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Assaggi & Paesaggi

Krug Clos du Mesnil 1990 – 1995

19 Gennaio 2012
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A dispetto dello scrupoloso ed inarrivabile modello Krug d’assemblage dei tre grandi vitigni, differenti millesimi e cru che competono tra loro nella versione finale dello stile monarchico di questa Maison, Clos du Mesnil è invece una cuvée monocrumonocépage vale a dire un “multidimensionale” chardonnay in purezza da una parcella di soli 1,85 ettari (gli stessi acri del vigneto Romanée-Conti monopole) circondata da un muro di cinta in pietra (rara immagine per la Champagne in cui sono riconosciuti ufficialmente solo 9 clos) innalzato nel 1698 da Claude Jannin come è raccontato anche in retro-etichetta ed appartenuto ad un monastero benedettino fino al 1750. Dunque questo blanc de blancs si differenzia come un’eccezione particolarissima alle regole d’assemblaggio della casa visto che nella vinificazione del Clos Du Mesnil confluiscono una sola vendemmia di un solo vitigno da un solo vigneto. Questa leggendaria, esigua parcelle nel cuore della Côte des Blancs incastonata quale un diamantino sull’anello di Mesnil-sur-Oger da cui vengon fuori a stento non più di 15mila bottiglie nelle annate proficue, è stata acquistata poi dalla famiglia Krug nel 1971 che con la 1979 immessa in commercio solo a partire dal 1986, realizzerà la prima di sole 12 annate a seguire fino all’ultima introdotta sul mercato: la 1998. Orientamento a sud-est, leggerissima pendenza della coltivazione conferiscono a questo clos condizioni assolutamente uniche per la maturazione e lo sviluppo ottimale dell’uva chardonnay. L’annata 1990 è unanimamente considerata eccezionale e questo a dispetto della gelata d’aprile che ha minacciato una buona metà della regione; la ’95 invece seguiva almeno due vendemmie dimenticabili quali la ’91 e la ’94. Il Clos du Mesnil ad ogni modo fa esplodere tutta la sua perfetta gessosità codificata già nel DNA del suolo, mineralità suprema ereditata dal vitigno e dallo chardonnay soprattutto se bevuto in gioventù che nel caso specifico pare abbia stipulato col Satana delle uve un patto d’eterna giovinezza.

La nostra bevuta comparativa a distanza di 20/25 anni ci imporrebbe un silenzio sacro (Le silence est d’or come intitolava il film post-bellico di Renè Clair) davanti a questo dittico, capolavoro fuso dello champagne più bianco trai bianchi che possa mai immaginarsi abbinato sobriamente a scagliette di parmigiano vacche rosse stagionato un paio d’anni meglio se originato da un casello di montagna. Sgocciolio di miele sulle labbra appena raccolto dall’arnia; sbocciare dei fiori d’albicocco; noci, mandorle, granelli d’arabica e pinoli pestati sugl’argini d’un fiume con un sasso levigato dai secoli; bacche di vaniglia sbucciate con l’unghia: ecco i lirici richiami e le azioni possibili cui rimandano gl’ingordi sorsi di questi differentissimi tra loro ma tanto uguali Krug, mentre intanto la luce solare tramonta oltre i casermoni di quartiere in cemento dis-armante, i comignoli, le paraboliche e le antenne; nel frattempo una voce, La Voce cioè proprio “The Voice” sgorga, fluttua via da una finestrella semichiusa e swinga, fluisce lontano fino a noi, tra i disumani terrazzi della periferiaccia attraverso calze, lenzuola e mutande colorate stese sulle tettoie ad asciugare alla brezza pre-estiva come note musicali di cotone sbandierate all’aria, prestando così il sensuale canto alle nostre allucinazioni meditabonde, carezzate dal fiacco sole invernale:

“You make me feel so young,

You make me feel like spring has sprung…”

 

