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Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.
Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.
Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.
A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.
A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”
Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.
Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.
Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.
Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”
Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.
Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.
Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.
All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.
Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.
Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.
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IL VINO COME SIMBOLO E TRASFIGURAZIONE DELLA NATURA UMANA
Siccome al tempo mi era sfuggito, traduco e pubblico a due anni dall’uscita sul New Yorker, questo articolo di Rachel Monroe del 18 novembre 2019.
La cosa più significativa non è tanto l’articolo in sé che oltretutto è assai prolisso ed è scritto in maniera alquanto sciatta e approssimativa da una giornalista che chiaramente ha poca familiarità col vino, mostrando un approccio piuttosto naïf alla materia che tratta. Interviene in alcuni tratti Alice Feiring a puntualizzare alcuni aspetti più specifici sul vino naturale; avevo recensito qua il libro della mia amica Alice, Naked Wine, tradotto da Slow Food col titolo Vino (al) naturale.
Quel che è molto interessante dell’articolo invece è la sua forte carica implosiva che manifesta in vari punti lo Zeitgeist (lo spirito dei tempi) rivelando inconsapevolmente la tipica propensione americana verso derive mistiche di bassa lega sempre correlate alla propaganda occulta, all’ossessione bulimica per il denaro. Una superficiale propensione alla creduloneria costellata dall’assoluto vuoto spirituale che è di volta in volta colmato dal santone di turno in cui credere e da cui farsi abbindolare, dal volto nella folla più sveglio degli altri, dalla moda new age più furba del momento che rifili alle masse di pecoroni cibo bio, vino naturale o yoga.
Chi ha visto Wild Wild Countrycapisce meglio di cosa sto parlando. È un documentario eccellente diretto e montato con estrema accuratezza da Maclain Way & Chapman Way. Sono 6 episodi incentrati sul guru Osho Bhagwan Shree Rajneesh, sulla fondazione della città di Rajneeshpuram in Oregon, sul delirio d’onnipotenza che può scatenare il culto della personalità in milioni di disadattati alla ricerca di risposte vagamente spirituali in un mondo brutalmente capitalistico. Tutto questo scenario implosivo emerge dalla lettura dell’articolo dove il tema del vino naturale è giusto un pretesto, anzi un simbolo di distorsione mentale, un’allegoria di trasfigurazione del mondo in cui viviamo e di quel brutto genere d’animali sociali tragicamente influenzabili che tutti noi siamo diventati.
Segue la mia traduzione dell’articolo della Monroe.
IL VINO NATURALE È DIVENTATO UN SIMBOLO DI CONSUMO VIRTUOSO
La moda dei vini naturali ha esposto i produttori artigianali al successo e a nuove prospettive economiche, suscitando interesse sulla loro personalità e visione politica.
Nel 2010, Dani Rozman si era appena laureato all’Università del Wisconsin. Dani è talmente preciso e premuroso che i suoi amici sostenevano fosse inevitabile sarebbe diventato un professore di storia con un armadio pieno di cardigan. Rozman invece se ne andò in Argentina, finì a Mendoza, il fulcro della scena vinicola del paese, lavorando per una startup che aiutava la gente ricca a realizzare le proprie fantasticherie sul vino. La startup permetteva di acquistare un vigneto a distanza, farlo coltivare da qualcun altro, personalizzare le etichette e ricevere casse del “proprio” vino da sfoggiare alle cene con gli amici.
Un’estate, Rozman andò a Itata, l’estremità meridionale della regione vinicola del Cile, per fare la vendemmia in un’azienda locale. Ebbe l’impressione che i produttori di vino del Cile fossero come i figli di papà della Napa Valley: soldi di famiglia e abiti firmati. A Itata invece era diverso. L’azienda vinicola consisteva in un container e in una tenda a rete, il lavoro era incessante. Rozman è cresciuto in una famiglia attenta alla salute che tuttavia “doveva sempre ricordare che il cibo proviene dalle coltivazioni e dal lavoro in campagna“. Il contatto quotidiano con le piante fu come una rivelazione per Rozman. Alcuni dei vigneti erano stati piantati secoli prima, da conquistadores e missionari. Le uve erano País, un vitigno caduto in disgrazia quando i produttori di vino si sono dedicati a varietà più popolari come il Cabernet Sauvignon. Anche i metodi di lavorazione erano ancora tradizionali: l’uva veniva raccolta a mano e diraspata su un tappeto di bambù chiamato zaranda, quindi fermentava in vasi di terracotta. Il prodotto finito era qualcosa di sorprendente. “A quel tempo in Argentina il Malbec la faceva da padrone”, mi ha detto Rozman. Il paese produceva molti vini omologati e ad alto contenuto alcolico, invecchiati in botti di rovere, vini che soddisfacevano il gusto internazionale – “la roba del consulente francese”, come l’ha definita Rozman. Per lui erano vini dal sapore pesante e inespressivo, mentre i vini di Itata erano essenziali ed elementari. “La stessa differenza che c’è tra il giorno e la notte”.I vini artigianali in quegli anni avevano già trovato un bel seguito nelle città europee e giapponesi e stavano iniziando a guadagnare terreno anche negli Stati Uniti. La loro novità risiedeva proprio nella venerazione della tradizione da parte dei produttori, nel rifiuto dei metodi high-tech su cui facevano affidamento molti viticoltori convenzionali. I vini erano tipicamente prodotti con uve biologiche, senza aggiunta di lieviti selezionati, senza filtrazione né additivi chimici né botti di rovere nuove, Vini prodotti senza manipolazioni meccaniche. Quel genere di vino era variamente descritto come a basso intervento, vino nudo o crudo; il termine che alla fine ha attecchito di più è proprio “naturale”.
Negli ultimi anni i vini naturali hanno acquisito un prestigio da parte degli hipster, con enoteche naturali che spuntano in ogni città da Seattle a Kansas City o Helena addirittura, nel Montana. Kasimir Bujak, un acquirente di Wine Source, un negozio a Baltimora, mi ha detto: “È un effetto a cascata da Brooklyn, e questo significa che le persone a Columbus lo berranno a scoppio ritardato”.
Sempre Rozman: “Dieci anni fa, i ventenni non frequentavano tanto le enoteche. Ora è pieno di wine bars”. Nel boom anni Novanta dei vini della Napa, i consumatori apprezzavano quei vinoni opulenti e impeccabili. Adesso si cercano vini più “espressivi” invece dei vini “corretti”; vini terrosi, con sedimento visibile; vini dal sapore vivo.
Rozman ha fatto un apprendistato da uno dei primi produttori di vino naturale negli Stati Uniti, Gideon Beinstock, un vignaiolo franco-israeliano di sessantaquattro anni dal fisico asciutto e la mente propensa al pensiero astratto. Beinstock e sua moglie, Saron Rice, coltivano circa quattro ettari d’uva ai piedi occidentali della Sierra Nevada, in California. Clos Saron, la loro impresa a quattro mani, è riuscita a dimostrare che i vini naturali possono soddisfare anche i palati più elitari; a un certo punto, a detta di Beinstock, le loro bottiglie erano nelle liste dei vini di almeno un quarto dei primi cento ristoranti recensiti dal San Francisco Chronicle.
Beinstock, temperamento irrequieto, affamato di spiritualità e disciplina, aveva studiato per diventare pittore, ma quando, poco più che ventenne, i suoi dipinti iniziarono a vendere, disprezzava il modo in cui anche quel piccolo successo fomentava il suo ego. Come molti dilettanti della New Age negli anni Settanta fu attratto dalla Quarta Via, il misticismo fondato da George Gurdjieff all’inizio del XX secolo. La Quarta Via attingeva, tra le altre cose, dal Buddismo Zen, dall’Islam Sufi e dall’occulto. I seguaci della Quarta Via sono in lotta per l’incessante consapevolezza e padronanza di sé. Nel 1978, Beinstock si imbatté in un segnalibro che pubblicizzava un gruppo di studio della Quarta Via chiamato Fellowship of Friends (Compagnia degli Amici), fondato nella Bay Area alcuni anni prima. (La Fellowship era reclutata di proposito per posizionare strategicamente nelle librerie quei segnalibri nei testi New Age.) Beinstock dopo aver partecipato a una riunione si è unito al gruppo in quello stesso anno. “La Fellowship pullulava di poeti, scrittori, artisti, musicisti, attori. Vibrava di un’energia incredibile”. Il fondatore del gruppo, Robert Earl Burton, affermò di essere in comunicazione con quarantaquattro esseri angelici, tra cui Platone, Shakespeare e Abraham Lincoln. La Compagnia credeva che gli esseri umani trascorressero le loro vite come ipnotizzati, in trance, cullati da abitudini mentali, costretti in gabbie fisiche ed emotive; al contrario, i membri della Compagnia cercavano in ogni momento di risvegliarsi da questo sonno della coscienza.Beinstock iniziò a trascorrere del tempo presso la sede del gruppo, conosciuta come Apollo, in una comunità contadina ai piedi della Sierra chiamata Oregon House. Si trovava in una delle contee più povere della California, ma la Fellowship ha lavorato per creare un’atmosfera rurale, piantando roseti ed erigendo un edificio centrale nello stile di un castello francese. Il gruppo, che contava quasi tremila membri in tutto il mondo, aveva una propria orchestra e una compagnia d’opera, che si esibiva in un anfiteatro classico chiamato Theatron. La Fellowship ha accumulato negli anni una collezione di mobili della dinastia Ming, che è stata successivamente venduta da Christie’s per oltre undici milioni di dollari.
