Teofrasto Paracelso, Il Labirinto dei Medici. Ossia ciò che dovrà imparare e sapere il vero medico e quel che dovrà fare se vorrà curare bene, La Vita Felice, Milano 2010
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Teofrasto Paracelso, Il Labirinto dei Medici. Ossia ciò che dovrà imparare e sapere il vero medico e quel che dovrà fare se vorrà curare bene, La Vita Felice, Milano 2010
Haderburg. Metodo Classico dell’Alto Adige.
Selezione di Chardonnay 85%, Pinot Nero 15% fermenta una prima volta in tini d’acciaio. Dopo l’imbottigliamento, in primavera, avviene una seconda fermentazione in bottiglia, quindi 24 mesi è più o meno quanto dura la maturazione del vino sui lieviti.
Franciacorta è toponimo più risaputo assurto a brand tout court a base spumante, anche se per la gran parte – generalizzo tranciando a colpi di machete – risultano sempre troppo dosati quando non addirittura sciroppetti, attaccaticci di palato: bollicine fin troppo zuccherose, piacione per molti, assai spiacevoli per me! Qui invece abbiamo una tale freschezza paglierina già al naso, una trama di cristallo infrangibile, quasi la finezza segreta d’una vena d’oro che sembra preservata in ciascuna delle bolle infinitesimali… peccato soltanto che una sola bottiglia per due persone esaurisca la sua corsa in un fulmine, neppure il tempo di dirsi: “Be’ ciao, allora come stai?”
Boris Zaitsev, Al Monte Athos. Un Pellegrinaggio Nel Cuore Spirituale del Cristianesimo Ortodosso, Franco Muzzio Editore, Padova (1997)
[Ripubblicato da Castelvecchi]
Un vecchio adagio contadino recita:
il miglior fertilizzante per la terra sono sempre le orme dei piedi del proprietario.
Tom Lubbe è un ardito neozelandese la cui concezione della “biodinamica” è tutta giocata nel lavoro continuo ed ossessivo in vigna con un’idea assai precisa sulla filtrazione dei vini senza chiarifiche di cui è convinto assertore per evitare – dice lui – incidenti spiacevoli dovuti a stramberie microbiche, a reazioni batteriologiche incontrollabili cosa che è più facile possa avvenire appunto coi vini non filtrati. Nel 2001 acquista una piccola vigna di vecchieviti (2 ettari) di Carignan nel Roussillon a 500/600 metri di suolo granitico sul livello del mare chiamata appunto Matassa sulle colline dette Coteaux du Fenouillèdes nel sud della Francia alle pendici dei Pirenei. Lubbe oltre ad aver vissuto e lavorato in Sud Africa per una donna straordinaria Louise Hofmeyer dell’Estate Welgemeend, per qualche vendemmia dal 1999 al 2002 si è fatto le ossa al Domaine Gauby con Gérard Gauby un altro produttore geniale della zona di cui sposerà la sorella. La prima annata è la 2002 e stiamo parlando di nemmeno 2000 bottiglie affinate sia in botti demi-muids di circa 500 litri che barriques nuove solo per un terzo. Già dal 2003 Lubbe acquista altri vigneti nella stessa zona un po’ più in basso attorno al paesino di Calce, e si tratta per lo più di vecchie vigne di 60 e 120 anni di media preservate dall’estinzione in gran parte varietà mediterranee quali Carignan, Grenache, Macabeu, Grenache Gris, Muscat d’Alexandrie, Muscat de Petits-Grains… Ad oggi Domaine Matassa detiene 14 ettari assieme ad uno status mitologico nel piccolo-grande mondo dei produttori e bevitori di vini biodinamici comme il faut.
Ho trovato questa 2011 di Matassa Blanc (Grenache Gris 70% da vecchie vigne e Macabeau 30%) piacevolissima sia da annusare che da bere. Bevuta sostanziosa per equilibrio della grana minerale, la persistenza al palato. Impeccabile per pura pulizia dell’agrume di fondo e per l’armonia dei legni fusi alla perfezione con l’acidità. Nonostante fosse metà gennaio “in the bleak midwinter” a cena con un carissimo amico dall’altro comune amico Arnaldo della Taverna Pane e Vino in pieno centro a Cortona, ci è sembrato proprio di dissetarci ad una fonte d’eterna limpidezza quasi fosse una rinvigorente limonata estiva in abbinamento non-plus-ultra con l’invernale cavolo nero su crostini tostati di pane integrale “sciocco” (sciapo).
ps.
Ritrovo in bozza le note di degustazione ad una precedente bottiglia di Matassa Blanc aperta lo scorso anno:
– Matassa Blanc 2010
Fermentazione spontanea di Grenache Gris e Macabeau assieme ai propri lieviti indigeni in botti demi-muids entro cui il vino rimane ad invecchiare per 18 mesi, neppure 5000 le bottiglie prodotte. Al naso sbuffa fin da subito una folata di brezza marina che trascina con sé salsedine e odor di sassi; pungente la buccia di limone alle narici su scintille d’affumicature delicate non così preponderanti o invasive sia chiaro. Al palato è una crema grassa, un’opulenza sfarzosa sì ma mai eccessiva, trama di burro fuso con salvia, rosmarino, mentuccia selvatica sapientemente intrecciate ed altre erbette aromatiche di macchia mediterranea; rimpolpata balsamicità dal retrogusto pieno al punto di perfezione e maturità d’una pera appena colta dal ramo. Da ristappare almeno ogni anno… from here to eternity!
