La Liguria ai vignaioli, i vignaioli alla Liguria!
La prima uscita post-covid l’ho intrapresa il 2 Luglio scorso in Lunigiana. L’occasione è stata offerta dall’invito ad una presentazione ufficiale di vini liguri organizzata dal Consorzio Volontario di Tutela e Protezione vini DOC e IGT che accomuna i produttori dei Colli di Luni delle Cinque Terre delle Colline di Levanto della Liguria di Levante.
Il Frecciargento da Roma a Firenze era quasi vuoto, sterilizzatissimo. In pochi quali eravamo, smistati nei vagoni, le bocche e le narici tappate dalle mascherine, ci si adocchiava come bestiole smarrite in un sogno ammutolito. Mi è sembrato di viaggiare in una dimensione spazio-temporale alterata rispetto alla quotidianità ammassata, caciarona e iper-cinetica dei giorni pre-covid.
La degustazione si è tenuta nella sala del ristorante Da Fiorella nel borgo di Nicola. I vini in assaggio erano 58 delle annate 2018/2019 di cui ben oltre la metà a base Vermentino. Le zone di provenienza sono state suddivise tra i territori di: Luni, Castelnuovo Magra, Fosdinovo, Sarzana, Santo Stefano di Magra, Arcola, Carro, Ameglia, Sesta Godano, Bonassola, Levanto, Corniglia, Vernazza, Cinque Terre, Manarola, Monterosso, Volastra, Riomaggiore, Campiglia, Corniglia. Se i vini in assaggio erano circa 60, i produttori presenti con le loro etichette in questo elenco superavano la quarantina, un numero cospicuo non facile da tenere a bada sotto uno stesso cappello produttivo-amministrativo.
Non devo essere certo io a romanzare la bellezza mozzafiato della riviera ligure soprattutto quest’angolo magico della costa di levante. Un paesaggio che resta pur sempre un microcosmo sublime nonostante gli sforzi immani del progresso industriale, delle velleità portuali e del turismo barbarico ce l’abbiano messa tutta per devastarlo, vandalizzarlo così come è avvenuto dal secondo dopoguerra in tutta la penisola italica, isole comprese. Un promontorio collinare morfologicamente impervio composto da vertiginose lingue di terra che sprofondano nel Tirreno creando un intrico di fiordi, terrazzamenti costieri, isolette collegate al mare da dorsali di terra piantate a vigna su entrambi i lati. Un territorio strappato alle piogge scroscianti, alle scogliere ripide, incoronato dalle alpi che temperano il clima con brezze di montagna alitanti verso il mare del golfo. Unghie di terra quasi impossibili da lavorare eppure come nella migliore tradizione mediterraea vocata alla viticoltura eroica su queste dorsali aspre prosperano i vigneti, vitigni di Vermentino, Albarola o Bianchetta, Bosco, Ciliegiolo, Granaccia.
Man mano che ci si concentra con tutti i sensi nel bicchiere, il sentimento predominante sarà purtroppo sempre più qualificato da disagio, tedio, delusione. In particolar modo una domanda ossessiva mi ha perseguitato per tutta la durata della degustazione: come può essere possibile che il 98% dei vini presenti si somigliassero tutti in negativo cioè per sottrazione di buccia, di colore, di polpa, di mineralità, di spessore, di energia vitale, di personalità, a favore di una soluzione idroalcolica anonima, trasparente, giallopaglierina, sterile, piatta, indistinta?
Si sbandierano tanto le caratteristiche e le tipicità del vitigno: “il Vermentino contiene un alto grado di polifenoli quindi rischia molto l’ossidazione”, è quanto snocciolava l’enologo del Consorzio come a giustificare con frigidità professionale un uso impattante di solforosa – seppure a lui dovesse sembrare poca roba “solo tra gli 80 e i 120 mg/l” – anzi quasi scoraggiandosi al fatto che la stragrande maggioranza dei produttori non fosse industriale “mentre qui purtroppo siamo nell’artigianalità”, di certo un lapsus linguistico quel “purtroppo”, ma molto rivelatorio di una mentalità di casta, quella degli enotecnici, improntata più alle scorciatoie che ai percorsi irregolari, dove irregoralità per me è sinonimo di libertà. All’eroico assaggio di questa batteria tanto impegnativa, si escludono un 2% di vini – tra cui gli Sciacchetrà – meno irreggimentati a un’enologia tecnocratica e difatti sono proprio quei vermentini con una lieve patina di velo perché non hanno subito la falciatura delle filtrazioni sterili, vini dal colore dorato più denso da macerazione prolungata e con maggiore complessità organolettica (vedi il Lunatico della Carrecia, il Lunatica de Il Torchio, La Felce col suo Monte dei Frati e Bianco In Origine).