Il vino si adattava bene all’impegno del gruppo per il lavoro spirituale e l’alta cultura. Beinstock e altri membri della Fellowship piantarono filari e filari di Cabernet Sauvignon, Riesling, Sauvignon Blanc e altre varietà del Vecchio Mondo, le cosiddette uve nobili. Il lavoro era arduo – rimuovere massi di granito, piantare viti a mano – ma la Fellowship apprezzava la chiarezza mentale e il cameratismo che scaturivano dal lavoro fisico collettivo. Alla fine, i membri piantarono centocinquanta ettari di vigna. Ricorda Beinstock: “Poi il leader spirituale disse: ‘Questo è un bel traguardo. Possiamo fermarci qua’”. La Renaissance Winerydella Fellowship ha cominciato presto a produrre trentacinquemila casse di vino l’anno. “Se c’è un vigneto più notevole di questo in California, non l’ho ancora visto”, così ha scritto James Halliday, nel suo ”Wine Atlas of California”, aggiungendo: “Renaissance Winery è aperta alle visite solo su appuntamento. Posso solo suggerirti di spostare cielo e terra per fissare un appuntamento, perché tanto li vedrai entrambi quando arriverai là.” Beinstock poi si è trasferito in Inghilterra, dove ha studiato per la prestigiosa qualifica di Master of Wine. Nel 1991 è tornato in California e in seguito è diventato l’enologo della Fellowship.
A quel tempo, ha detto Beinstock, la Fellowship produceva vino “con molto uso di tecnologia avanzata e un’attenzione scientifica ai dettagli fin troppo maniacale”. Dopo la seconda guerra mondiale, il mondo del vino era stato trasformato dalle stesse forze dell’industrializzazione che stavano cambiando qualsiasi tipo di approccio agricolo. Ora c’erano soluzioni tecniche per ogni problema enologico. Alla Renaissance, il terreno veniva irrorato con erbicidi; dopo la vendemmia, l’uva pigiata era centrifugata, fino al raggiungimento di una precisa percentuale di sostanza solida. Il liquido veniva fatto fermentare in serbatoi a temperatura controllata, il contenuto zuccherino veniva misurato e riportato sui grafici due volte al giorno, durante l’imbottigliamento il vino veniva sottoposto a filtrazione sterile. “Era l’età della scienza nella produzione del vino”, ha detto Beinstock. “Dava alla gente l’illusione di essere al posto di guida, di poter controllare tutto e produrre vini perfetti”.
Al tempo gli ”espertoni del vino” – soprattutto uomini – discutevano sul vini in termini di composti chimici e metriche quantificabili: pH, acidità totale, mesi di invecchiamento in botte. Celebravano la modernizzazione del processo di vinificazione notoriamente minuzioso; gli sviluppi tecnologici hanno consentito una maggiore coerenza e precisione. Un anno di condizioni meteorologiche difficili non doveva più tradursi automaticamente in brutta annata. I vini spediti attraverso l’oceano avrebbero avuto una durata di conservazione più lunga e un gusto più prevedibile. Il consolidamento dell’industria del vino ha accelerato questa tendenza, proprio perché un vino prodotto in serie non poteva più permettersi un’annata sbagliata.
Beinstock credeva che questi metodi soffocassero il terroir, l’espressione naturale delle uve e della terra, e disapprovava l’arroganza di coloro che si ritenevano vignaioli. Lui si considerava come un’ostetrica, che incoraggia la nascita di qualcosa di bello stando il più lontano possibile. Una volta subentrato alla Renaissance, smise con le filtrazioni e smantellò le centrifughe; voleva che la vinificazione fosse meno intensiva o allarmistica.
Un critico del Times ha definito “eccellente” lo Chardonnay di Renaissance del 1995 e il suo Sauvignon Blanc “ancora migliore”. Esther Mobley, il critico di vini del San Francisco Chronicle, ha dichiarato gli anni tra il 1995 e il 2001 “l’età d’oro” dell’azienda vinicola, quando Beinstock ha fatto “alcuni dei più grandi vini mai prodotti in California”.
Beinstock amava fare il vino, ma era sempre più disilluso dalla Fellowship. Burton, il leader della Compagnia, aveva iniziato a fare previsioni sul giorno del giudizio. Nel 1998, Burton affermò che un terremoto avrebbe distrutto la maggior parte della costa occidentale ma avrebbe risparmiato Apollo. Un gruppo di membri della Fellowship è stato incaricato di prepararsi per affrontare le scosse. “Come enologo, non potevo sopportarlo”, ha detto Beinstock. “Allora mi sono fatto molti nemici, perché li stavo cacciando fuori dalla cantina, e loro tornavano e legavano le botti agli scaffali”. Quando l’apocalisse non arrivò, molti membri lasciarono il gruppo. Burton è stato anche perseguitato da azioni legali di affiliati che affermavano di essere stati sfruttati sessualmente. (Il presidente della Fellowship ha dichiarato che nessuna causa per reati sessuali è stata giudicata in tribunale.)A metà degli anni Novanta, Beinstock e Rice, sua moglie, iniziarono a coltivare quattrocento viti in un boschetto lungo la strada di Apollo, con l’obiettivo di produrre vino al di fuori del loro lavoro alla Renaissance. Clos Saron non utilizza pesticidi o erbicidi e ancor meno interventi in cantina. Costruirono una casetta, un recinto per le loro pecore e una cantina interrata, per mantenere stabile la temperatura. Beinstock ha messo all’asta la sua collezione di Grand cru di Borgogna e altri vini costosi per aiutare a finanziare la costruzione della cantina. Nel 2010, hanno tagliato i legami con la Fellowship.
Non pubblicizzavano Clos Saron come vino naturale, perché questa definizione al tempo non era ampiamente compresa negli Stati Uniti. Invece, Beinstock ha descritto i suoi vini come artigianali, espressione del terroir, minimalisti o a basso intervento. “Non è che pensassi di essere un ecologista di tendenza e politicamente corretto. Per me c’era una cosa sola: come si esprime il suolo nella misura più ampia possibile? E poi, dieci anni dopo, è arrivato il fenomeno del vino naturale, e siamo stati scoperti”.
Nel 2000 la scrittrice e giornalista Alice Feiring, è stata assunta per creare una guida dei vini per Food & Wine, mi ha raccontato: “Ho dovuto fare così tante degustazioni per compilare quel libro, lì ho capito che il mondo del vino era nella merda”. Feiring ha attribuito la colpa di questo in gran parte a un uomo solo: Robert Parker, il critico dietro l’influente newsletter The Wine Advocate. Quando Parker lanciò la sua pubblicazione, nel 1982, si considerava un outsider nel mondo snob dei vini pregiati. La sua innovazione più notevole è stata la classificazione dei vini su una scala di cento punti. “Vedere un vino schiaffeggiato con un numero era nuovo e sorprendente”, ha scritto Elin McCoy, in “The Emperor of Wine: The Rise of Robert M. Parker, Jr. and the Reign of American Taste“, del 2005. Questo metodo di valutazione a punteggi è stato anche enormemente efficace. I consumatori intimiditi dal linguaggio mistificante delle etichette dei vini avevano ora un modo molto più semplice per decidere cosa acquistare.
Le bottiglie con punteggi alti spesso esauriscono immediatamente dagli scaffali. Le annate che ricevevano un punteggio alto potevano quadruplicare i loro prezzi, il che significava che c’era un forte incentivo finanziario per produrre il tipo di vini ad alto contenuto alcolico, vini marmellatoni e legnosi che piacevano al palato di Parker. Le aziende vinicole di tutto il mondo hanno adattato di conseguenza i loro processi produttivi. Fu proprio questo effetto omogeneizzante a sconvolgere Alice Feiring. I vini consacrati da Parker, scrisse lei in seguito “non avevano nessun senso del luogo”. (Alice ha anche descritto i vini che non le piacevano come “stupidi”, “evirati”, “qualche intruglio da Body Shop”, “l’equivalente vinoso del bello ma non balla da bottiglia”, vini “disegnati con l’aerografo”, “vini morti”.)
Come Parker due decenni prima, anche Feiring si considerava un’estranea, rivelando gli sporchi segreti del mondo del vino in diversi libri e articoli. Ha scritto sui lieviti prodotti in laboratorio che consentono ai coltivatori di modificare i sapori naturali delle loro uve; sugli enzimi che modellano l’aroma e la consistenza; sui tannini in polvere che migliorano il ventaglio delle sensazioni in bocca; sui coloranti che intensificano le tonalità; sui processi di filtrazione e chiarifica che rimuovono le particelle in sospensione; sui solfiti che aiutano il processo di conservazione; sui macchinari di micro-ossigenazione che levigano i tannini – o, secondo il lessico della Feiring, “trasformano il vino in pappette omogeneizzate” – quei macchinari a osmosi inversa che lei definisce “camere di tortura” per il vino. (In verità anche Parker è stato un detrattore della filtrazione ed è stato uno dei primi sostenitori di diverse figure chiave nel mondo del vino a basso intervento, tra cui l’importatore Kermit Lynch e l’enologo di Sonoma Tony Coturri.)
Una tendenza contraria si era affermata nel Beaujolais negli anni ottanta, dove i viticoltori Jules Chauvet e Marcel Lapierre si rifiutavano di utilizzare lieviti commerciali e aggiungevano poco o zero solfiti durante la vinificazione. Altrove sempre in Francia, c’era un crescente interesse per la biodinamica, una versione mistica dell’agricoltura biologica, basata sulle teorie agricole del filosofo del diciannovesimo secolo Rudolf Steiner, che utilizza un calendario di semina che si allinea ai cicli del cosmo. Ma i consumatori a volte presumevano che questi vini fossero di qualità inferiore. Uno studio ha rilevato che i vini con certificazioni ecologiche hanno ottenuto punteggi leggermente più alti dalla critica, ma che elencare tali certificazioni sull’etichetta di un vino ha portato, in media, a una riduzione del prezzo del venti per cento almeno. Coturri, che iniziò a produrre vini naturali negli anni Sessanta, ha affermato sul sito web Sprudge che i suoi metodi sono stati a lungo considerati un ostacolo, non un punto di forza. “Ho imparato rapidamente che non si poteva entrare a gamba tesa e iniziare a ragionare di lievito naturale, di sostanze organiche e di non aggiungere solfiti. Quando ho fatto l’errore di parlare di come venivano prodotti i vini, di come veniva coltivata l’uva, alcune enoteche in città si sono spaventante”.