Poesia dei Popoli Primitivi. Lirica Religiosa, Magica e Profana
James Cleugh, Love Locked Out, Anthony Blond Ltd. 1963 (Traduzione di Luigi de Marchi, Sugar Editore, Milano 1963)
Sarà che ho rivisto da poco il bel documentario di Alina Marazzi Vogliamo anche le Rose sul femminismo negli anni ’60 meglio sulla femminilità la parificazione dei sessi e le lotte di liberazione sessuale tra impulsi genuini, ribellismo anti-borghese – contestazione funzionale alla stessa borghesia contestata – e retorica politicizzata. Quindi in totale asimettria con le asfissianti logiche che governano l’archeologia virtuale per cui se pubblichi un articolo oggi online domani è già incartapecorito da secoli come fosse un papiro illegibile dell’antico Egitto (a meno che non si è egittologi), disseppelisco, ripropongo e traduco qui sotto un articolo uscito qualche paio d’anni fa su Punchdrink relativo ad argomenti sempre scottanti quali sesso sessimo maschilismo e simili connessi con le deliranti politiche di strategie di marketing del vino, naturale e/o convenzionale. Ne aveva solertemente fatto una divertita sintesi a caldo Fiorenzo Sartore su Intravino celebrando in special modo i feticismi e i fasti pornofili della – ben poco casta -, diva del cinema hardcore anni ’70 Brigitte Lahaie. Sartore rilascia però d’inquadrare in prospettiva piu sociologica o linguistica la questione che oggi più che mai in tema di tante invertite ipocrisie da Family Day e alla luce dei rigurgiti neopuritani vaticaneggianti dell’utlim’ora mi pare vada riproposta in chiave di critica dei segni`proprio una suggestione sempre effettiva che l’autore del pezzo Rémy Charest sembra ancora rivolgerci con insistenza. Le riflessioni in filigrana all’articolo pertengono l’ambiguità del marketing, l’omologazione del gusto sia nel settore del vino convenzionale che in quello del naturale e la commercializzazione dell’anima. Un tema questo che ci incatena tutti, un problema che credo non abbia purtroppo alcuna scadenza prefissata né tantomeno soluzione e riguarda l’uso proprio e l’abuso improprio dell’intelligenza umana a sfruttamento disumano del corpo-oggetto, – della femmina piu che del maschio -, a scopo di promozione indegna, svendita del sé, branding usa-e-getta o propaganda svilente di un prodotto – sia esso un vino un alimento un elettrodomestico un automobile una suppostona aromatizzata al mango – destinati all’utilizzo al consumo e allo scarto immediato cosi come sempre più verosimilmente sfruttate consumate e scartate sono le nostre vite in formato digitale che dissolvono nello spazio-tempo di uno slogan pubblicitario dentro e fuori dal Web in pasto al tritacarne del Villaggio Mercato Globale.
Insomma, ripropongo quest’articolo datato anni luce secondo l’ottica distratta e iperveloce di Internet soltanto per riconfermare con la lentezza caratteristica dei lettori di parole su carta e sottoporre un po’ piu d’attenzione a chi ne ha curiosità, quanto Günther Anders già sessanta anni fa andava considerando sull’anima del genere umano, sulla distruzione della vita nell’epoca della seconda e della terza rivoluzione industriale nel suo oramai classico: L’ uomo è antiquato.
Le Etichette di Vino Naturale tra Sesso e Sessismo.
Immagini di donne nude e riferimenti a tutto ciò che possa riguardare il sesso da un’eiaculazione al come portarsi una donna ubriaca a letto, sono diventati sempre più comuni sulle etichette dei vini francesi naturali. Come mai? Rémy Charest indaga su cosa si nasconde dietro questa tendenza.
Berreste mai o serviresre un vino chiamato “Tette Grosse” o “Strappa Mutandine”? La risposta della maggior parte delle persone probabilmente sarebbe “assolutamente no.” Tuttavia, se hai cenato in alcuni dei migliori ristoranti del paese, questi sono alcuni dei vini che potresti trovere.
Sono infatti i nomi di due vini ben noti nella categoria vagamente definita: “organico/naturale”. Grololo dal Domaine Pithon-Paillé in Anju, e Piège à Filles dal produttore della Touraine: Les Capriades. Solo i nomi sono in francese, ed è probabilmente questa la ragione per cui un certo tipo di etichette hanno in gran parte avuto un successo indiscusso in Nord America. Grololo è un gioco di parole sul Grolleau, la varietà d’uve della Loira da cui è fatto e “lolos” invece una parola un po’ infantile che sta per mammelle. Piège à Filles potrebbe essere letteralmente tradotto come “trappola per ragazze”, ma “contagocce per mutandine” o “strappa mutandine” ehm… descrive l’idea ancor più fedelmente.
Ci sono stati altri esempi del genere etichette “sexy” (o non sarebbe meglio dire sessiste?) all’interno della comunità dei viticoltori naturali. Pascal Simonutti ha prodotto bottiglie con fotografie di nudo integrale della pornostar degl’anni ’70 Brigitte Lahaie (in versione magnum, ovviamente). Un altro produttore Cyril Alonso invece se n’è uscito con una partita di Gamay nouveau che ha chiamato Cougar, con un preservativo infilato sotto l’etichetta rimovibile ed uno slogan del tipo: “Mi piacciono giovani.” Più di recente c’è stata una buona dose di discussione attorno ad una delle etichette più esplicite, una delle ultime annate cioè di J’en Veux (Ne voglio un po’), una cuvée dalla stella enologica del Jura Jean-François Ganevat. In etichetta c’è un disegno che mostra una donna, dal collo alle cosce, con la mano stretta sulle parti intime. Ganevat ha aggiunto più donne nude senza testa alle etichette di due cuvée per i suoi nuovi vini négociant: Cuvée Madelon e De Toute Beauté. Su Twitter, lo scrittore ed ex-sommelier Aaron Ayscough ha reagito così: “Ganevat è il Dov Charney del Vino Naturale. Discutiamone.”
Un altro esempio viene da Alice Bouvot e Charles Dagan, la coppia dietro Domaine de l’Octavin, sempre nel Jura. Hanno fatto un vino non filtrato frizzante chiamato Foutre d’Escampette, un gioco di parole sull’espressione francese “prendre la poudre d’escampette” (“darsi alla fuga”), con l’aggiunta però di quel “foutre” la parola francese che sta per sperma. Un… vino non-sboccato quindi chiamato “sperma sfuggito” o “sperma in fuga”? L’associazione di queste sostanze è quantomeno insolita, per non dire altro, ma questo non ha certo bloccato un blogger francese di vini naturali dal definirlo in una recensione dello stesso vino: “facile da inghiottire”.
