“Se Richard Maxfield non si fosse suicidato nel 1969, e se i suoi pezzi di musica elettronica non fossero così difficili da trovare o da ascoltare, allora la nostra idea di come la musica sia cambiata e si sia aperta durante gli ultimi trentacinque anni sarebbe senz’altro diversa”.
New Sounds in Electronic Music è un vinile del 1967, contiene tre sperimentazioni sonore di Steve Reich “Come Out”; Richard Maxfield “Night Music”; Pauline Oliveros “I of IV“.
Gorky/Berio – 1948/1961
Perché mai la gente dovrebbe appassionarsi per le cose che non conosce?
György Ligeti
Natura delle Cose audiovisive e l’Algoritmo Leviatano [qui la versione in inglese]Sul “gesto apotropaico” si confronti J.N. Adams, Apotropaic and ritual obscenity, in The Latin Sexual Vocabulary, JHU Press, 1990.
<<Natura delle cose audio-visive. Un vino quotidiano schietto fatto di suoni, rumori, visioni, silenzi. Costellazione multimediale di saperi.>>
Questa la “tag-line” nello spirito umanistico di Bachelard quando pregava: “Dacci oggi il nostro libro quotidiano.”
Pars destruens
Non serve essere chissà che scienziati della comunicazione per accorgersi che non siamo noi ad usare l’algoritmo di Facebook ma è l’Algoritmo che abusa di noi. È un Leviatano che ci cannibalizza, che si nutre giorno dopo giorno della nostra identità virtuale, inasprendo al massimo il peggio di noi: narcisismo, malevolenza, frustrazione, risentimento, ostilità, ignoranza, megalomania, autocelebrazione, intolleranza, esibizionismo…
Noi però – tanto i consapevoli quanto gli sprovveduti – non siamo che patetici, insignificanti numerini vomitati nella trappola per sorci dei “Big Data”. Ridiamo ormai tutti in massa degli stessi “meme”. Commentiamo tutti gli stessissimi eventi del momento polarizzati tra i pro o i contro. Condividiamo in molti l’identica rabbia, gioia o dolore per i necrologi del giorno. Ci scandalizziamo e siamo altruisti a comando. Ci odiamo e veneriamo in troppi l’un l’altro a colpi di “flame”, “like”, “selfie” con le labbra a culo di struzzo sullo “specchio delle mie brame” delle nostre bacheche spettrali.
L’algoritmo non lo fotti perché è stato creato per fotterci. Forse, senza risultare troppo paranoici o pomposi, se ne può fare un uso meno tossico di Facebook e dei social in generale. Autocommiserarsi e lagnarsi soltanto serve a poco. Bisogna trovare una soluzione concreta, una via di fuga almeno per noi stessi, per quanto improbabile o inefficace possa sembrarci sulla breve durata ma chissà che non sia una soluzione decisiva se prospettata a lungo termine. Raccogliere ciò che è disperso nella melma di Internet per ridargli rispettabilità educativa e beneficio di conoscenza. Visto poi il fallimento collettivo dell’istituzione scolastica e dell’insegnamento ufficiale sotto tanti punti di vista – dalle scuole dell’infanzia all’università -, adattarsi ad una radicale forma di concentrazione monastica e propensione all’autodidattica mi pare un buon metodo per affinare il proprio giudizio critico, per praticare la giusta disciplina marziale di ricerca interiore in “smart-working“.
Educarsi a conoscere ogni giorno qualcosa di nuovo è forse il solo modo per non farsi narcotizzare i sensi dalla distrazione collettiva generale diramata e perpetrata dal Sistema.