A fine degustazione, la magia romanzesca delle vigne a strapiombo sul mare o la poesia della viticultura eroica, lasciano miseramente il posto alla retorica stagnante dell’identità e della tradizione, in veste di vinelli annacquati e smorti, uno uguale all’altro. Imperterrito, rimango focalizzato con lo sguardo, l’olfatto e il gusto sui bicchieri, da cui ricavo che pare trattarsi piuttosto di una tradizione e un’identità destoricizzate. Un’identità e una tradizione da campagna pubblicitaria costruita ad hoc a partire dagli imbellettamenti dell’industria enologica confidente nelle pulsioni massificate di un turismo da crociera riversato sugli hotel della riviera. Parliamone eccome di identità/tradizione però bisognerebbe soprattutto chiedersi come erano questi vini, da chi erano fatti e perché, prima che arrivassero i diserbanti, i lieviti selezionati, le vigne meccanizzate, le solfitazioni spinte e le ruspe del turismo internazionale a condizionare senza pietà la produzione razionalizzata e la commercializzazione massiccia degli stessi vini da parte di enologi, proprietari terrieri, imbottigliatori, grossisti, intermediari d’uve e mosti concentrati i quali incarnano per la maggior parte di loro il proverbio che dice: “Attacca l’asino dove vuole il padrone.”
Conversando con Alessandro e Gilda de Il Torchio assieme a Walter de Battè, un vignaiolo appartato che ha deciso di restare fuori dal consorzio, Walter ci raccontava che il Vermentino, trasportato nei millenni scorsi in Liguria dai navigatori spericolati del mondo antico, lui lo interpreta come ritiene debba essere stato fatto per secoli il vino costiero mediterraneo – così ad esempio a me è capitato di assaggiarne al Giglio da uve Ansonaco – estraendone colore, sapidità, sostanza, tridimensionalità, mantenendo il pigiato sulle bucce per qualche settimana durante la fase fermentativa.
Tutela e protezione di un territorio vitivinicolo dovrebbero passare sempre dalle mani e dalla testa di chi lavora la vigna come Walter. Tutela e protezione riguardano la responsabilità concreta dei vignaioli pure se non è affatto semplice visto che il prezzo delle uve è determinato dal peso in campo delle grosse aziende, cooperative o cantine sociali, destinate a dettare legge imponendo il bello e il cattivo tempo alle realtà più inermi con nessuna voce in capitolo se non la costrizione di accodarsi alla legge spietata che il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. Purtroppo dalle denominazioni più prestigiose a quelle più oscure, il problema è sempre quello della convivenza irrealizzabile tra imbottigliatori, conferitori, produttori grossi e aziende medio-piccole quasi sempre sull’orlo della crisi di nervi. Il rischio di questa sorta di monopolio strisciante da parte dei pesci più grossi è l’omologazione anche di quelli piccoli che si intruppano alla concezione del vino inespressivo fatta passare per “tradizione” ma che in verità è solo un tradimento dell’unicità, una banalizzazione della singolarità e indipendenza di chi interpreta un’uva trasformata in vino non solo a seconda della zona specifica ma anche in base alla propria libertà espressiva, al proprio estro imbevuto di consapevolezza, esperienza e gioia sperimentale. È evidente che di vino piatto in giro per il mondo se ne produca fin troppo e molte cantine pur facendo delle bevande sconfortanti e ruffiane che fanno l’occhiolino al consumatore meno avveduto, il vino alla fin fine resta invenduto a migliaia di bottiglie. Tanto vale sentirsi liberi di fare e provare a vendere il proprio vino allora, che dovrebbe sempre essere il riflesso di chi lo fa e dove lo si fa. Un vino meritevole cioè di concedergli il tempo giusto di affinarsi senza alcuna intermediazione invasiva tra tecnici aridi o consulenti vari che progettano a tavolino vini da profitto mordi e fuggi dell’annata, in modo da liberare le cantine quanto prima possibile per far spazio senza sosta all’annata successiva e così via, a catena di montaggio.In terrazza affacciati sul borgo medioevale Nicola di Ortonovo con gli ulivi che digradano verso la Val di Magra, per ritrovare finalmente un’acidità tagliente che aprisse lo stomaco e predisponesse ai succhi gastrici durante il pranzo che intervallava la degustazione dei sessanta