Questa tendenza osé ha travalicato anche i confini della Francia. In sud Africa il produttore Craig Hawkins ha recentemente rilasciato un imbottigliamento della sua linea El Bandito con una foto a figura intera di una voluttuosa donna nuda tatuata vista di spalle. Mentre si trovava in
Austria di recente, Alice Feiring è incappata in un’etichetta con una donna nuda spiata attraverso il buco della serratura, e si è chiesta se anche gli uomini possa mai accadere di venir trasformati in oggetti sessuali su etichette di vino da parte di una produttrice donna.
Usare il sesso per vendere alcolici non è esattamente un’idea nuova, ma i viticoltori naturali sembrano farlo in un modo ancora più sfacciato. “E non è questione di pari opportunità ma è una roba sessista”, come ha sottolineato Alice Feiring, quando le è stato chiesto a proposito di questa provocatoria tendenza del marketing. “Perché allora non mettere un cazzo in etichetta? Se proprio dobbiamo farlo allora facciamolo tutti, uomini e donne.”
Ad ogni modo rappresentazioni maschili e femminili non sembrano ancora avere una stessa base di parità, anzi. Cory Cartwright, di Sélection Massale, che importa Piège à Filles, ha detto di aver avuto molti più problemi ad ottenere l’autorizzazione del TTB (Tobacco Tax and Trade Bureau) riguardo a un altro vino, un’etichetta a fumetti per la bollicina di Frantz Saumon chiamata La Petite Gaule du Matin, espressione che descrive l’erezione mattutina. Ora, non avrebbe dovuto scandalizzare di più l’idea di portarsi una ragazza ubriaca a letto, che è questo il senso implicito dietro l’etichetta del Piège à Filles?
Tipicamente maschile?
La sommelier Pascaline Lepeltier, responsabile del vino al Rouge Tomate a New York City e grande esperta di vino naturale, è abbastanza scettica nei confronti di questo tipo di tendenze. “L’umorismo è praticamente al limite un po’ come ad una gara a chi ce l’ha più grosso”, dice Lepeltier. “In alcuni casi dietro questo tipo d’atteggiamenti c’è una sorta di attitudine punk, una filosofia anarchica, ma a volte è solo pura esagerazione.”
Questo umorismo ribelle da dito medio sempre alzato in aria ha proliferato nel mondo del vino naturale, legandosi alla prospettiva generale che presiede la comunità vitivinicola. Produttori naturali spesso si schierano su posizioni contro-culturali, criticando i marchi globali, la grande agricoltura e l’omologazione del gusto. Molti di loro rifiutano le rigide regole dei sistemi di denominazione europee che dettano leggi sulla scelta del tipo di vitigni o addirittura sul gusto che i vini devono avere. È un modo per rivendicare la loro libertà di espressione che, non sorprende, si fa strada con etichette che abbondano in giochi di parole e provocazioni d’ogni genere, come il Fabien Jouve di “Fuck My Wine”, che ha chiamato così il suo vino con un riferimento esplicito al Taxi Driver di Scorsese in polemica diretta contro rigorose e spesso strane regole dell’AOC (Appellation d’Origine Contrôlée). Il vino è ottenuto da uve tradizionali di Jurançon Noir della sua regione d’origine – nel Cahors, – che ora non sono più ammesse nei vini della medesima denominazione nonostante la sua lunga presenza nella zona.
Tuttavia, utilizzare le etichette per promuovere una dichiarazione politica sulle regole dell’AOC è una cosa mostrare una giovane donna che si masturba in etichetta è tutto un altro paio di maniche. Invece di un gesto di liberazione sembra piuttosto essere un attaccamento al lato più sconcio e macho della cultura del vino tradizionale e della cultura francese in generale.
Lepeltier concorda sul fatto che, in alcuni casi c’è una chiara dose di sciovinismo: “Un tipo come Andrea Calek afferma esplicitamente che uno dei motivi principali per cui ha cominciato a fare vino è stato quello di ubriacarsi e scopare.”
Per la Feiring, qualunque sia il contesto, se l’umorismo è di natura sessuale o meno, la tendenza riflette una forma mentis “molto immatura e da collegiali” in una comunità del vino “suddivisa in tante fazioni” che tendono continuamente a gareggiare al rialzo per mostrare chi è il migliore. Un esempio di questo viene dal birrificio Voirons, in Savoia, che ha fatto una birra chiamata J’en Ai… (Ne ho avuta un po’). L’etichetta mostra il disegno di un ragazzo, scorciato dal collo alle cosce, mentre si tocca tra le mutande – un frecciatina giocosa in risposta al J’en Veux di Ganevat.
Naturalmente anche trattando di questioni e di genere sessuale, scelte discutibili in etichettatura non sono dominio esclusivo solo del mondo dei vini naturali. Beam negli Stati Uniti, un colosso del vino e degli alcolici vende al dettaglio con molto successo un marchio di vini e drink chiamati “Skinnygirl“, mentre numerose altre etichette presentano la parola “Cagna” da sola o seguita da aggettivi quali “Regale”, “Sfacciata” o “Felice”.
C’è una notevole differenza nelle reazioni, però. Mentre i vini naturali di cui sopra sembrano avere via libera, i vini con la parola Cagna schiaffeggiata in etichetta sono universalmente evitati nel settore del commercio del vino. Il New York Times li ha bollati come “grezzi” in un articolo sulle nuove tendenze nel marketing delle etichette dei vini. Allo stesso modo, il marchio Skinnygirl è stato attaccato da numerosi scrittori e blogger come ulteriore aggiunta alla pressione psicologica che le donne già subiscono sul loro aspetto fisico. Una blogger si è spinta fino a definirlo, “Terrorismo sull’immagine del corpo delle donne“.
Allora, perché questa maggiore permissività coi naturali? Guilhaume Gérard di Sélection Massale, che importa Piège à Filles negli Stati Uniti, spiega che qui ci sono in gioco delle forti differenze culturali: “In Europa, il sesso ha smesso di essere tabù molto tempo fa. Quartieri a luci rosse puoi trovarli ovunque, l’accesso alla pornografia e gli atteggiamenti nei confronti del sesso sono molto diversi dagli Stati Uniti.”