Didier Dagueneau Pouilly-Fumé Silex 1999 – 2007

18 Gennaio 2012
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Didier Dagueneau est un extrémiste de la qualité.

Bettane & Desseauve, Le Grand Guide de Vins de France 2009

Undoubtedly the Loire’s most flamboyant vigneron…

Robert M. Parker, Jr., Parker’s Wine Buyer’s Guide Edition 7th

Pouilly-Fumé vale a dire le colline della riva orientale della Loira dove la coltivazione del Sauvignon Blanc impera fin dalla fine del 1800 quando il genocidio vitivinicolo europeo causato dalla phylloxera vastatrix ha reso consapevoli i produttori della valle che lo chasselas (vitigno molliccio, anonimo, abboccato e scialbo equivalente al nostro sud-italico Marzemina Bianca) il quale attualmente rientra nella denominazione Pouilly-sur-Loire non era affatto l’uva più adatta ai terreni calcarei e rigogliosi di selce della zona. Silex, omaggio assoluto alla selce in etichetta tanto col nome quanto con l’immagine, è difatti il titolo della cuvèe più universalmente nota che il geniale, capelluto e barbutissimo come un profeta vetero-testamentario Didier Dagueneau produceva intonando da interprete ultra-raffinato del Sauvignon Blanc un inno maestoso al terroir di Saint-Andelain nel dipartimento della Nièvre. Didier conosciuto anche come “il re  del Sauvignon” oppure “il pazzo di Saint-Andelain” morì tragicamente all’età di 52 anni, abbattendosi col suo aliante il 17 settembre del 2008, ora ci sono i suoi figli Benjamin e Charlotte a proseguire l’opera eccelsa cominciata dal padre vigneron non conforme ai dettami sempre ridicoli, bigotti ed ortodossi di qualsivoglia dogma produttivo, sia esso la biodinamica o la inanimata elaborazione industriale in serie. Su 11,5 ettari per 50mila bottiglie prodotte collaborano una dozzina di esperti vignaioli (cioè un agricoltore professionista per ettaro) più l’utilizzo di cavalli nella lavorazione dei vigneti. L’estrema meticolosità nella coltura e potatura, l’accuratezza nei dettagli più millimetrici nei riguardi della vite, il perfezionismo sfrenato nella raccolta a mano solo dei grappoli ed acini giunti a maturazione ottimale e tant’altro hanno conquistato la fama mondiale a Dagueneau che con ognuna delle sue vendemmie ha potuto competere con i migliori e più grandi bianchi secchi del pianeta enologico. Macerazioni pre-fermentative per guadagnare al vino la più intensa densità aromatica e fermentazioni in botti grandi nuove, in acciaio ed in speciali barrels denominate “cigares” (piccole, ovali e lunghe barriques disegnate da Dagueneau medesimo e costruite appositamente per lui) per donare all’uva il massimo in termini di complessità, delicatezza, eleganza e longevità. Le vigne che rientrano nella cuvèe Silex sono vecchie di 15-50 anni e delimitate a rese bassissime rispetto alle altre quali il Blanc Fumé de Pouilly, il Pur Sang, il Buisson Renard etc. L’annata 2007 è l’ultima fatta da Didier prima della sua morte improvvisa, vendemmia che lui stesso considerava essere una delle migliori di sempre ovvero la congiunzione mistica di tutti gli sforzi da Sisifo fatti in vigna ed in cantina negli anni per perseguire il conseguimento di una maturità aromatica senza eccessi alcolici ed una stupenda concentrazione minerale che dona al vino una parabola d’invecchiamento davvero graziata da Dioniso.

Stappiamo la 1999 e la 2007 di Pouilly-Fumé Silex con due ore d’anticipo, potevamo senz’altro scaraffarle entrambe per ossigenare al meglio un vino dall’aurea compatta, dal temperamento nudo-e-crudo e dall’anima rinchiusa in se stessa come fosse il corpo tenero d’un riccio che avverta il pericolo esterno imminente rappresentato dal contatto umano che è di certo brutale ed invasivo… eppure ci limitiamo a mescere i calici con polso leggero, attendendo con timore e tremor panico i profumi di cedro candito, erbette officinali, la scintilla neolitica della pietra focaia, il retrogusto ancestralmente exotic, il sapore metallico meraviglioso così di una mineralità tutta alcalina che scorre nell’esofago come ruscelletto alpino in piena confluendo nelle primaverili vallate del nostro cuore di ghiaccio che subito si discioglie assieme alla mente, all’apparato respiratorio, alla salivazione e alla memoria consanguinei di questi incomparabili pouilly-fumé che sono terrestre o ancor meglio vialattea rivelazione dei cicli eterni di natura madre. L’equivalente solido ai due Silex, in termini di gradevolezza, sapidità/acidità, soave affumicatura, pizzicore asprino e condensa agrumata sono le tagliatelle di Campofilone stirate a Monte San Giusto (La Pasta di Aldo) mantecate in famiglia tra pochi intimi con emulsione d’olio toscano novello, prezzemolo, aglio e bottarga di muggine dallo stagno di Cabras rifinite con tartare di gamberi rossi ancora vivi più un paio d’unghiette di peperoncino cremisi freschissimo dell’orto tagliuzzato alla forbicina e spolverate d’altra bottarga grattugiata; nota in margine: sempre più acuto ci assale il dubbio circa l’autenticità e l’origine di quest’Oro di Cabras il cui sapore anno dopo anno risulta essere di volta in volta meno concentrato, vigoroso, genuino e forte come invece dovrebbe.