Verso la metà del duemila, però, i gusti dei consumatori sono cambiati. Le persone che facevano acquisti nei mercati degli agricoltori, che bevevano birra artigianale e mangiavano antiche varietà di pomodori nei ristoranti a chilometro zero erano allarmate dagli enormi conglomerati aziendali, dalle notizie sui lieviti prodotti in laboratorio, dall’uva cosparsa di glifosato.
Le qualità che un tempo facevano sembrare i vini naturali semplici o sospetti –i vitigni oscuri, i produttori rustici, il gusto occasionalmente eccentrico – iniziarono a sembrare genuini. Il vino naturale si adattava molto bene alla curiosità urbana per i movimenti che evocavano un passato più lento a misura d’uomo e più legato alla terra. (Steiner era anche il padre delle scuole Waldorf, che adottano all’educazione lo stesso approccio olistico ed esperienziale che la biodinamica applica all’agricoltura.) Le viti erano spesso lavorate a secco, cioè coltivate senza irrigazione e in aridocoltura, rendendole così resistenti alla siccità, più adatte ad un clima in pieno cambiamento climatico.
I buongustai pellegrini che si sono recati a Copenaghen per mangiare al Noma hanno trovato una carta dei vini senza Bordeaux e molti vini abbastanza “selvaggi” da abbinare al cibo. “In questi ultimi anni, sembra tutto fuori controllo”, ha detto Feiring. “Non c’era neppure un posto dove bere vino artigianale a Boston, poi, l’anno scorso, ha aperto Rebel Rebel. Sempre l’anno scorso, a Houston, ha aperto Light Years. Ad Austin c’era un solo posto dove bere bene. Ora ce ne sono diversi”.
Per etichettare un vino “biologico” o “biodinamico” è necessario seguire un lungo elenco di regole e pagare per la certificazione; chiamarlo “naturale” è una indimostrabile rivendicazione di virtù ideali. “Stasi, purezza, essenza immutabile: questi attributi definiscono il cuore del mito naturale. Naturale significa la versione originale e, come per i libri sacri, originale significa il migliore”, come scrive lo studioso di religioni Alan Levinovitz, nel suo libro di prossima pubblicazione intitolato: “Naturale: come la fede nella bontà della natura porta a mode nocive, a leggi ingiuste e a una scienza imperfetta.” Ma trasformare il succo d’uva in vino significa intervenire nel corso della natura. Quel che le persone intendono quando dichiarano un vino naturale, quindi, dipende da una costellazione di fattori: il suolo, l’uva, l’irrigazione o la sua assenza, i metodi di raccolta, la quantità di solforosa, quali macchinari sono coinvolti, persino, forse, la personalità e la visione politica dell’enologo, e dove o come vengono vendute le bottiglie. Ci sono molti modi per essere virtuosi o per fallire.Questa vaghezza fa parte di ciò che ha permesso al vino naturale di diventare un fenomeno culturale in un modo che ai vini biologici o biodinamici non è mai riuscito di fare. I vini possono essere color crema, vini greci, o leggermente effervescenti, o tutte queste cose in una volta. Possono avere un sapore argilloso o acido da far venire l’acquolina in bocca. Possono essere prodotti da una venticinquenne che coltiva da sola meno di un ettaro. Possono essere vini al gusto di sidro!
Ad agosto, ho guidato da Sacramento a Gadsden flags fino alla riserva delle capre nella contea di Yuba, a un’ora di distanza. Era l’inizio della stagione della raccolta e Dani Rozman a Oregon House si preparava per la sua settima vendemmia in California.
Durante l’apprendistato con Beinstock, nel 2013, aveva dovuto produrre due barriques per imparare a fare il vino da solo. Rozman ha seguito le pratiche di Beinstock: grande attenzione in vigna e un approccio piuttosto concreto in cantina. Anche lui sperava di produrre vini pregiati con una struttura sufficiente, un equilibrio di tannini e acidità, così da poterli far invecchiare per molti anni. Rozman all’epoca conduceva una vita abbastanza itinerante e il vino che ne veniva fuori sembrava essere più un peso che altro. Lo lasciò invecchiare in barrique mentre tornava in Sud America per vendemmiare, immaginando che alla fine l’avrebbe regalato ad amici e familiari. Quando tornò in California diversi mesi dopo, il vino si era trasformato da ciò che Beinstock definiva “carino” in qualcosa di molto più interessante. Beinstock lo ha subito esortato a imbottigliarlo e a venderlo. Rozman ha deciso di chiamare la sua nascente azienda vinicola La Onda, che in spagnolo come in italiano significa “onda” ma anche “vibrazione”. Ha etichettato a mano e numerato seicentoquarantasette bottiglie, poi ha portato i campioni nei negozi di vini naturali più famosi della Bay Area: Ordinaire, Terroir, Ruby. Mentre gli acquirenti annusavano e sorseggiavano, Rozman osservava attentamente i loro volti per carpirne le reazioni. In un pomeriggio ha venduto decine di casse. Da allora, i vini La Onda sono apparsi nelle carte dei vini di numerosi ristoranti molto apprezzati: Ruffian a Manhattan; Roberta’s a Brooklyn; Quince a San Francisco; Bavel a Los Angeles.
Per la maggior parte dell’anno, La Onda, le cui vigne sono coltivate sulla terra di Apollo, è un’operazione prettamente individuale, ma il periodo della vendemmia richiede aiuto da parte di altre persone. Durante la mia visita, Rozman era aiutato da due stagiste simpatiche e scherzose, Francesca DeLuca e Carly Cody. La compagna di Rozman, Manuela Delnevo, era arrivata da Berkeley per il fine settimana. All’alba, ci siamo ammucchiati tutti su un furgone Ford bianco e siamo andati ad Apollo.
La Compagnia degli Amici si è molto ridimensionata nel tempo. La maggior parte delle viti piantate da Beinstock e altri negli anni Settanta sono state estirpate o abbandonate; rimangono solo una ventina di ettari. Nel 2015 Renaissance ha definitivamente cessato la produzione. Nello stesso anno, due degli altri protetti di Beinstock, Aaron e Cara Mockrish, i proprietari di Frenchtown Farms, firmarono un accordo con Renaissance che consentiva loro di prendersi cura di gran parte del vigneto rimanente. Rozman, che cerca di evitare di avere a che fare direttamente con la Fellowship, ha un accordo con Frenchtown che gli concede quasi 3 ettari. “È davvero difficile trovare terreni da coltivare in California”, mi ha detto. “Il fatto che io sia disposto a passare il mio tempo a coltivare la terra qui è perché tutto il resto o non è interessante o è bombardato da sostanze chimiche o è di proprietà di persone troppo ricche”.
Passiamo attraverso un cancello di sicurezza, lungo una strada tortuosa fiancheggiata da tozze palme – i resti di un vecchio esperimento della Fellowship – poi oltre un campo di cammelli pigri dagli occhi a prugna. C’erano sparse statue in bronzo di divinità greche tra erbacce alte punteggiate di fiori gialli. Burton aveva predicato che, dopo l’apocalisse, Apollo sarebbe stata la culla di una nuova civiltà, ma ora il suo splendore era piuttosto misero e decadente.
Il terreno era erboso e selvaggio, le uve Sémillon che avremmo raccolto quel giorno convivevano assieme a cespugli di more spinose e girasoli selvatici. Lo stile di agricoltura di Rozman è non-interventista rispetto anche a quello di molti suoi coetanei. Quest’anno ha evitato non solo prodotti chimici e pesticidi, ma anche il dissodamento e il diserbo. Ha usato solo dei falcetti per diradare le erbacce quel tanto che bastava per accedere ai grappoli d’uva. Ciò ha portato a una vendemmia più lenta e meticolosa, ma Rozman crede che un ecosistema fiorente si traduca in vini migliori e più complessi; gli è stato detto che il suo Syrah esprime una sottile nota citrica, forse dovuta proprio ai girasoli selvatici sul campo. .
Rozman ha dato a ciascuno di noi un paio di forbici, incaricandoci di assaggiare i grappoli d’uva e raccogliere solo quelli che sapevano “di calore solare con acidità alle spalle” e lasciare il resto a maturare ulteriormente. Ho strappato un acino dalla vite portandolo alla bocca: sapeva d’uva. Ho cominciato a muovermi lungo i filari, raccogliendo solo i grappoli che mi sembrava giusto raccogliere.
L’erbaccia si aggrappava ai calzini e una piccola ape librava felicemente su mio gomito. A metà di una filare, un nido d’uccelli era nascosto nell’incavo di una vite e, poco più in là, c’era un ragno grande quanto il mio palmo, chiazzato di giallo e immobile sulla sua tela. Dopo un paio d’ore di raccolta a furia di sputare semi nei cespugli, ho sentito qualcosa che cominciava a succedermi sulla lingua. Forse il sole mi stava dando alla testa, ma sembrava che alcuni acini avessero un sapore piatto o tagliente, mentre altri erano più rotondi, più espressivi direi.