Comprendere il sarcasmo dall’interno
Cory Cartwright, l’altra metà di Sélection Massale, pensa anche che tutto ciò abbia a che fare con un senso di comunità. “Piège à Filles era un nome suggerito come uno scherzo, e lascia di stucco. Si tratta di una piccola produzione di vino, fatta da un produttore che appartiene ad un piccolo gruppo di viticoltori dove tutti riconoscono tutti e un sacco di persone che vendono il vino conoscono personalmente il produttore e ciò crea un certo margine di tolleranza.”
Cartwright e Lepeltier, così come Lee Campbell – responsabile del vino al Reynard di Brooklyn – tutti sottolineano che il duo dietro Piège à Filles sono dei ragazzi estremamente ammodo, e venendo da loro, quell’espressione non poteva essere interpretata diversamente da quel che è cioè un goliardico scherzo da collegiali. “La maggior parte di questi vini sono realizzati in piccole quantità, per cui il popolo del vino naturale non fa altro che parlare a se stesso”, aggiunge ancora Alice Feiring e “ti permette di dire: ‘Oh, quel tipo è proprio un cazzone, ma fa davvero un buon vino’.”
Contestualizzati così questi giochi possono certamente diventare più accettabili. “Personalmente odio i vini Cagna”, afferma Campbell, “ma le ragazze se li regalano le une con le altre alle feste d’addio al nubilato e cose simili e tutti sembrano pensare che sia una roba divertente.” Jo Pithon, del Domaine Pithon-Paillé, che produce il Grololo, sottolinea anche che il suo vino è stato utilizzato in California ad un evento di beneficenza per la ricerca sul cancro alla mammella: in tale contesto un vino che celebra i seni in etichetta assume tutt’altro significato.
L’ambiguità rimane comunque irrisolta. “Con tutto l’ingegno che si vede applicato per la realizzazione delle etichette dei vini, sarebbe così facile venirsene fuori con qualcosa d’altro”, dice Campbell, “questo è quel che mi suona strano.” Mentre viticoltori importatori e sommelier sembrano tutti sorridere alle rozze battute da festaioli sguaiati illustrate in queste etichette che pure vendono, è interessante notare come tendono a mostrarsi a disagio non appena gli viene chiesto il loro significato.
Spazzolare gl’ornamenti puritani e abbottonati del mondo del vino è, di per sé, un’idea giusta se questa promuove godimento, forse però è già meno divertente se genera imbarazzo.
Questo volume di Giacomo Tachis va subito salutato come un felice evento editoriale. Sapere di Vino raccoglie l’esperienza di vita umana e professionale di uno dei più grandi enologi di sempre, che narra la sua originale visione del “mondovino”, racconta cioè in prima persona la sua formazione intellettuale e privilegiata professione tecnico-scientifica d’alchimista e tramutatore dell’uva intorno alla II metà del ‘900. Premesso ciò, credo davvero che Sapere di Vino sia lettura che dovrebbe interessare tutti indistintamente: dai fanatici delle questioni puramente tecniche sul vino, agli addetti al settore enogastronomico, agli appassionati d’autobiografie o ai semplici curiosi di storie e fatti culturali della nostra epoca.
Affascinante è l’excursus del giovane enologo in erba alle prime armi alla Cantina Antinori di San Casciano in Val di Pesa; i suoi primi emozionati incontri e rapporti di lavoro con il professor Peynaud, un mito dell’enologia francese. Quell’Emile Peynaud cioè, padre fondatore dell’enologia moderna il cui “contributo allo sviluppo dell’enologia”, sono parole dello stesso Tachis, “è stato d’importanza fondamentale per il secolo appena trascorso. Ha dato un apporto capitale alla ricerca microbiologica della fermentazione malolattica e soprattutto alla sua biochimica e allo studio dei polifenoli. Ma soprattutto,” badate bene, è questo un punto di sostanziale importanza “..ma soprattutto, ha saputo dare un’interpretazione umana e filosofica al gusto del vino”. Questo appunto, Peynaud, un uomo cioè che aveva reso ancor più grandi, stabili ed illustri gli Châteaux di Bordeaux a partire da Mouton-Rothschild, un uomo schietto dunque, a contatto con la terra che sapeva anche sinceramente apprezzare la genuina bontà d’un Lambrusco Scorzamara raffreddato in cubetti di ghiaccio.
Uno dei massimi principi più volte insistentemente ripetuti dal nostro autorevole enologo in questo suo denso libro di memorie è che: “il vino si fa in vigna (…) il vino, non mi stancherò mai di ripeterlo, nasce dall’uva prodotta nella vigna coltivata in un certo modo e con determinati tipi di vitigno o di vitigni,” e, cosa ancora più fondamentale, ribadisce: “non bisogna mai dimenticarsi in quale territorio e all’interno di quale tradizione si opera.”
A proposito di ciò, del difficile ma necessario rapporto tra natura e tecnica, dello scambio continuo tra innovazione e tradizione, una delle metafore più efficaci e poetiche del libro è quella in cui Tachis compara ruolo e funzione dell’enologo alla sapienza manuale dell’accordatore di pianoforti: “quanto più le corde sono di qualità e quanto più delicata e sensibile è la mano del tecnico che le registra, tanto più armonico e piacevole ne risulterà il suono.”
[Detto tra parentesi quadre e “fuori campo”, niente affatto per tignosa pedanteria svizzera ma per anglosassone amore di verità, per piglio da lettore scrupoloso, nel libro si parla invece di “accordatore d’organi” dove mi pare più che evidente la mondadoriana svista redazionale, dato che l’organo è strumento della famiglia degli aerofoni dunque assolutamente sprovvisto di corde.]
La parte seconda del libro, quella sulla TECNICA, comprende un paragrafo centrale che è una bellissima lectio magistralis nonché un compendio discorsivo, un concentrato di sapienza cabalistica direi quasi, sull’utilizzo magico (uso ed abuso) dei legni in enologia: botti grandi e barrique.
La parte Terza ed ultima del libro è dedicata ai luoghi del Vino ed è una digressione nostalgica eppure tutta positivamente proiettata verso il futuro, sul vino e il genius loci del bacino mediterraneo: la nobiltà della Toscana, la natura selvaggia della Sardegna, la cultura millenaria della Sicilia, l’incanto primordiale e il fascino omerico dei vini prodotti nelle piccole, struggenti isolette sospese tra gli splendori e le miserie millenarie del mare nostrum meraviglioso.