Post scriptum:

A concludere l’arco temporale delle Oeuvres et Jours di Didier Dagueneau incominciate a partire dalla metà degli anni ’80, l’annata 2007, la sua ultima vendemmia dunque è il vero testamento spirituale di un uomo vero del vino di cui si diceva gestisse conservazione, pulizia e manutenzione della propria cantina costruita nel 1989 quasi fosse una cattedrale e non potevamo allora che farne dovuto omaggio (sorta di potlatch e scambio di doni pre-natalizio ovvero magica pozione fumé, ideale per abbinamento su fritto di moscardini bruciacchiati) agli amici veri dell’Abbazia di Montecassino, dono senz’altro più modesto della sublime natività del Botticelli assimilata già da qualche tempo al monastero benedettino nei cui fiorenti archivi bibliografici è custodito con amore di verità e tutela della tradizione il “placito capuano” che documenta la nascita della pre-dantesca lingua volgare scritta e poi diffusa in tutto il mondo neolatino cioè la cellula germinativa dell’italiano moderno: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti; con altrettanto sentimento di continuità del vero e protezione della bellezza, innalzando il calice sull’ampio panorama cassinese, ci auguriamo in celestiale joi de vivre che i vini sempre immensi di Didier possano essere il seme liquido a partire da cui altri produttori illuminati, artisti della vite, vignaioli scrupolosi ed interpreti dal genio sincero proseguiranno con mano ferma eppur gentile traendone il frutto delle loro mille ricerche in vigna, continui ma costruttivi ripensamenti, travagli spirituali ed intrepide fatiche d’Ercole pure in questi nostri giorni dell’oscura età post-Fukushima.


 

Krug Vintage 1988 – 1990

9 Gennaio 2012
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Eccoci ancora qua. A distanza di 4 anni riproponiamo alle nostre sempre più attonite papille gustative questo liquido scontro fra Titani. Parliamo esattamente del Krug vintage nelle sue versioni millesimate: 1988 e 1990. Questa mitica maison de Champagne è stata fondata a Reims nel 1843 dal capostipite tedesco Johann-Joseph Krug commerciante a Magonza. Ora siamo alla quinta generazione della famiglia Krug e nonostante l’acquisizione dell’elefantiaco gruppo Louis Vitton Moët  Hennessy (LVMH) lo stile di questa bollicina sovranamente rigorosa e conservatrice della tradizione, rimane essenzialmente autonomo ed invariato quasi a rasentare la perfezione in terra: fermentazioni in fût de chêne di tutti i cru vinificati separatamente inibendo la malolattica (di modo da mantenere acidità elevate e più spigolose sì da allungare ad infinito la freschezza e la longevità del vino resistendo all’insidia dell’ossidazione evolutiva); abile sapienza alchemica nell'”arte del taglio”, nell’assemblaggio cioè tra il pinot meunier (carisma e note esotiche) il pinot nero (corpo ed energia) e lo chardonnay (eleganza e carattere). In questo senso la Grande Cuvée è una vera e propria scuola di dosaggio se si pensa che vi rientrano una quarantina di vini da dozzine d’annate diverse fino ad un 35-50% da vini di riserva; lunghi affinamenti in bottiglia (considerate che la versione Collection che comprende le ultime bottiglie disponibili di annate superlative, viene immessa sul mercato solo dopo una ventina d’anni di cantina con posata calma e qualitativa saggezza anti-moderna disposta alla cura, all’affinamento e all’attesa quasi a voler sfidare a duello la frettolosa superficialità e ipertrofica produzione industriale della nostra epoca focalizzata barbaramente solo sulla quantità use-and-throw al gusto di cellophane)

Il pre-cena consiste in ciotole di noccioline, mandorle e noci appena sbucciate; in un piatto, minutamente cesellato al polpastrello, fiocco e cosciotto di prosciutto da ghianda (de bellota) della stagionatura media di tre anni appena scotennato: il Porco Preto, la controparte portoghese del maialino di Pata Negra iberico, quello cioè dagli zoccoli neri. Nel frattempo da un altro piatto girevole un vecchio vinile diffonde il suono cristallino d’un vibrafono, non potrà che essere l’inconfondibile tocco virtuoso di Milt Jackson dal disco Prestige Bag’s Groove del 1954 con formazione stellare: Thelonious Monk, Miles Davis, Kenny Clarke… seguono, a definire la vera e propria cena, lenticchie riscaldate con filino di frantoio novello e cappello di prete o tricorno (una variante del cotechino e dello zampone ma con aggiunta di vino nel macinato), cruditè di spinaci di campo preparati ad insalata più una manciata di chicchi succulenti di melograno spaccato al momento a far da contorno ad un torchon de foi gras ripieno d’uvetta passa e fichi secchi marinato nei fiocchi di sale di Guerande. Le due meravigliose bottiglie di cui qui con commossa memoria si rammenta la bevuta, non potevano che sciogliere amorevolmente  l’oleosa granulosità della frutta secca i sudori grassi e nocciolosi del prosciutto stagionato, la pingue opulenza del fegato d’oca già inverdito dagli spinaci crudi e dal croccante umore dei melogranati semi, rinfrescando il nostro sistema cardiovascolare con l’acidità stupefacente della loro essenza d’arancia candita, bollicina finissima e mineralità inarrivabile proveniente da chissà quali oscure viscere geologiche, a scalzare manifestamente nel classico abbinamento con il foi gras addirittura un Yquem, pur se di annata ombrosa: la 1987.

