chi l’ha detto che il vino debba sopravvivere a chi lo fa? È un manufatto elaborato dall’uomo per l’uso dell’uomo no? Bene così dunque!

*The Shining

Soldera Retro

Zeno Zignoli – Monte dei Ragni “Inamphora” 2014 Bianco del Veneto

7 Marzo 2016
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Zeno Zignoli è tutt’uno con Monte dei Ragni. 2.5 ettari di vigneto in località Marega (Fumane), zona di Valpolicella di Recioto di Ripasso e d’Amarone che Zeno produce a livelli altissimi di qualità oggettiva e appassimenti naturali alla maniera giusta e tradizionale. Pressature soffici, sapiente uso dei legni per l’affinamento ed esclusione quasi completa dei sistemi di pompaggio meccanico. Rese bassissime in vigna con la tipica sistemazione a pergola delimitata dai muretti a secco, le così dette: “marogne”. Lavorazioni manuali, nessun apporto “chimico” invasivo, dal concime agli antiparassitari. Solo uve sane e vini scrupolosi, non più di 6.000 le bottiglie prodotte. L’annata difficile 2014 a Monte dei Ragni ad esempio l’Amarone non verrà prodotto. Questo Inamphora bianco IGT genera da uve garganega 96 % e malvasia istriana 4 % macerati sulle bucce; non è filtrato, le fermentazioni a cui segue l’affinamento si svolgono quindi entrambe in anfora per almeno 6 mesi. Profumi di frutta candida senza esuberi di sotto-spirito, grana fragrante d’agrume rosso, beva piacevolissima e dissetante che potrebbe richiamare il sentimento di zolle smosse e radici d’un centrifugato di carote di campo (differenza sostanziale con quelle di cella-frigo e di serra); accompagnerebbe alla perfezione un bel cartoccio di moeche fritte a trovarle.. ma ci si accontenta anche d’un mozzico di vaccino fresco tenue a pasta cremosa su pane nero.
Rispetto della terra, sfruttamento equilibrato delle risorse naturali, l’agricoltura in quanto uso e mai quale abuso, ritorno ad una qualità della vita più sana, semplice e genuina, tutto questo è Zeno Zignoli e i vini da lui prodotti a Monte dei Ragni che incarnano pienamente questa sua visione concreta di felicità agreste applicata alla fatica quotidiana del lavoro in campagna.

ps.

Un aperitivo breve ma intenso in compagnia degl’amici nasi scintillanti meneghini Marco e Flavio che mi hanno fatto scoprire questo gran bel posticino sui Navigli in Ripa di Porta Ticinese: Vinoir enoteca di ricerca e officina del gusto che considero fin da subito la mia casa milanese già solo per il sottotitolo appropriato: “Vini Libri Storie“.

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