Insomma: chiacchiere, commenti, interpretazioni e critiche a parte, se non l’avete ancora fatto dovete assolutamente leggere questo libro, non potete proprio sottrarvi, se non altro per irrobustire, accrescere ed affinare la vostra visione sia dei vini che del mondo, così come s’irrobustisce accresce ed affina nel tempo un gran vino pregiato e d’annata.
Leggiamo che il Domaine Jean Chartron esiste dal 1859; 13 sono gli ettari dei vigneti di proprietà, 16 le denominazioni 9 delle quali a Puligny-Montrachet. Il suolo è composto da una miscela di sabbia silicea calcare e argilla. 40 anni è l’età media delle viti, la raccolta viene eseguita a mano, né erbicidi, né pesticidi chimici o altre pratiche invasive sono applicati in vigna. Dietro l’equilibrio alchemico dell’invecchiamento del vino (l’élevage) e alla fonte delle barriques nuove di rovere ci sono sempre le foreste d’Allier e dei Vosgi.
Anche se – in linea molto generale – la 2011 in Borgogna è stata fra le vendemmie più premature degl’ultimi 300 anni, devo ammettere che questa bottiglia del monopole Clos de la Pucelle era sorprendentemente compiuta. La consistenza croccante d’un nucleo solido di polpa fibrosa già al naso, uno sbocciare di ginestre in fiore nella bocca e un luccicante flusso di sostanza minerale in fondo alla gola avviato giù verso il baratro del cuore a donare pace ai sensi. Acidità e miele sembravano talmente ben amalgamati fra di loro da diffondere un tale senso di armonia terrena, d’unità degli opposti tutt’attorno al nostro spazio vitale fra il tramite del bicchiere gli altri esseri respiranti e il vino.. anche se una sola bottiglia era (è stata ahimè) una fin troppo piccola cosa caro Francesco Bisaglia, ma se avessi disponibilità di capitale, giuro, te ne acquisterei come minimo tutta l’assegnazione che hai per Borgogna Mon Amour amico mio!
Su opulenta zuppa invernale ripassata in forno di cavolo nero, pane, formaggi vari fusi assieme, pancetta, brodo di bollito e una fresca misticanza con noccioline a stemperare i vapori dell’intingolo carico di bontà ribollite.
Ospito in questo mio spazio virtuale l’intervento di un’amica medievista: Adalgisa Crisanti.
L’articolo è già apparso in precedenza sul Grande Dizionario di Bevagna, 2 (2014) e concerne un tema inesauribile: il corpo, l’ascetismo, la spiritualità e i loro misteriosi legami con il cibo quale ossessione culturale assieme ad altre passioni materiali e disseminazioni corporee, “immoderata carnis petulanti”. Il tema affrontato nella fattispecie da Adalgisa riguarda l’indagine storiografica di un caso d’agiografia clinica (?), cioè un caso psico-sociale specifico che è quello di un irrequieto “campione della fede” il frate domenicano medioevale umbro il Beato Vergine Giacomo Bianconi da Bevagna.
All’astinenza coatta esercitata su se stessi dai primi cristiani e i padri della Chiesa, alla gola esorcizzata come vizio, al digiuno imboccato invece quale virtù, alla frustrante verginità sessuale che si espleta rabbiosamente di pari passo con la castità alimentare mi piace ora qui citare in qualità di controcanto – in falsetto? – un libro godibilissimo del professor Piero Camporesi geniale italianista fuori dal coro accademico il quale raccoglie in sé una polifonia di voci che s’avvolgono su un argomento antico ma tuttavia odierno, quello cioè dell’autolimitazione al piacere dei sensi. Ritengo sì che sia una tematica assai attuale, al di là dei vari casi da dietologi, basti qui solo pensare al vegetarianismo di ritorno, alle restrizioni draconiane dei vegani, al proliferarsi continuo di sempre nuove allergie alimentari con gl’altrettanti condizionamenti nutrizionali accompagnati ai disturbi dell’apparato digerente che esse comportano causate come è probabile che sia dall’invasività dei processi sempre più massicci d’industrializzazione del cibo. Insomma, Camporesi ne I Balsami di Venere esplora proprio l’esatto opposto della continenza e della deprivazione sensoriale quando nel capitolo 3 intitolato Venerea Voluptas, scrive:
Uomini e donne però più che perseguire sogni di castità, più che ricercare nuovi segreti “contro l’ardore de la
libidine e de la luxuria” (come scriveva Caterina Sforza, signora di Forlì, nei suoi Experimenti), attendevano all’alacre ricerca dei remedia e medicamenta di segno opposto.
E ancora, continuando a eviscerare la materia dell’espiazione carnale, dell’astinenza e della mortificazione del corpo governato dalla volontà dello spirito, il nostro Camporesi procede sempre su questo tono giudiziosamente dissacrante, così che leggiamo di seguito nel paragrafo 4. Il tesoro della castità:
A ben poco valevano le esortazioni, le prediche e i trattati sulla castità, come quello steso dall’ “inutile servo di Dio” (egli stesso si definisce così) Francesco Rappi, il Novo thesauro delle tre castità (1515) scritto in “reprehensione et detestazione de quelli che dicano non esser possibile continersi.” I “tre sancti rimedii della Castità contro la Lussuria” e la dura “detestazione della Libidine” sembrano, anche nella dichiarata inutilità della sua presenza fra i vivi, configurarsi come prediche al vento, pure e semplici battaglie rituali, conflitti allegorici alla stregua di quelli, mitici, fra Carnevale e Quaresima o fra inverno ed estate.