Per un po’ mi sono avvicinata alla DeLuca, che mi ha raccontato delle vendemmie a cui a partecipato nelle cantine convenzionali. In un’azienda vinicola nella regione dei Finger Lakes di New York, le viti sono state irrorate con sostanze chimiche che debellano le muffe. In Oregon, fermata per ore a un nastro trasportatore, doveva cercare di setacciare l’uva cattiva mentre le passava sfrecciando sotto gli occhi a velocità impossibile. Un lavoro alienante da sentirsi male. Ha poi aggiunto: “La gente dice che non è possibile farlo in questo modo come facciamo qua“ – indicando il pendio della collina – “e ricavarne un qualche genere di profitto”.
I metodi di Rozman erano allettanti, ma la vendemmia aveva un aspetto disperato. La stagione di crescita era stata pericolosamente umida e decine di viti erano andate perse. Alcune parti di recinzione avevano dei buchi e i cervi si erano tranquillamente mangiati l’uva dalle piante, danneggiando ulteriormente il raccolto. (In precedenza, una recinzione elettrica si era guastata e il piccolo branco di bufali indiani della Compagnia si era scatenato, calpestando un’ottantina di viti.) Ora era nostro compito salvare i singoli chicchi d’uva dai grappoli danneggiati. Un mezzo ettaro di Cabernet coltivato in modo convenzionale a Napa in media produce da quattro a sei quintali di uva. Rozman invece ricava da uno a due quintali, e questo prima di tenere conto dei danni provocati dagli animali. L’approccio laborioso di Rozman alla viticoltura sembra sostenibile per quanto riguarda il raccolto ma molto meno per il vignaiolo.
Più tardi, Rozman da un altro appezzamento chiese alle ragazze di attraversare i filari e valutare il Cabernet. “Cosa avete visto?” chiese quando tornarono.
“Un disastro”, dissero loro all’unisono. “Ma il frutto che c’è è maturo”, ha aggiunto Cody.
“Se non otteniamo abbastanza uva per la pigiatrice, cosa facciamo?” chiese De Luca.
“Ci mettiamo a piangere?” rispose Rozman con un’altra domanda.
Nel 2011, Marissa Ross stava lavorando come assistente personale di Mindy Kaling, a Los Angeles, quando ha iniziato a realizzare video sul vino per il sito web HelloGiggles. I video erano più comici che incentrati sulle bevande; Ross ha bevuto e discusso di robe a buon mercato da drogheria. Birra e whisky erano le bevande preferite dai giovani; il vino era più per i papà avvocati che si vantavano dei loro Cabernet californiani vellutati, o per le mamme mezze brille con gli enormi bicchieri pomeridiani di Chardonnay. Ma Ross ha scoperto che quando beveva vini migliori, in particolare quelli a basso intervento e senza additivi, si sentiva meglio. Ha aperto il suo blog, che era più informativo, anche se spesso si scolava il vino direttamente dalla bottiglia.
C’era un entusiasmo e una confidenza giovanile tra i sommelier e bartender di Los Angeles che a Ross ricordava i suoi anni nella scena indie-rock. La gente produce fanzine sul vino naturale, organizza festival e fiere, vende magliette con le scritte spiritose e tagga i propri post su Instagram con l’hashtag #nattywine. Il vino naturale si addiceva all’ansiosa e cospicua consumazione dei nostri tempi; era sia virtuoso che indulgente. Un settimanale alternativo nella Carolina del Nord consigliava di trangugiarne un bicchiere come maniera rivoluzionaria per combattere “il complesso industriale del vino”. “Il vino naturale è la mia cura personale”, recitava un titolo sul Times.
Nel 2015, Ross è stata assunta come editorialista del vino di Bon Appétit dichiarando che avrebbe recensito solo vini naturali. Lo ha fatto in un modo gergale e profano che l’ha resa cara ai suoi coetanei, anche se non sempre ai lettori più anziani. Nel suo podcast, “Natural Disasters” Ross e il suo co-conduttore hanno descritto i vini da “scorretti in senso varietale“ a “molto acidi al palato”, ma hanno anche fatto battute sulla cocaina, hanno discusso di abbinare le bottiglie alle patatine barbecue di Lay’s. Quando Ross pubblica su Instagram una particolare annata, quella va rapidamente esaurita.Al posto dei muscolosi Bordeaux di Parker, i vini del momento venivano spesso descritti come glou glou, l’espressione francese per “vini da tracannare”: rossi chiari spesso ottenuti tramite macerazione carbonica, una tecnica di fermentazione che si traduce in vini freschi e fruttati. (È anche più veloce; i vini sono spesso pronti per la vendita pochi mesi dopo la vendemmia.) A volte questi vini hanno un sapore consapevolmente non convenzionale. I millennial con velleità per le bevande difficili – birre acide, liquori amari, kombucha, aceto di mele – apprezzano i vini torbidi ed effervescenti, notevolmente fermentati, ridotti e con qualche puzzetta. Le enoteche cominciano così a celebrare stili e regioni prima oscuri: pét-nat, macerazioni sulle bucce, vini georgiani e sloveni.
Quando il vino naturale ha cominciato ad essere confuso con una bevanda dal profilo rustico al gusto di lievito, ha dovuto affrontare molte obiezioni. Un importatore di vino si è presentato a un evento del settore indossando una maglietta con la scritta “Amo i Solfiti”. Robert Parker ha definito la tendenza del vino naturale una “truffa indefinita” descrivendo i suoi sostenitori quali “jihadisti del terroir“.
“È diventato uno stile da cui prendo tranquillamente le distanze”, dice Alice Feiring. “Non devi per forza fare macerazione carbonica per essere naturale. Un vino naturale non deve necessariamente apparire torbido. Non si tratta solo di fare i vini glou glou.”La crescente popolarità del vino naturale è stata guidata anche da persone convinte che sia un modo più sano di bere. Dry Farm Wines, il più grande distributore di vino naturale negli Stati Uniti, commercializza le bottiglie che vende tramite abbonamenti per corrispondenza etichettate quali senza zucchero, senza micotossine, testate in laboratorio, compatibili per le diete paleo/cheto e a basso contenuto di carboidrati. Da quando l’azienda è stata fondata, nel 2015, ha accumulato più di centomila clienti attraverso apparizioni a fiere della salute e collaborazioni con esponenti nel settore benessere come la blogger Wellness Mama e il famoso fitness trainer J. J. Virgin. “Ho bevuto cinque bicchieri la scorsa notte e mi sono svegliato stamattina, sono andato in palestra alle 5 del mattino e mi sono sentito benissimo”. Ben Greenfield, un atleta di triathlon, un entusiasta influencer del fitness, sul suo podcast: “Proprio come non posso entrare in una Steak House e ordinare un filet mignon a meno che non sappia che è nutrito Grass-fed, non posso neppure ordinare un Cabernet senza pensare a settantadue diverse tossine.”
Dry Farm Wines, che ha sede nella Napa Valley, ha ora trentacinque dipendenti. Iniziano ogni giornata lavorativa con una meditazione di gruppo in una stanza che ha moquette ruvida, cuscini sul pavimento e un paio di lampade di sale. Quindici minuti di seduta tranquilla sono seguiti da una visualizzazione di gruppo e da una pratica collettiva di gratitudine. Quando sono stata a visitarli, i dipendenti erano contenti per avere a disposizione YouTube e Netflix, per un nuovo gattino, per aver fatto un ottimo allenamento e per la pratica della gratitudine quotidiana. Poi tutti si sono alzati e hanno cominciato ad abbracciarsi.
Todd White, il fondatore dell’azienda, si è scusato per la voce gracchiante; stava risolvendo un caso di bronchite. “Di solito sono come un cavallo scatenato che scoppia di salute”, ci ha tenuto a dirmi. White segue una dieta chetogenica (molti grassi, carboidrati drasticamente ridotti, digiuno regolare) e si descrive come un bio-hacker. Mi ha detto che il successo di Dry Farm Wines è stato in gran parte guidato dalla meditazione e dal movimento cheto, e poi si è corretto: “la rivoluzione cheto”. I clienti dell’azienda sono persone attente alla salute che “tentano di ottimizzare la loro vita e la salute, cercando così di ottimizzare anche la propria esperienza di invecchiamento”. Dry Farm pubblicizza i suoi prodotti come “vini senza sbornie”.
White ammette che l’alcol è “una neurotossina pericolosa”, ma ha affermato che il “micro-dosaggio” del vino apporta alcuni benefici: “Quando la dose rimane sufficientemente bassa, hai un aumento dell’espressione creativa, un’apertura di quella finestra di vulnerabilità – dove tutti noi semplicemente vogliamo amare, e amare di più. Il vino aiuta in questa apertura”.Anche il cambiamento del vino da naturale a mainstream ha posto vari problemi. Come mi ha detto Marissa Ross: “I riflettori sono meravigliosi ma possono anche risultare dannosi”. La comunità dei vini naturali si è posizionata contro il colosso del vino convenzionale; ora che sta accumulando più capitale, celebrità e attenzione, è sempre più incline a lunghe speculazioni su chi sia autentico e chi invece sta solo sfruttando una moda, su quali produttori affermano di essere più biologici di quanto non siano in realtà. Nuovi ragazzi continuano a comparire sulla scena, e molti di loro sono estremamente dogmatici riguardo la solforosa. Ross in parte non vede l’ora che queste orde affamate di ultime tendenze continuino ad andare avanti così. “Il sake sarà la novità del prossimo anno”, predice, con un tono di speranza nella voce.