Pars construens
“Tutto è stato fatto, e niente è stato fatto; per cui tutto è da fare, e non c’è niente che non si possa fare.” Emilio Villa
La Rete può essere tanto uno strumento di distrazione di massa quanto un collettore di stimoli sensoriali, di propulsioni conoscitive (sviluppo gnoseologico). Un atlante fluido di saperi vastissimi e incessanti che però bisogna imparare a leggere proprio come si leggono le mappe geografiche. Se non siamo in grado di orientarci in modo attivo la Rete è un abisso di informazioni dispersive, inefficaci al nostro accrescimento personale, si trasforma in un’accozzaglia di impulsi multiformi sterili che subiamo passivamente. Rischia cioè di diventare un deserto mobile sconfinato di granelli spazzati dal vento. Un vortice di puntini sovrapposti che dobbiamo sempre essere in grado di unire tra loro per dargli un senso progettuale, per cercare di non perdere l’orientamento. Per evitare infine che il nostro complesso schema di pensiero sia sottomesso e polarizzato dallo schema binario della Macchina che tende a appiattire/banalizzare qualsiasi cosa sul suo cammino. Allenare tutti i giorni i sensi della vista e dell’udito è Yoga per la mente, cibo e vino per lo spirito. Questo cortocircuito perenne di informazioni raccolte online o dai libri, dalle bibliografie delle arti visive, dalle discografie e dalle filmografie, diventa una pratica artigianale di risveglio della coscienza che stimola il nostro intelletto, focalizzandoci sempre più a comprendere noi stessi e gli altri. Più impariamo a leggere, interpretare, criticare, vedere ed ascoltare il mondo, meno ci facciamo infinocchiare dal brutto, dal falso, dall’Intelligenza Artificiale, dal vuoto culturale dentro cui sprofondiamo. Più siamo concentrati sull’accrescimento interiore di noi stessi e sul nostro sviluppo intellettuale meglio possiamo contrastare l’intorpidimento forzato del cervello calcolato millimetricamente a tavolino da algoritmi e big-data. Avversare con tutte le nostre forze l’omologazione del nostro senso estetico. Combattere a sangue l’abbrutimento, l’imbambolamento veicolato della nostra soggettività sia virtuale che reale la quale, se abbandonata a se stessa, manipolata dai flussi dell’Algoritmo, diventa sempre più un’identità passiva plasmata a misura di un sorcetto da laboratorio
Con l’esercizio concentrato, lento ma costante di scoperta ostinata su Internet, “costringiamo” la Rete a trasformarsi, a spalancarsi pian piano in una magnifica avventura della conoscenza dove oltre i soliti siti di ricerca e piattaforme enciclopediche-universali (Google, Wikipedia, YouTube… soprattutto se si masticano inglese, francese e altre lingue), si scoprono blog raffinatissimi, si rivelano come tesori dei siti di approfondimento specialistici incredibilmente competenti sul cinema, la musica, l’arte, la letteratura, lo yoga, gli scacchi, la viticoltura e su qualsiasi altro argomento o disciplina a cui vogliamo dedicare le nostre osservazioni, documentazioni, analisi circoscritte.
Attenzione, non si tratta di erudizione fine a se stessa, ma di furiosa smania conoscitiva. Imparare da sé a decifrare i segni visivi e sonori da cui siamo letteralmente inondati significa imparare a stare al mondo. Si tratta cioè di appagare il desiderio di conoscere le cose, di colmare dei vuoti affettivi come un gesto riempitivo d’amore e cura per se stessi. Perdenti agli occhi delle masse di gente abituate a giudizi e pregiudizi superficiali, ma vincenti nel rispetto che portiamo verso il Sapere e verso noi stessi.
«I perdenti, come gli autodidatti,
hanno sempre conoscenze più vaste
dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere
una cosa sola e non perdere tempo a
saperle tutte, il piacere dell’erudizione è
riservato ai perdenti. Più cose uno sa,
più le cose non gli sono andate per il verso giusto».– Umberto Eco –
Orientarsi nel caos enciclopedico del Web non è uno scherzo, è un’impresa sfiancante. Anche perché è un’essenza eterea, “liquida”, è la sua natura di interconnessione informatica. I contenuti, i dati che ci interessano sono già tutti lì stratificati uno sull’altro in un flusso infinito di codici, input e output. Come esploratori del sapere audiovisivo dobbiamo necessariamente distinguere e riconoscere le informazioni utili da quelle superflue, setacciare di continuo in questa bolgia melmosa di parole–suoni–immagini per separare l’oro dal fango. Le competenze – tanto teoriche che pratiche – si acquisiscono nel tempo a furia di curiosità, studio, ricerche, approfondimenti, comparazioni, tenacia.
È necessario difendersi mani e piedi perché il rischio è quello di venire inghiottiti dal Sistema, spolpati dell’anima mentre il guscio del corpo viene sputato via lontano su un cumulo gigantesco formato da milioni di altri gusci sputati. Sì perché il rischio che si corre è quello di essere pian piano tramutati in tante entità piatte, in fruitori robotici sterilizzati della volontà di sapere, quindi di pensare con la propria testa e di agire, volontà che identifica la nostra specie, caratterizza la nostra sola dignità umana di esseri pensanti e in qualche modo liberi. È indispensabile soprattutto aver fame, essere affamati di una curiosità onnivora sulla scia del Calvino saggista, il Calvino collezionista di sabbia e ricercatore dei mondi scritti e mondi non scritti.