Dalla precettistica para-ecclesiastica ai trattati mistagogici sulla penitenza, dalla sua mortificazione sadica all’autopunizione morbosa, dal masochismo dei flagellanti (i Vattienti di Nocera Terinese ad esempio), alla degradazione degli eremiti nel deserto o agl’asceti rinchiusi in una cella monastica, il corpo è sempre stato inteso più come tabù disgustoso che come totem sublimato, veicolo di passioni, spudorata nudità da nascondere, filtro di pure funzioni organiche, fonte di deiezioni, spugna che assorbe e spurga una materia troppo bassa, maleodorante, triviale. Eppure è ancora nel corpo la sede del pensiero
astratto/concreto. È proprio nel corpo la sorgente dell’immaginazione creativa/distruttrice. È da qualche parte, sempre nel corpo abietto – rebus ancora oggi indecifrabile a psichiatri, filosofi e neuroscienziati – che si localizzano le sensazioni, gl’affetti, gl’impulsi elettrici sub specie di scintille battiti e scosse registrati nel sistema nervoso che poi si tramutano miracolosamente – ma com’è mai possibile? – in percezioni fisiche spazio-temporali che determinano la nostra personalità. Scosse neuronali che si trasformano in sogni, in sentimenti di scienza e religione, in opinioni di politica o diritto, in atteggiamenti della morale in orientamenti sessuali in elucubrazioni d’astrologia in fantasticherie architettoniche che a partire da un contenitore finito – il corpo umano – danno vita di conseguenza ad altrettanti ragionamenti, calcoli ingegneristici, metafore linguistiche, forme musicali, costruzioni della geometria non-euclidea o impressioni poetiche che paiono invece essere infiniti – la mente fossile appunto dell’uomo e della donna formata da strati geologici databili migliaia di millenni.
L’anima della donna e dell’uomo quindi con tutti i suoi tentacoli psichici le sue pulsioni artistiche, gl’istinti riproduttivi, le allucinazioni (visive sonore olfattive tattili gustative), i teoremi matematici, i tranelli, le illusioni, le credenze e le emozioni spirituali. Il cervello col cuore degli Adamo ed Eva nostri contemporanei ovvero cuore e cervello di noi stessi ognuno focalizzato nel proprio microcosmo d’affetti interessi e possessi, scacciati nel mondo globalizzato, ancora oggi e per sempre intrappolati o evasi a vita nella gabbia mobile della nostra tanto limitata eppure sconfinata massa corporea. (gae saccoccio)
Il Beato Giacomo Bianconi e l’astinenza dalla carne
di Adalgisa Crisanti Misticismo e penitenza
La regola dell’ordine dei frati Predicatori Domenicani, a cui Giacomo Bianconi appartenne, imponeva astinenza, digiuni e povertà e il nostro beato osservò con singolare fermezza tutte le disposizioni, nonostante provenisse da un’illustre famiglia della nobiltà cittadina.
È tuttavia difficile e azzardato il tentativo di comprendere appieno e definire con relativa esattezza l’atteggiamento spirituale del beato Bianconi (Bevagna, 7 marzo 1220-22 agosto 1301), avendo come unico riferimento la vasta, ma incerta, tradizione biografica, a causa della perdita totale dei due trattati in latino e dei vari sermoni che gli sono stati attribuiti. Sembra chiaro, tuttavia, che la realizzazione verso cui il Bianconi aspira ardentemente è un’esperienza diretta e un’unione con Dio; si tratta di un orientamento, anche e soprattutto spirituale e mistico, che si risolve in uno stile di vita e, quindi, di carattere fondamentalmente pratico. Le vite che sono state scritte, hanno tutte sottolineato le dolorose penitenze, le continue orazioni, i rigorosi digiuni, la verginità, la radicale povertà del beato; tutte pratiche che richiamano alcune tra le caratteristiche principali degli stati mistici: l’apparente illogicità, la necessità della grazia e lo slancio mistico che presuppone la rinuncia alle passioni e ai beni materiali.Convinto che senza afflizioni e patimenti non avrebbe mai potuto raggiungere Dio, Giacomo cercò di mortificare e reprimere tutti i suoi sensi, procurandosi grandi sofferenze. Secondo la tradizione biografica, una grossa cintura di castità stringeva tanto i suoi fianchi «che v’era sino cresciuta sopra la carne» e, nel periodo quaresimale, un lungo e ruvido cilicio, per mortificazione della carne, gli stringeva dolorosamente la vita. Passava gran parte delle ore notturne senza dormire, pregando e sottoponendo per tre volte il proprio corpo a cruente e sanguinose flagellazioni, applicando la prima all’espiazione dei suoi peccati, la seconda alla conversione dei peccatori, la terza in suffragio delle anime sante del purgatorio, a imitazione di San Domenico (ca. 1175-1221), che fondò il proprio ideale di cristianità non soltanto su una solida cultura teologica, ma soprattutto su una vita ascetica esemplare. Il linguaggio del cibo
Le notizie biografiche riguardanti la sua alimentazione e l’atteggiamento che Giacomo Bianconi ebbe verso il cibo costituiscono un’interessante fonte d’informazione per la comprensione della sua spiritualità; il cibo parla, è una forma di linguaggio, non scritto, non verbale ma che si lascia facilmente capire. L’alimentazione è un momento centrale e ineludibile della vita degli uomini, è in se stessa un fatto di cultura, un’espressione diretta di ciò che gli uomini fanno, sanno, pensano, in sostanza di ciò che sono.
«Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Poi il Signore Iddio diede all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti”. […] La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole agli occhi e desiderabile per avere la conoscenza, colse perciò del suo frutto, ne mangiò e ne diede all’uomo che era con lei, il quale pure ne mangiò» (Genesi, 2, 15-17; 3, 6).
Il significato del passo biblico relativo alla caduta di Adamo ed Eva e alla loro cacciata dall’Eden è abbastanza evidente. Il nostro progenitore peccò di superbia, nel folle desiderio di equipararsi a Dio, di conoscere «il bene e il male», di farsi indipendente dal suo Creatore e giudice di se stesso. Ma accanto a questa esegesi per così dire ‘ufficiale’ se ne svolgono altre, parallele, che si accostano all’episodio biblico da ben diversa prospettiva. Il peccato di Adamo può essere cioè ricondotto a dimensioni corposamente materiali. Non è più il peccato della mente dell’uomo, ma del suo corpo. È il cedimento alle tentazioni e agli istinti della carne: alla gola, alla lussuria. Indubbiamente forzata, forse ingiustificata, è l’equiparazione della colpa di Adamo a un peccato di gola; eppure questa interpretazione letterale dell’episodio del frutto proibito la si trova spesso negli scrittori del primo medioevo.«Quando si cede alla gola, si commette la colpa di Adamo»: così scrive Gregorio Magno (540 circa-604). E Alcuino di York, monaco e teologo vissuto tra l’VIII e il IX secolo: «Finché Adamo praticò l’astinenza, rimase nel paradiso: mangiò, e fu cacciato». E Giovanni Cassiano nelle sue Collationes, uno dei testi fondamentali della spiritualità monastica: «Fu un atto di gola, per Adamo, mangiare il frutto dell’albero proibito».