Questa non era l’unica cosa che la preoccupasse. Nelle settimane successive la nostra conversazione, Ross ha iniziato a raccogliere storie di donne che affermavano di essere state aggredite o molestate sessualmente dal sommelier emergente Anthony Cailan e da altri del settore. Dopo che molti dei resoconti sono stati riportati dal Times, Cailan si è dimesso dal suo lavoro in un ristorante, anche se nega le accuse. “Il vino naturale è tutto incentrato sulla celebrazione del piacere, della libertà e della sperimentazione, il che è fantastico, fino a quando queste cose non vengono utilizzate per giustificare comportamenti scorretti“, a aggiunto Ross.
Interessi commerciali più grandi stanno cercando di conquistare questa fetta di mercato. Aldi, la catena tedesca di alimentari, ha commissionato alla Romania un vino arancione che viene venduto a meno di dieci dollari. “È così raffinato, visivamente, ma ha un sapore davvero mortale”, mi ha detto Feiring. “Non è disgustoso come il vino convenzionale, ma non va da nessuna parte”. (Il vino passa attraverso una centrifuga, e questo è un no secco secondo i principi della Feiring.) Un’azienda specializzata in bioscienze ora vende un lievito che promette di conferire ai prodotti fabbricati in modo convenzionale quei complessi sapori dei vini prodotti con lievito naturale. “Penso che l’aggettivo naturale sparirà dalla circolazione”, mi ha detto sempre Alice Feiring. “Quando la gente del mondo convenzionale inizia a commercializzare i propri vini come naturali, le persone che producono davvero vini naturali smetteranno di usare quella parola. Sarà semplicemente vino. Come tornare a prima degli anni Ottanta, quando ci si aspettava che ogni vino fosse naturalmente naturale”.Non me lo sarei aspettato ma mi sono sentita triste dopo aver lasciato Oregon House, perseguitata dal ricordo di quanto fossi stata felice durante quel periodo in vigna, svegliarsi all’alba, a stretto contatto con le forbicine che prolificano tra le viti. Sono andata in un wine bar naturale nel Lower East Side a Manhattan e mi sono seduta tra due coppie di quelle che sembravano al primo appuntamento andato a buon fine. Sapevo che l’agricoltura è un lavoro estenuante e che sarei stata una frana. Tuttavia, mi piaceva immaginare un tipo di vita diverso, più necessario, meno confinato all’interno dei vari schermi in cui ci intrappoliamo. Ho chiesto al cameriere i vino più vivo che avessero in lista. “All’inizio avrà un odore come di scoreggia, ma presto diventa un piacevole tintinnio al palato”, mi ha detto lui portandomi un bicchiere. Costava sedici dollari, aveva un sapore frizzante e sporco. Ad essere onesta con me stessa, non mi è piaciuto molto quel vino e questo mi ha fatto sentire come esclusa dal gruppo.
Ho pensato a una conversazione che avevo avuto con Beinstock. Eravamo seduti sotto una grande quercia in una radura vicino al primo appezzamento di vite di Clos Saron, e stava parlando di come il vino naturale fosse diventato una specie di culto religioso, ma lo era anche il calcio, così come la scienza. “La maggior parte delle persone sono in qualche modo membri di una setta”, ha detto. A metà frase, ha inclinato la testa e alzato lo sguardo. “Mi chiedo”, stava cominciando a dire quando mi accorsi di un ronzio attutito proveniente dall’albero. “Ci deve essere un alveare là dentro”, fece. “È sempre pieno di api.” Il sole stava tramontando e lui era via via più propenso a filosofeggiare. “Nella terminologia della Fellowship, puoi perdere la tua identità in qualsiasi cosa. Nello Zen si dice che l’ultimo e il più difficile passo è rinunciare alla lotta per risvegliarsi. Solo quando lo lasci andare puoi farcela, anche se non vuoi più. È un paradosso. Questo è il modo in cui mi sento oggi, che ormai il vino è parte profonda di me. E allo stesso tempo l’ho praticamente lasciato andare”.
Sì, il mondo del vino naturale può essere tanto assurdo quanto dogmatico. Eppure Beinstock crede ancora che stia accadendo qualcosa di speciale, qualcosa a cui valga la pena prestare attenzione. “È un bel fiore che si sta ancora aprendo”, ha aggiunto. “Diventerà un frutto? Rigermoglierà? Svanirà?”
[Pubblicato nell’edizione cartacea del 25 novembre 2019, con il titolo “Sul naso”.]
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Vivere la vita con coscienza è come guidare la macchina con i freni tirati.
Budd Schulberg, Perché corre Sammy?
Volti nella folla nell’inferno di internet
Non serve scomodare Freud per capire che il disagio della nostra civiltà è arrivato alle stelle, ehm alle stalle. Se i social sono in qualche modo lo specchio distorto ma verosimile di cosa siamo diventati e del mondo in cui viviamo, è piuttosto evidente che siamo agli sgoccioli, tanto del disagio che della civiltà.
Budd Schulberg mitico scrittore di New York, nel 1955 ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale con Fronte del Porto (On the Waterfront) di Elia Kazan. D’accordo, nonostante l’immensità di Brando, Fronte del Porto è un film retorico, un film a tesi con cui regista e sceneggiatore, Kazan e Schulberg, in piena bufera maccartista tentano di giustificare goffamente la loro testimonianza alla HUAC House Committee on Un-American Activities (Commissione per le attività anti-americane), dove denunciano colleghi e collaboratori che finiscono sulla lista nera di Hollywood, costringendoli ad espatriare o alla prigione poiché accusati di tradimento. Ma qui non m’interessa entrare nel merito del collaborazionismo di Schulberg e Kazan che nel 1957 faranno Un volto nella folla, di cui sempre Budd Schulberg è autore del racconto-soggetto e della vigorosa sceneggiatura. Scriverà anche Perché corre Sammy?, una satira corrosiva su Hollywood pubblicata da Sellerio.
Un volto nella folla non è semplicemente un durissimo atto d’accusa, un angosciato SOS in pellicola sulle possibilità di fabbricazione del consenso popolare acquisito dai media. L’onnipotenza dei media di trasformare un qualunque volto nella folla in un divo capace di stregare le masse e di manipolare l’opinione pubblica. Con questo film molto polemico per i tempi e ora attuale più che mai, splendidamente fotografato in bianco e nero da Harry Stradling e Gayne Rescher, i due grandi uomini di cinema desideravano illustrare il potere subdolo di radio/televisione, smascherando il falso mito populista della saggezza e bontà della gente comune. L’Academy Award dopo i troppi Oscar a On the Waterfront, ignorò del tutto A face in the crowd, troppo feroce e politicamente scorretto per vincere un Oscar, un film violento che distrugge e fa a pezzi “il sogno Americano” dal suo interno.
Oggi quel volto nella folla isolato per poco dal film di Kazan si è propagato online in maniera esponenziale per miliardi d’individui attraverso canali youtube, video tiktok, live streaming su facebook e instagram. È totalizzante. È deprimente la supremazia digitale di chiunque su ognuno. Il predominio del singolo anonimo su milioni e milioni di altri anonimi che sgomitano come subumani impazziti per sovrastarsi l’uno sull’altro. La diffusione costruita ad arte di false notizie spacciate per vere così da far abboccare quanti più dementi all’amo. L’opinionismo sguaiato di tutti su tutto. L’aprire bocca a prescindere soprattutto da parte di chi ha più difficoltà anche solo ad articolare monosillabi semmai sappia scrivere il proprio nome. Il “postare” comunque senza il minimo scrupolo di approfondire il tema di cui si sta farneticando anche da parte di gente all’apparenza acculturata. Il commentare sullo scibile, dalla musica dodecafonica alla guida degli incrociatori navali da parte di masse d’analfabeti funzionali che non sanno neppure allacciarsi le scarpe da soli. Io che scrivo queste lamentazioni qualunquistiche ecco, è la rappresentazione dell’inferno sulla terra. L’inferno sono gli altri assieme a me, ad integrazione contemporanea e direi definitiva di Sartre.
Insomma tutto questo e molto altro che taccio per imbarazzo – si mi imbarazzo per loro quindi per me stesso – è la fase finale immagino in questo scempio di civiltà disagiata verso cui appunto siamo prossimi alla fine, speriamo quanto prima.
I giorni scorsi ero passato a SoHo per vedere se il leggendario Buffa’s Deli tra Prince e Lafayette fosse sempre lì. Ahimè Buffa’s è stato chiuso anni fa. Ho chiesto a un cameriere giovane nel nuovo posto ma non ne sapeva nulla, ricordava prima ci fosse “a Delicatessen” mi ripete più volte, non ha saputo dirmi altro.
Rischio di suonare su tonalità troppo nostalgico lagnose, ma questa è una città che soprattutto nella ristorazione ha una fretta bulimica, si autofagocita per rinnovarsi con gli abbagli modaioli del nuovo, ovvero tanta fuffa posticcia odierna che in genere nasce già morta. Un’idea di moderno fasullo stylish e senza neppure un briciolo di sostanza originaria del locale che ha sostituito. Al posto del mitico Buffa’s c’è ora la Pecora Bianca che dell’autenticità italo-americana di Buffa’s mantiene solo l’inferriata sui vetri riverniciata a nuovo.
In taxi da SoHo verso il JFK airport.
Sempre a SoHo, ancora in Prince street, ma potrebbe tranquillamente essere via dei Condotti, Rue de la Paix, Oxford street, viaMonte Napoleone, Ginza, Causeway Bay e il risultato non cambia.
La gentrificazione urbana fa si che miseria ed eleganza del mondo appaiano scontate, ciclicamente naturali, siano cioè percepite ovunque allo stesso modo quali regolari, indifferenziate soprattutto agli occhi di chi guarda senza vedere, ovvero la gran parte della popolazione – ormai tramutata in masse di telespettatori o followers – che magari passa la vita in periferie disumane anche queste tutte ugualmente grigie e uniformi, brutte tutte alla stessa maniera in ogni città del pianeta.