Spremendo informazioni e connessioni dalla Rete e dai libri, provo a plasmare un palinsesto di contenuti culturali concatenati. Insisterò a diffondere cortocircuiti psichici sulla mia pagina Natura delle Cose. Questo palinsesto lo voglio concepire come una costellazione multimediale di espressioni creative attinenti alla ricerca artistica, dal microcosmo dell’immagine (pittura fotografia cinema), alle sperimentazioni nell’universo sonoro, fino ai margini estremi dell’afasia, dell’incomunicabile, del caos primordiale, della disarmonia, del balbettamento filosofico. Lo immagino come una mappatura fluida delle esperienze dei linguaggi musicali/visivi che hanno lievitato e prolificato negli ultimi cento anni, diciamo più o meno a partire dalle avanguardie storiche nei primi decenni del ‘900. È un quaderno d’appunti in divenire dove sollecito la stimolazione continua ai nostri organi della vista e dell’udito. È un diario di bordo dove io per primo imparo qualcosa ogni giorno assieme a chi abbia la voglia e la curiosità di leggere la correlazione dei geni creativi che hanno udito altre possibilità di linguaggio, che hanno intra-visto altri mondi possibili. Lo scopo che mi prefiggo non è ovviamente esaustivo e non pretende di essere compilatorio/sterile ma è un abbozzo di associazioni d’idee vive, congregazioni di pensieri scaturiti da libri, articoli, siti internet, concerti, musei, film. Traccio un percorso tra migliaia di altri percorsi potenziali. Instillo le mie scintille di curiosità e di correlativi oggettivi come li definiva T.S. Elliot in Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e sulla critica.
“Una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare.“
Distillo le mie passioni, credenze e cognizioni nel calderone interconnesso, con la fiducia certo un po’ naïf di accendere il fuoco della conoscenza – analogica e digitale – anche in altri individui che cercano, leggono, scrivono sia sulla carta che online.
Imparare facendo è l’antico adagio risuonato per secoli nelle botteghe degli artigiani dove il sapere manuale, le cognizioni tecniche, le abilità pratiche si trasmettevano per generazioni dai maestri agli allievi. È un monito che trovo sempre valido e che faccio mio, nonostante l’estinzione di tanto mondo artigianale indotto anche soprattutto dalla tecnologia informatica che ha stravolto per sempre la faccia del pianeta la quale tuttavia permette a me e a milioni di altri di pubblicare e comunicare le proprie cose, interessanti o noiose, stimolanti o insignificanti sta a chi legge deciderlo.
A qualcuno potrà sembrare una perdita di tempo quella di connettere mondi artistici, raccogliere e riordinare visioni del mondo in Rete per stimolare la ricerca dei lettori. Potrà sembrare in effetti uno sforzo illusorio come quello di contare i granelli di sabbia nel deserto, ma per me è un esercizio Zen di concentrazione e pulizia della mente. In effetti sono quasi certo che questa pratica continua di comunicazione dei contenuti culturali positivi sia una preparazione atletica sana, efficace a tonificare il cervello tanto di chi scrive quanto di chi legge.
Sarà insomma un’esplorazione avventurosa oltre i “limiti” di quelli che crediamo essere il nostro “linguaggio” e il nostro “mondo”, a ricordare non a caso il primo Wittgenstein del Tractatus, pubblicato nel 1921 quando aveva appena 30 anni, in quei primi decenni del secolo scorso appunto che hanno preannunciato catastrofi mondiali spaventose, scoperte scientifiche impensabili per l’umanità, invenzioni poetiche e sperimentazioni artistiche arrischiate su vertici dove l’intelligenza della nostra specie si confonde con la propria bestiale idiozia autodistruttiva.
«Perché mai la gente dovrebbe appassionarsi per le cose che non conosce?» si chiedeva amareggiato György Ligeti nel libro-conversazione con Eckhard Roelcke, Lei sogna a colori? (Edizioni Alet) a proposito del disinteresse della gente nei confronti della musica contemporanea. Ecco, tutta questa mia elucubrazione fino a qua, tenta di dare una risposta articolata alla domanda amara ma essenziale di Ligeti.
Insomma un post al giorno concatenando le visioni sonore e i visionari delle arti visive, come esercizio d’apprendimento costante o semplice “rito apotropaico” per arginare l’ondata di false notizie e cospirazionismi del giorno, per esorcizzare la valanga di merda tossica digitale e cartacea che travolge tutto e tutti.
Visioni, suoni, rumori, silenzi… per non crepare d’aridità o di analfabetismo funzionale. Per appassionare prima noi stessi poi gli altri, alle molte molte cose che ancora non conosciamo. Perché la conoscenza è infinita mentre noi siamo finiti ma in quella congiuntura di tempo e spazio che ci è concessa possiamo illuderci attivamente, essere grati di partecipare a questa entusiasmante infinitezza.
Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.
Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.
Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.
A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.
A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”
Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.
Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.
Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.
Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”
Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.
Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.
Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.
All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.
Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.
Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.