Questa singolare interpretazione del passo biblico, ricorrente nei testi medievali, rivela un interesse particolare al problema del cibo, che la cultura cristiana del tempo pone come centrale e decisivo per la conquista della salvezza. Prioritario, anzi, nel momento in cui l’amore per il cibo viene ritenuto la prima occasione di cedimento ai sensi. Una volta innescati i meccanismi del piacere è facile incamminarsi sulla via del peccato, così San Girolamo: «Bisogna dunque porre attenzione ad assumere cibi in quantità tale, e di tale qualità, da non appesantire il corpo e la libertà dell’anima». Se la gola è il primo dei vizi, il digiuno sarà la prima delle virtù, il fondamento di tutte le virtù. Solo attraverso l’astinenza ci si può addestrare al controllo dei sensi, a quella umiltà fisica che costituisce il necessario supporto dell’umiltà intellettuale. L’atteggiamento del beato Giacomo nei confronti del cibo, i lunghi e severi digiuni, rispecchiano chiaramente l’ossessione culturale dei primi cristiani e dei cristiani del Medioevo, la paura del peccato carnale, la volontà di reprimere le passioni del corpo per attingere la purezza dell’anima. Il primo scopo della privazione alimentare e della rinuncia al cibo, il più semplice e immediato, è, dunque, la mortificazione del corpo, il rifiuto di quella materialità che ostacola l’elevazione dello spirito verso Dio. In tale prospettiva è assolutamente fondata la scelta del Bianconi, il quale, stando agli agiografi, si astenne quasi totalmente dal consumo della carne, proprio perché la carne era, per definizione, nutrimento della carne.
Negarsi il cibo carneo significava allontanarsi dal cibo degli uomini, dal cibo per così dire ‘normale’, tanto più in un’epoca, come l’Alto Medioevo, contrassegnata da un ampio consumo di carne a tutti i livelli sociali. Era, dunque, una scelta elitaria, che distinguendosi dai regimi alimentari correnti e nella difficoltà di una rinuncia certamente faticosa trovava motivo di auto-identificazione, segno di appartenenza alla schiera dei più vicini a Dio. L’astinenza dal cibo, in particolare dalla carne, era programmata anche per un altro motivo di ordine tecnico, ovvero la castità e non soltanto nel caso specifico di Giacomo Bianconi che secondo la tradizione biografica si mantenne puro e vergine fino alla fine. La verginità era dunque intesa a sua volta come condizione privilegiata per un più rapido e intenso avvicinamento a Dio.
In effetti, pratiche alimentari e repressione della sessualità appaiono fortemente collegate all’esperienza mistica del nostro beato; l’astinenza dal cibo e la sua regolamentazione rappresentano il metodo più diretto ed efficace per intervenire sull’equilibrio psico-fisiologico degli individui in funzione della continenza sessuale. In ogni caso è evidente che ci troviamo di fronte a una scelta meditata e consapevole, dove la definizione del digiuno come prima delle virtù, su cui tutte le altre vengono a poggiare, e l’esclusione di certi cibi dal regime alimentare assumono un valore estremamente preciso e tecnico, al di là del significato genericamente mortificatorio. Mortificazione della carne, certo; ma, soprattutto, della ‘carne’ intesa come sessualità. Soltanto nei casi di necessità, dovuti a infermità e malattia, il Bianconi si concesse il consumo di carne, ubbidendo ai medici e ai suoi superiori.In tali contesti culturali e sociali, però, il rifiuto della carne assumeva, non di rado, forme estreme ed esasperate, che le stesse autorità ecclesiastiche non mancavano di condannare. La privazione della carne era intesa sia a scopo ascetico purificatorio sia a scopo punitivo. La stessa legislazione civile utilizzava l’astinenza dalla carne come strumento di punizione per reati e infrazioni di vario genere. Ma, in effetti, era soprattutto nella legislazione ecclesiastica, nella normativa riguardante l’espiazione dei peccati, che la punizione alimentare veniva sistematicamente applicata. Nel Medioevo era proprio quello il tipo più ricorrente di penitenza, stabilito dai libri penitenziali e dai testi conciliari, in molti casi confermato dalla pubblica autorità della legge. La penitenza base era la dieta a pane e acqua, eventualmente integrata (se il fisico si indeboliva troppo) da cibi ‘innocenti’, puri, non contaminati come gli ortaggi, i legumi, la frutta, proprio perché l’esclusione della carne comportava la sua sostituzione programmatica con altri prodotti, che potessero in qualche modo supplire il suo ruolo di alimento ad alto valore nutritivo.Essenziale rimaneva in ogni caso l’astinenza dalle bevande alcoliche e dalla carne. Non sorprende dunque considerare che i cibi fondamentali del regime alimentare del Bianconi fossero i legumi, il pane, gli ortaggi e le erbe cotte, a volte crude, condite con aceto, olio e sale. Soprattutto il venerdì, a meno che non coincidesse con qualche importante festa dell’anno liturgico, e le vigilie delle principali feste del Signore, della Vergine e dei Santi, in memoria della Passione di Cristo, era solito cibarsi soltanto di pane e acqua e spesso, durante il periodo Quaresimale e nell’Avvento, si sottoponeva a severissimi digiuni, per ben due o tre giorni consecutivi. L’elemento sostanziale della dieta era probabilmente rappresentato dai legumi, dei quali è noto l’elevato valore nutritivo, legato all’alto contenuto proteico. Che si trattasse di una consapevole alternativa alla carne è comunque difficile sostenerlo. Sembrerebbe il pane, in realtà, una presenza costante nella quotidiana alimentazione del beato (potrebbe esserne una prova il coltello che portava sempre con sé, utilizzato a tavola per tagliare il pane o per scrostarlo), tanto più basilare quanto più legata a simbologie e significati che trascendono il piano propriamente alimentare per investire il campo della mistica.Al di là dalle valenze etiche e comportamentali, il cibo, infatti, tendeva a interpretare simbolicamente la realtà terrena, a intenderla come immagine dell’unica realtà vera, quella dello spirito. Così i legumi potevano significare la continenza dalla lussuria e la mortificazione del corpo. Soprattutto il pane, immagine del miracolo eucaristico, si prestava a essere caricato di un forte simbolismo. L’identificazione fra pane terreno e pane celeste, fra cibo del corpo e cibo dell’anima, si spingeva fino a immaginare una materializzazione di quest’ultimo. Il pane di farina non è solo immagine del pane di Cristo, ma sua manifestazione terrena. Del resto, nella letteratura del tempo, il miracolo alimentare è all’ordine del giorno: il miracoloso rinvenimento del cibo, la sua moltiplicazione, la sua trasformazione (l’acqua in vino), avvenimenti tutti presenti nelle agiografie del beato Bianconi, rappresentano una delle forme più consuete di intervento divino nella vita quotidiana, in questo caso mediato dall’azione di Giacomo.«Mentre si fabricava il convento, e la nuova chiesa, il Signor Iddio lo fece illustre, e segnalato appresso i suoi compatrioti con molti miracoli: conciosiaché più volte, à prieghi di lui, il Signore accrebbe il vino, e ’l pane da lui benedetto per i Muratori, & Artefici».