La distanza sociale più sicura dagli altri a questo punto resta solo la scomparsa, la sparizione dagli altri. L’assenza come quella di Bartleby lo Scrivano.
The next day… Bartleby did nothing but stand at his window in his dead-wall revery.
Herman Melville, Bartleby, the Scrivener (1853/1856)
“Il giorno dopo… Bartleby non ha fatto altro che starsene alla finestra perso nelle sue fantasticherie da vicolo cieco.”
Flânerie newyorkesi.
Ogni volta che approdo a New York la cosa che amo più di tutte è camminare. Attraversare isolati su isolati da sud a nord, da est a ovest. È la città perfetta per smarrirsi nei propri vagheggiamenti da flâneur a passo svelto o a rilento come se si avesse a disposizione tutto il tempo dell’universo per attraversare l’isola in lungo e largo quasi fosse un’Amazzonia composta di cemento, suoni esotici, odori multiformi, tribù etniche metropolitane.
Alla vista di certe vetrate a specchio dei grattacieli sterminati che contengono il grigiore infinito degli impieghi, delle banche, delle agenzie o organizzazioni varie mi attanaglia un’angoscia cosmica; un groppo in gola soffocante al pensiero di tutti quei loculi illuminati come tanti obitori che ospitano per anni i silenzi, qualche gioia forse e i tormenti di milioni, milioni di Bartleby davanti ai vicoli ciechi delle loro regolari vite d’ufficio a stipendio.
A memoria perenne del Ground zero.
Premesso che bisogna sempre andare a fare le pulci a giornali e giornalisti per valutare la verosimiglianza di certe affermazioni, al tempo dell’attacco alle Torri Gemelle l’uscita di Karlheinz Stockhausen che paragonava gli attacchi terroristici alle Twin Towers a un’opera d’arte mi erano sembrati molto infelici nel senso che il musicista tedesco con quelle esternazioni ha cercato la provocazione sciacallesca su un fatto di cronaca epocale per mettersi in mostra e non perché ci fossero dietro chissà quali profonde valutazioni etiche ed estetiche. Ma questo forse è quello che è stato travisato da giornali e lettori come nel gioco del telefono senza fili dove la parola bisbigliata all’orecchio del primo vicino arriverà completamente distorta all’ultimo dei giocatori nella catena umana di frasi suggerite da una bocca nell’orecchio all’altra. Un meccanismo tossico questo del telefono senza fili che mi pare sempre più diffuso nel nostro mondo digitalizzato e che anzi fa la gioia dell’algoritmo dei social il quale tende a polarizzare tutto nella dialettica primitiva di nemico/amico, bianco/nero escludendo di proposito qualsiasi approfondimento alternativo che apra alla complessità, al dialogo, alla conoscenza.
«Volevo solo dire che Lucifero è tra noi, come provano i fatti dell’11 settembre, che non ho mai visto perché non ho la televisione, ma che considero un capolavoro luciferino nel senso di massima furia criminale e distruttiva». Così a qualche anno dai fatti ha tenuto a puntualizzare Stockhausen il suo pensiero, dopo che era stato rinnegato dalla comunità intellettuale che per alcuni anni ha cancellato i suoi concerti in Germania.
Il Memorial 9/11 resta una “esperienza architettonica” fondamentale a rappresentare la nostra tragica contemporaneità. La scenografia geometrica che inquadra alla perfezione il nostro fatale Tramonto dell’Occidente. Un monumento sublime in termini kantiani: suscita angoscia e fascinazione. Opera vertiginosa in bilico tra il panico esistenziale e la speranza di sopravvivere a qualcosa che è più grande e profondo di noi. Lo scroscio dell’acqua continua in quei pozzi neri della storia attuale, rimanda al boato ciclico dei grattacieli che crollano senza interruzione. Dalla cenere al vapore acqueo. Dalle torri di Babele ai granelli di roccia metamorfica di cui è sostanzialmente costituita Manhattan. Di una bellezza straziante. Anche qui, uno smisurato senso di vertigine spaziotemporale stritolato da vuoto, assenza, impotenza, sparizione, scomparsa, rabbia, gli stati d’animo predominanti dell’angoscia. Il sublime kantiano è questo appunto. Si ama il mare in tempesta anche perché fa paura, suscita un terrore incommensurabile davanti all’immane che ci sprofonda in sé come un pulviscolo di polvere epidermica risucchiato nel frenetico buco nero della natura.
Con gli occhi magnetizzati in alto al vertice piramidale della Freedom Tower che suscita l’illusione ottica di crollarti addosso, dopo un pò abbasso lo sguardo a terra sul marciapiede dove trovo la scritta CONGELA IL TUO SPERMA che mi riporta immediatamente alla fondazione della realtà effettiva di cui è amalgamata ogni città al mondo: sperma, sangue e cemento.
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Un memorabile 1965 Fattoria Selvapiana Chianti Rùfina
La mitizzazione delle vecchie annate è un topos piuttosto diffuso nell’immaginario tra il cafoncello e il raffinato di chi beve vino. Molto spesso le opinioni al riguardo zampillano più per sbruffoneria, superficialità di giudizio o presunzione. Il più delle volte ahimè un vino vecchio non è detto che sia come la gallina utile a farci un buon brodo.
Quando si stappano vini di trenta, quaranta, cinquant’anni in genere si tende a idealizzare ad ogni costo quella medesima bottiglia pure se il contenuto è ormai sprofondato inesorabilmente su plaghe monocordi di aromi terziari, fanghiglia di palude e ossidazione senza speranza. L’evoluzione di un vino può rispecchiare la complessità delle cose viventi che maturano per poi cedere il passo alla decadenza dunque alla decomposizione.
Tuttavia ho notato che di norma tanti giratori di bicchieri vanagloriosi o presuntuosi degustatori della domenica si ostinano a radiografare vini trapassati dalla maturità alla morte biologica elogiandone la stoffa con descrittori pirotecnici assai ridicoli infatti a me fanno l’effetto penoso di chi tenta la respirazione bocca bocca su un cadavere in avanzato stato di putrefazione.
Nel giro di un paio di giorni ho assaggiato questi due vini:
Château Cheval-Blanc 1967 Magnum di négoce:
<<Expédié en barriques par Horeau Beylot, négociant à Libourne [Carl Permins Vinhandel].>>
Alla cieca sembrava un uvaggio bordolese toscano primi anni 90, che poi, paradossalmente, è quello che tanti Supertuscan della minchia hanno cercato e cercano ancora adesso, del tutto invano, di scimmiottare.
1965 Fattoria Selvapiana Chianti Rùfina (Toscanello d’Oro ’70 primo premio)
Dopo che è stato cinquantasei anni rinchiuso in bottiglia, trovarsi un Sanguovese con un rubino ancora così cristallino e vivace è qualcosa che fa gridare al miracolo. Qualcosa cioè che mi fa ricredere su quello che ho appena affermato sull’invecchiamento dei vini e la loro esaltazione esagerata da conati di autocelebrazione e megalomania. Il tappo ancora incredibilmente solido ha preservato un vino chiantigiano prodigioso per brillantezza e integrità del frutto – anguria, melograno, arancia amara – svelando un tensione acida degna di nota assieme a una fibra vibrante del sorso che richiama la bevuta. Una bevuta allo stesso tempo sia profonda che leggera, intonata su timbri di freschezza e fluidità altro che decomposizione organica e paludose sabbie mobili fin troppo tipiche per tanti vini invecchiati male pure se tenuti in cantina con tutti i crismi!
Dal sito di Selvapiana leggo queste notazioni assai curiose del passaggio dalla mezzadria all’agricoltura moderna che fanno riflettere sulla viticoltura del passato rispetto a quella di oggi:
“Gli anni 50 e 60.
Erano ancora gli anni della mezzadria, le viti, alcune franche di piede, coltivate a filari con tutori vivi erano molto vecchie. La vendemmia iniziava sempre dopo il 10 ottobre; Le uve venivano vinificate in tini aperti di castagno e vasche di cemento. I vini erano invecchiati per cinque-sei anni in botti vecchie di castagno.
Anni 70.
La fine della mezzadria impone drastici cambiamenti nella conduzione della campagna chiantigiana. Le prime vigne specializzate, la scoperta della chimica, sia per concimare che per difendere il raccolto e una profonda crisi della campagna coincidono anche con alcune vendemmie difficili.“
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Le mistificazioni del latte
In effetti di questi tempi dove la manipolazione delle nostre opinioni è totale – dalla fabbrica delle false notizie alla polarizzazione artefatta del giusto contro l’ingiusto -, il giudizio su eventi cose e persone diventa sempre più improbabile e resta solo un pregiudizio. Basta osservare a quale livello di caos mondiale siamo giunti sulle questioni relative al vaccino tra cospirazionisti No-vax che avranno forse pure le loro ragioni visto che dietro la creazione e la commercializzazione dei vaccini ci sono giri d’affari ultramiliardari di corporazioni private che hanno tutto l’interesse ad accumulare profitti sul virus più a lungo possibile, contro le ragioni dei vaccinisti e i Pro-vax con la loro fiducia ingenua in una scienza buona, benefattrice, e progressiva.
La funzione degli algoritmi dei social è essenzialmente quella di incattivire questo genere di polarizzazioni per azzerare qualsiasi possibilità di dialogo polifonico argomentato che tenga conto della complessità di certi temi comuni, che non possono certo essere brutalizzati in prese di posizione rigide e schieramenti militari fra trogloditi che se la urlano senza ragione a colpi di slogan da stadio.