vini, abbiamo stappato una Cantillon palpitante di 5 anni, ed è stata una vera e propria festa per il palato che a quel punto necessitava solo di essere rinfrescata con una boccata di tensione, succulenza, vibrazione, ossigeno. E sorseggiando birra acida, ripensavo con mestizia al fatto che di questa quarantina di produttori, quelli più propensi ad una concezione di vino davvero territoriale si contavano sulle dita di una mano: Il Torchio, La Felce, Possa e due fuori dal coro: Prima Terra e Terra della Luna. C’è da dire che la questione della viticoltura in Liguria così come nelle zone vertiginose di alta montagna non è facilitata per nulla dalla lavorazione in vigna per cui tanti giovani sanno bene che riescono ad ottenere guadagni più immediati e senza troppi sacrifici con gli affitti degli appartamenti e delle case ereditate dai nonni alle Cinque Terre, gli stessi nonni che magari hanno sgobbato tutta una vita su quegli appezzamenti faticosi, strappando le zolle all’erosione di vento e pioggia. È gioco facile da qui l’abbandono alla malora delle terre o l’affitto a qualche azienda rapace con tanti capitali da investire ma con nessuna vera idea di vino autentico se non le cantine gigantesche iper-tecnologiche innalzate in pianura nelle zone industriali contigue alle città. E talvolta sono vigne incredibili che strapiombano sul mare da cui verrebbero fuori senza dubbio dei vini singolari, se solo ci fossero dietro vignaioli cazzuti con una visione unica e il manico appropriato per incarnare in un vino unico fatto in vigna, la propria visione mediterranea della vite ovvero della vita.Come spesso accade in questo tipo di presentazioni con batterie infinite di vini, ci si fossilizza tutti al solito sulla degustazione organolettica, spesso velleitaria, monopolizzata dalla tediosa manciata di descrittori grotteschi da corso AIS, senza soffermarsi neanche un secondo sulle questioni davvero fondamentali: le lavorazioni manuali in vigna, l’approccio sostenibile ad un’agricoltura olistica non invasiva, la fertilità dei suoli, l’armonia vegetale delle viti, l’integrità uomo-terra, gli equilibri instabili dell’ecosistema, il surriscaldamento del pianeta con tutte le conseguenze politiche, economiche e sociali che questo si trascina dietro. Non era un caso infine che la tipologia di vino più espressiva di tutta la batteria fosse rappresentata dagli Sciacchetrà fluttuanti tra il dolce e il salmastro, l’ossidazione e la densità, proprio per questa fatica nella lavorazione che si portano dietro fatta di raccolte accuratamente scelte a mano, d’appassimento e d’attesa mansueta. Alla fine della fiera non si può credere contemporaneamente che la terra sia piatta e sferica, così come non si può brandire ai quattro venti lo slogan della territorialità se i vitigni di una zona produttiva trasformati in grigia soluzione idroalcolica per bieche ragioni commerciali si somigliano tutti senza lontanamente manifestare né personalità né espressività né profondità né complessità né verità. Il vino politico che mette tutti d’amore e d’accordo è un’illusione. Così come è una cagata pazzesca la questione della terra piatta. Il vino semmai è lotta per la conferma dell’identità del vignaiolo che l’ha prodotto il quale a sua volta riflette l’affermazione del territorio sul vino e su lui vignaiolo fusi in una perfetta coesistenza di antropologia vegetale. Il rischio deleterio che un solo enologo faccia il medesimo vino preciso sputato a tutte le aziende di una denominazione è invece quanto di più lontano dall’identità di un terroir e dalla imprevedibilità del gusto, un’imprevedibilità che per me è il segreto finale della fermentazione alcolica, la sfuggente/struggente bellezza interiore del gusto.
Per come la vedo io quindi senza vignaioli di carattere non c’è e non ci sarà mai nessun vino davvero caratteristico ovvero territoriale. Senza vignaioli c’è solo un prodotto finito col nome “vino” scritto in etichetta utile a rappresentare una forma vuota, votata all’utilitarismo spiccio ma che non è affatto vino nella sostanza tanto è impostato su protocolli preconfezionati, dosaggi di ingredienti farmaco-enologici, schematismi da piccoli chimici prestati all’inferno dell’industrializzazione del sapore e alla manipolazione del palato.