Per quanto concerne le bevande, l’unica espressamente menzionata dalle biografie del beato Giacomo è l’acqua, «con qualche traccia di vino, solo una o due volte la settimana», che in realtà, inquadrando giustamente gli usi alimentari del medioevo, non si beveva mai pura essendo spesso torbida o inquinata, date le tecniche rudimentali di estrazione a poca profondità nel sottosuolo. Si aromatizzava con frutta, erbe, miele, aceto; in alcuni casi si bolliva per disinfettarla o si beveva insieme al vino per renderla più igienica. Il vino viene però citato soprattutto a proposito del discorso sui miracoli compiuti dal Bianconi, presumibilmente per il fatto che si arricchì di significati simbolici e si legò a impieghi liturgici che lo nobilitarono, favorendone la promozione a cibo lecito e raccomandabile, da escludere solo in casi estremi di mortificazione, voluta o imposta.
L’accostamento del vino alla carne, come bevanda afrodisiaca ed eccitatrice di passioni, è in ogni modo quasi un topos nella letteratura morale dei primi secoli del cristianesimo e del medioevo; il rifiuto del vino è molto spesso contestuale a quello della carne, nelle scelte e nelle pratiche di mortificazione e questo potrebbe spiegarne la quasi totale assenza nel regime alimentare del beato.
Il linguaggio del cibo si prospetta pertanto come un codice complesso, che coinvolge etica, religiosità, ritualità e simbologia.
Cenni bibliografici
G. M. MERLO, Misticismo, in «Grande Dizionario Enciclopedico», Torino, Utet, 1970, pp. 617-619.
L. IACOBILLI, Vita del b. Giacomo da Bevagna, Foligno, 1644.
M. GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi patrono di Bevagna, Spoleto, 1950.Cfr. La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Paoline, 1960, p. 15 (commento a Gen. 2, 17).
Per le citazioni di Gregorio Magno, Alcuino, Giovanni Cassiano si veda M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2004.Le agiografie tramandano che il b. Giacomo, nella stessa mattina in cui morì, si presentò alla beata Vanna nella chiesa dei padri Predicatori di Orvieto, dandole in dono la cintura e il coltello che teneva sempre con sé; il fatto che non vennero ritrovati nella camera del Bianconi ha fatto pensare a una vera e propria apparizione di Giacomo al fine di rassicurare e di garantire alla beata la sua protezione anche in seguito alla morte.
IACOBILLI, Vita del b. Giacomo cit. (nota 2).
GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi cit. (nota 3).
Secondo la tradizione biografica, nel 1291, il beato Giacomo, durante l’edificazione del convento di Bevagna di cui egli stesso era priore, moltiplicò il pane e convertì, più volte, l’acqua in vino per sfamare gli operai, affaticati dal duro lavoro.
Per tutte le indicazioni contenute in questo articolo, riguardanti le pratiche di mortificazione, le abitudini alimentari e la verginità del b. Giacomo, si vedano: F. A. BECCHETTI, Vita del b. Giacomo Bianconi di Bevagna, Roma, 1785; IACOBILLI, Vita del b. Giacomo cit. (nota 2); G. B. TORRETTI, Vita del b. Iacopo da Bevagna, Siena, 1643; GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi cit. (nota 3); B. PIERGILI, Vita del b. Giacomo Bianconi da Bevagna, Roma, 1729; ID., Vita e miracoli del b. Giacomo, Todi, 1662.
Roncús a Capriva del Friuli (Collio). Sono stato una volta in visita da loro qualche anno fa. Terreno marnoso, colline e pianure di roccia accudiscono con orgoglio un piccolo vigneto di oltre 100 anni (Vecchie Vigne) che è un museo a cielo aperto di Malvasia, Friulano e Ribolla Gialla, un patrimonio ecologico perfettamente integrato in una visione generale della biodiversità a fondamento della filosofia produttiva aziendale. Questo vino nello specifico è un distinto Pinot Bianco annata 2012 realizzato da una breve macerazione sulle bucce, lieviti indigeni, invecchiamento di 18 mesi “sur lie”. Molto chiare, esplicative il giusto e assai ben dettagliate le retro-etichette.
Il vino è stato accompagnato da una focaccia rustica di cipolle molto più che sublime in abbinamento anche su un paio di piatti clamorosamente nobili nella loro gustosa povertà di elementi: involtini di verza e patate con uovo e formaggio cotti al forno e torta salata di broccolo romanesco e ricotta spolverata di nocciole di Vallerano, preparati sempre con la solita dedizione amorevole, impegno costante e studio delle materie prime dalle care Simonetta ed Elena di Casa Poggiobello a Farneta (Cortona) nei pressi di una misteriosa Abbazia che data attorno all’anno mille: valgono entrambi il viaggio!