Ora tutta questa premessa era solo per dire che al netto dei No-vax vs i Pro-vax, nel 2021 la maggioranza della popolazione è talmente analfabeta in termini di cultura alimentare che non riesce a distinguere se il sapore di un cibo o il gusto d’una bevanda di cui si nutre provenga da aromi di sintesi o sia stato ultra-lavorato nelle varie fasi del processo produttivo degli ingredienti. Cibi e bevande con un elevato indice glicemico, poverissimi in fibre, micronutrienti (vitamine) e fitocomposti (antiossidanti) ma gonfiati di grassi alimentari, zuccheri semplici, sale e insaporitori vari (glutammato etc.).
I giorni scorsi, con lo spirito del rompicoglioni agguerrito a cui non la si fa, ho acquistato al supermercato una confezione da mezzo litro di latte intero da “agricoltura biologica”. Latte fresco con una scadenza di oltre un mese, primo indizio inquietante.
Ma la gente che produce, impacchetta e commercializza questo spurgo bianchiccio al retrogusto alcalino di piombo e acido solforico contenuto nelle batterie dell’auto, l’avrà mai assaggiato un bicchiere di buon latte fresco? Davvero sconcertante poi tutto quello storytellingBiominchia sbandierato in etichetta evidenziato dalla coccinella sulla confezione quale simbolo di ecologia ed ecosostenibilità ovvero fumo negli occhi del consumatore sprovveduto. “Benessere animale… salvaguardia dell’ambiente… riduzione dell’anidride carbonica…” una retorica filistea di bassalega che possiamo dirlo? ha ampiamente fracassato i coglioni!
All’assaggio al palato in fase di strippaggio tipo olio extravergine d’oliva per permettere l’ossigenazione nel cavo orale ed evidenziare le eventuali componenti volatili e aromatiche, ho avuto la sensazione ributtante di degustare idrossido di sodio, il disgorgante mefitico per sturare cessi e lavandini otturati.Questo insomma è lo stato dell’arte dell’industria farmaceutico-alimentare oggi, i vaccini sono giusto un corollario risibile a un comparto che nel momento in cui ci nutre ci ammala perché in qualità di massa amorfa, non siamo altro che dei sorci da laboratorio, dei numeretti utili da sfruttare il più a lungo possibile, sia come comsumatori di cibo ferocemente manipolato che come ammalati da “curare” coi farmaci.
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Mezza Pagnotta Cucina Etnobotanica a Ruvo di Puglia
Cerco nuova luce nella confusione.
Neffa
È sempre una roulette russa, specialmente in Italia (isole comprese), quando ci si ostina a cercare ristoranti che propongano menu vegetariani a base di materie prime giuste trattate con la dovuta misura e cognizione di causa. La maggioranza delle volte si tratta di proposte gastronomiche velleitarie generate da mode passeggere o da forzature prive di una vera visione alimentare che sia piuttosto ispirata a profonda consapevolezza e a conoscenza dei prodotti della terra.
A Ruvo di Puglia c’è Mezza Pagnotta, un’osteria aliena che propone piatti folgoranti di “cucina etnobotanica” che ci si aspetterebbe di trovare a Manhattan o a Parigi e non nel cuore del Parco nazionale dell’Alta Murgia. I fratelli Vincenzo e Francesco Montaruli, il primo in cucina il secondo in sala, sono l’anima mundi di Mezza Pagnotta.
Francesco tra i tavoli trasmette la sua passione travolgente sventagliando un caleidoscopio di erbe sponanee, preparazioni e frutti che raccolgono nei campi delle Murge che poi trattano, trasformano, fermentano nella loro cucina laboratorio d’idee e di visioni gastronomiche. Attraverso il racconto dei piatti è evidente il legame viscerale con il substrato contadino a cui i due fratelli radicano il loro DNA territoriale ispirato a una densa continuità genetica con il patrimonio di conoscenze, saperi e opere dei loro nonni/genitori. Si tratta di un sostrato contadino verace che è presumibilmente impossibile ritrovare a New York, a Saint-Germain-des-Prés o a Testaccio, visto che tutto quello che arriva in città sotto forma di “ritorno alla terra… sostenibilità… biodiversità… naturale…” stona nella gran parte dei casi come una trombetta sfiatata che spiffereggia in malafede la solita solfa mocciosa fatta di cattiva coscienza, vegetarianismo modaiolo spiccio, improvvisazione scorreggiona e retorica neo-contadina da voltastomico.
Con Francesco, che ci tiene a specificare di non essere vegetariano, non ci siamo limitati a parlare di erbe spontanee, dei limoo amani (i limoni persiani neri essiccati), della tahina di Ispica ma abbiamo soprattutto assaggiato le loro fermentazioni a partire da melanzane o lampacioni, melasse di carrube, pecorini alchemici alle erbe di campo, senza quella bigotteria comune a certi vegetariani-talebani. È un oste magnetico Francesco, con lui si può liberamente conversare della tradizione mediterranea ancestrale di fare la cottura della pecora in anfore di terracotta come si usava per millenni (si usa ancora fare) nei paesini pastorali delle Murge.
Francesco lo sa perché gli ho fatto una testa così con la mia ossessione per la pecora bollita in Barbagia, lo scrivo anche qui di modo che valga quale promemoria (o minaccia eh eh eh), non mi darò pace finché non andremo ad assaggiare assieme la pecora cucinata nella terracotta: tu sai dove, come, quando!
– Pomodoro Regina ripieno con riso, salsa di asparagi fermentati e sale nero indiano.
– Polpetta di zucchina fritta con mostarda delicata di zucchine e capperi, portulaca e cucunci.
– Insalata di arance bionde, con ravanello bianco, uva agretta, lamelle di mandorle verdi fermentate e maionese di mandorle dolci e amare.
– Guazzetto vegetale di basilico con fiori e talli di zucchina in padella.
– Ceci verdi freschi in zuppa di cipolla bianca Margheritana con profumo di elicriso e meringa al lumi di persia.
– Fiorone rosso arrostito con rucola fritta, cenere di mandorle e salsa di arachidi.
– Pera Favarsa macerata con succo di albicocca e zafferano, su crema di mandorle.
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“Fare una buona foto è l’unica cosa che conta.”
Josef Koudelka
Radici e rovine mediterranee
Radici è una mostra straordinaria all’Ara Pacis, un’esplorazione fotografica di Josef Koudelka che per quasi 30 anni ha viaggiato in lungo e in largo attraverso i siti archeologici più struggenti della mediterraneità tra Siria, Grecia, Turchia, Libano, Cipro (Nord e Sud), Israele, Giordania, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Portogallo, Spagna, Francia, Albania, Croazia, Italia.
All’interno della mostra oltre a centinaia di fotografie in un bianco e nero contrastato dal portentoso taglio allungato, si può vedere un breve film diretto e prodotto da Coşkun Aşar intitolato Koudelka: obbedire al sole (Obey the sun), 2020. Qui osserviamo il leggendario fotografo moravo della Magnum alle prese corpo a corpo con il paesaggio, sospeso tra il proprio respiro e l’occhio assoluto. L’obiettivo della macchina fotografica diviene quindi una protesi meccanica intenta a scavare sulle rovine delle civiltà arcaiche per rivelarne l’essenza occultata dalla troppa luce o riaffiorata grazie all’impasto provvidenziale di luci/ombre generate dal sole. Un sole divinizzato da popolazioni mediterranee di pescatori contadini cacciatori guerrieri navigatori filosofi… tutti sterminati senza distinzione né pietà dall’ecatombe implacabile del tempo che trasforma in archeologia anche la fantascienza del futuro meno immaginabile. In queste centinaia di composizioni fotografiche la figura umana appare un paio di volte e in buona sostanza quale elemento accessorio o come ombra,
l’ombra dello stesso Koudelka ad esempio intento a scattare un dettaglio di cavea e proscenio in un teatro-stadio a Ezani in Turchia, edificato nei primi secoli dopo Cristo. Ruderi di colonne, mura di templi, tronconi di sculture, tracce d’anfiteatri, sopravvivono di gran lunga ai loro edificatori, questo è forse il segno più penetrante e straziante racchiuso nelle foto di Koudelka.
Radici non è solo una mostra, molto ben concepita e allestita, ma è una meditazione metafisica per immagini, una contemplazione religiosa in bianco e nero sul disfacimento dell’architettura, sulle macerie della storia, sulle rivelazioni o gli enigmi soprannaturali dello sguardo umano. Lo sguardo soprannaturale ma terreno di Josef Koudelka, favoloso ottantatreenne con gli occhi di un oracolo d’Apollo che incoraggiano al delfico: “Conosci te stesso” (ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ).
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Il Mondo Buono e la Cattiva pubblicità
Con l’angoscia nel cuore, proseguo alcuni ragionamenti sulla falsariga di una meditazione anacronistica da Persuasori occulti nella cupa era Cambridge Analytica, già intrapresa qualche settimana fa in merito alla pubblicità che parla al culo più che al cervello della gente.
Coltivazione sostenibile
comunità di Agricoltori
Biodiversità
insetti impollinatori
Presentate così in grassetto a rimarcarne la centralità, queste parole-chiave esprimono tutta una serie di immagini pseudo-etiche e pensieri benigni (benigni almeno sulla carta) che rimandano all’ambito altruistico dell’attenzione, della cura, dell’impegno, della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Se tentiamo di scrostare quel grassetto in PVC come fosse una finta ceralacca ci accorgiamo però subito di essere in presenza di una mistificazione bella e buona. Siamo cioè davanti alla tipica, maligna operazione di marketing che abusa a scopi di lucro dei magnifici ideali e dei concetti generosi oltre i quali, (cioè oltre il grassetto), restano solo parole smorte, gusci marci svuotati di sostanza a raccontare una merce alimentare seriale: farine biscotti succhi panini salumi vini formaggi. Una merce neutra altrimenti anonima senza la poesia suggestiva degli aggettivi, impoverita di sapore, sterile di proprietà nutritive, uniformata all’appiattimento, priva di gusto e consistenza che lascia in bocca nulla più che frustrazione, malcontento, amarezza.
Oltretutto questo genere di operazioni pubblicitarie stucchevoli da parte delle grandi industrie alimentari con tutta la retorica fasulla della Coltivazione sostenibilee dellaBiodiversità, depotenzia all’origine il messaggio finale di quelle poche produzioni artigianali invece che sono veramente costituite da una comunità di Agricoltori. Una comunità contadina dispersa e disperata che con enorme fatica lotta per la propria sussistenza nella guerra senza quartiere dei prezzi stracciati. Una guerra persa per le sparute comunità di contadini e agricoltori. Una guerra a senso unico sempre vinta dalle stesse industrie poiché la comunità degli agricoltori scrupolosi è a rischio d’estinzione se non è già estinta. È merce sempre più rara infatti quella dei contadini, dei vignaioli, degli allevatori che fanno quel che dicono e provano a dire quel che fanno se non altro esprimendolo attraverso la sostanziosità e la bontà dei loro prodotti al vertice di una catena alimentare quanto più naturale, autentica e trasparente.
Autentico, naturale, trasparente. Ecco altri aggettivi ambivalenti che riportati in grassetto dai soliti fenomeni da baraccone e cantastorie mal assortiti della comunicazione, sviliscono immediatamente la portata profonda del senso che contengono. Così pure come sostanzioso, buono, genuino. Siamo sempre lì (rimando qui), il problema non sono mai le parole in sé ma l’uso/abuso che se ne fa in chiave ideologica ovvero economica, sociale e politica. Le parole difatti, a seconda della visione generale di coloro che le usano/abusano, complici gli studi legali onnipotenti e i profitti elefantiaci, possono essere specchietti per le allodole utili ad accalappiare quanti più consumatori acefali, acquirenti superficiali, utenti inconsapevoli. Oppure le parole sono specchi di verità. Le verità specchiate di un prodotto buono, genuino e rispettoso in sé (aggettivi a rischio di essere in grassetto) che non rifletta necessariamente l’auto-gratificazione di chi lo fa o che rimandi soltanto alla visione narcisistica di quello che vogliamo vederci riflesso noi. Un prodotto buono e rispettoso sarà radicato alla propria sostanza originaria che quantomeno possa stimolare ad un consumo più critico accrescendo una conoscenza concreta, educando a un gusto personale meno condizionato dagli slogan falsificanti considerando che il gusto medio della gente è oggi quasi del tutto manipolato e in balia dell’ingegneria degli aromi.
È mai possibile quindi ragionare di verità in relazione alla produzione del cibo? Credo di si! È una verità insomma di natura tanto etica quanto estetica la quale sia nutrita da prodotti alimentari non di sintesi, originati da materie prime il meno processate possibile che sappiano innescare nelle persone in carne e ossa, individuo per individuo, una capacità di discernimento dei sensi quanto più solida, coltivata, approfondita e ragionata. Bontà, unicità e bellezza di un cibo o una bevanda non artefatti né banalizzati a catena di montaggio ma espressione di una cultura profonda dello scambio, rispettosa delle singole differenze sia da parte di chi produce e vende che da parte di chi compra e riceve, tutto qua!
In merito alle verità tascabili relative che ognuno di noi pretende di custodire nella propria saccoccia quali verità cosmiche assolute, ricordo il grande poeta mistico sufi persiano Jalāl al-Dīn Moḥammad Rūmī (1207-1273):
La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe… Ciascuno ne prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l’intera verità…
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Catturare lo spirito della natura nel vino artificiale
Oramai che qualità e tradizione sono diventati “slogan falsità” da ipermercato, “Catturare lo spirito della natura…” nel vino, è un obiettivo di tutti: belli e brutti, sporchi e puliti, buoni e cattivi, convenzionali e vinnaturisti, puzzoni e profummerdini.
Non gliene frega mai niente a nessuno dei filosofi o del pensiero profondo impolverato nelle biblioteche del mondo, eppure, guarda un po’, ci tengono tutti a far sapere di avere una propria “FILOSOFIA” aziendale.
Ricordate Michael Corleone in Vaticano nel Padrino parte III?
<<Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.>>
Visto poi che nel “vino naturale”, non ancora codificato dalla Legge si parla tanto di retroetichette limpide a cui affidare il messaggio ufficiale di trasparenza produttiva, mi chiedo allora: quanta limpidezza, quanta mistificazione, quante supercazzolein grassetto e quanto rispetto del consumatore finale c’è in questa retroetichetta di biscotti industriali all’apparenza legale cioè approvata dalla Legge? Ne scrivevo anche qua, in merito alla dibattuta questione del falso e dell’autentico.
Il filo rosso che uniforma e lega i partecipanti delle varie associazioni etiche, distribuzioni ed organizzazioni commerciali del vino naturale, è l’autocertificazione o la certificazione bio e biodinamica da parte di enti terzi, con in più per qualcuno il controllo a campione su eventuali pesticidi utilizzati, istituito da un “comitato di saggi” o da un gruppo di controllori che vabbè, andrebbero poi controllati a loro volta, in un circolo vizioso senza fine; tutti ricorderemo senz’altro il platonico: “Chi custodirà i custodi?” (La Repubblica, su l’ubriacezza dei sorveglianti dello Stato), ripreso anche da Giovenale nella sua VI Satira “Quis custodiet ipsos custodes?”
La cosa che più mi preme rilevare tuttavia, è che se proprio l’autocertificazione è l’anello debole della catena, per cui in molti sollecitano ad una definizione ufficiale, ad una benedetta ratio produttiva “uguale per tutti”, codificata una volta per tutte in retroetichetta, d’altro canto abbiamo già visto nel caso dei vini convenzio… chiamateli come vi pare, dove le certificazioni e la burocratizzazione folle di certi disciplinari e denominazioni ha portato all’immissione sul mercato da decenni ormai di uno tsunami di vini grigi, piatti, frigidi, sempre uguali a se stessi annata dopo annata, omologati da una farmaco-enologia anonima e stomachevole. Con questo però non voglio fiancheggiare atteggiamenti speculativi per cui “una certificazione vale l’altra, anzi meno se ne fanno, meno controlli si subiscono e più libertà si ha di fare – bene o male – quel che cazzo ci pare…” però ci tengo a ribadire, non è che con tutte queste regole, protocolli, registri, certificati e altre pugnette assortite l’enologia ufficiale, dallo scandalo del Metanolo fino ai farinacei agli “agenti lievitanti” di oggi, abbia limitato chissà quanto l’isterilimento dei suoli, le adulterazioni di cantina, le truffe alimentari, le manipolazioni nanotecnologiche – in Australia si sta cominciando già da un po’ -, le magagne biochimiche, gl’inzuccheramenti dei mosti, i taroccamenti vari ed eventuali e… diciamolo senza infingimenti, la produzione di vini seppur “pregiati” – leggi “costosi” – ma di merda!
Bevitore di vini naturali del IV secolo a. C.
Lui se la sghignazza di brutto davanti all’ennesimo coglione che commenta: “Ma è un vino difettato!”
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Etica Epica Empatia Epiro
non è semplicemente un ristorante ma è un sentimento, una visione etica del mondo.
La gioia genuina degli ingredienti nel piatto. L’approfondita, l’onesta cognizione relativa al vino che è a sua volta cibo così come è affidata al tavolo con naturalezza, con gratitudine dalle mani sorridenti di Francesco Romanazzi e Alessandra Viscardi è, ripeto, un sentimento, uno stato di grazia, un dono che chiamerei semplicemente: empatia!
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Tutti noi architetti, scultori, pittori dobbiamo rivolgerci al mestiere. L’arte non è una professione, non v’è differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano. In rari momenti l’ispirazione e la grazia dal cielo, che sfuggono al controllo della volontà, possono far sì che il lavoro possa sbocciare nell’arte, ma la perfezione nel mestiere è essenziale per ogni artista. Essa è una fonte di immaginazione creativa.
W. Gropius, Manifesto programmatico del Bauhaus
Da una storia d’amore secolare così forte come quella tra queste due tradizioni, – l’enologia e l’arte artigiana dei bottai -, nasce la nostra umile idea di trasformare le botti dismesse per riproporle al commercio sotto forma di divanetti, tavolini, seggiole, chaise longue ed altri oggetti d’arredamento per la casa il cortile il giardino.
Sposiamo appieno quindi un’etica ambientale del riutilizzo e una filosofia sostenibile del riciclo, orientati con la gioiosa convinzione di lavorare con elementi nobili ed essenziali della Natura attraverso le sue più intime sostanze primordiali quali: l’Aria l’Acqua il Fuoco la Terra che formano la vegetazione da cui arrivano appunto quei pezzi di legno che a nostra volta riplasmiamo nelle nostre mani per poi donarli a voi che sapete apprezzare, voi che avete il gusto della bellezza austera e durevole, voi che celebrate la divina semplicità della vita con un buon calice di Sangiovese o quel che sia accompagnato da un tozzo di genuino pane seduti comodamente su una delle nostri creazioni cioè dei sofà fatti a mano ricavati magari dalle botti dello stesso vino che state sorseggiando! Santè e lunga vita a voi, alla vostra Salute allora e alla nostra, Cin-Cin e tanta, tanta felicità!