Così come l’ultima volta che ci siamo trovati costretti ad un competitivo, arduo raffronto tra i due millesimi, nonostante la celebrata ed outstanding annata 1990 il nostro focoso innamoramento semper fidelis continua a prediligere la più anonima, minore (per la maggioranza non certo per noi) e meno celebre 1988 (sublimata nell’esofago mesi fa anche nel formato magnum nel giro di pochi minuti tra alcuni intimi): folgorante per élan vitale, spessore, longevità, vivezza di corpo e di spirito, pulizia e monumentale stratificazione di tutti gl’elementi, i particolari minimi, le sfumature e le variabili che concorrono a fare di una grande bottiglia un vino semplicemente immortale!

Samaroli Milton Duff 1964

27 Settembre 2011
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Villa Aurelia, sommità del Gianicolo lungo le Aureliane mura, proprietà dell’American Academy: tra gl’immobili più astonishing del pianeta terra. Ovidiana serata di fine settembre, l’Ovidio dell’Ars Amatoria. La falce della luna rischiara l’Urbe giù in fondo che pulsa e rimbomba in lontananza come stella morta già da milioni di anni: è proprio la Città Eterna, eternamente assopita ed avvolta in una foschia di polveri di travertino (e chissà quali altre polveri stupefacenti…), rovine capitoline, speranze augustee o disperazioni pulviscolari e smog ancor più eterno. Un solo sorso di questo ultra-rarissimo Milton Duff (la numero 12 di sole 240 bottiglie!) e palato ed esofago sembrano quasi smaterializzarsi del proprio impaccio carnale; in un dito mignolo cioè di questo single malt da 49,5 gradi alcolici, dal complesso pre-gusto olfattivo al balsamico, mentolato retrogusto in bocca, paiono scorrere backwards and forwards senza tregua come la sgranatura d’un rosario intrecciato con infinitesimali galassie al  bouquet di tabacco, torba, miele, fieno, fiori autunnali, fichi secchi, menta, cuoio bagnato… che paiono esprimere la sintesi quintessenziale dei quattro, presocratici elementi fondamentali: acqua, terra, aria, fuoco. Figurati poi ad accompagnarlo con un partagas culebras dalla combustibilità e tiraggio inimmaginabili vista la forma irregolare (quei bizzarri sigari cubani cioè tutti storti ed intrecciati tre alla volta).

Nessun dubbio se, come Noè fossimo costretti a scegliere cosa o chi salvare dal naufragio: cassa di Milton Duff 1964 (e chi te la passa?) o opera (???) inedita della Rowling, la più hollywodianizzata dei Paperon de’ Paperoni tra gli scrittorucci di massa… mors tua globalizzato Harry Potter, vita eterna al Milton Duff!

Pol Roger Winston Churchill 1996

26 Settembre 2011
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Pomeriggio di fine agosto 2011 (raccolta stra-anticipata quest’anno, sarà una delle vendemmie peggiori di sempre?). Ora di pranzo, all’ombra delle rigogliose vigne del syrah cortonese. Migliaia di rondini sfiorano il prato per nutrirsi d’insetti prima di prendere il volo verso l’Africa lontana. Conversando di musica brasiliana e del movimento tropicalia con produttore olandese di vino in Sudafrica, sorseggiamo questa splendida, finissima bollicina come very gentlemen affaticati dall’afa all’ora del lunch time. L’annata, si sa, è di quelle memorabili. Il colore ha la doratura dei campi di grano riflessi nello specchio del Trasimeno poco distante; tutt’attorno si percepisce quasi al tatto il respiro lento e l’abbraccio fraterno della campagna toscana “sospesa nel tempo” come in un affresco di Simone Martini; freschezza piena sia alle narici che sulla lingua ma soprattutto in gola fin giù nelle viscere dove s’accompagna con spaghettoni Verrigni cotti al chiodo in salsa di pomodori appena colti, basilico, peperoncino dell’orto e filo d’olio leccino; un sorso richiama subito l’altro (per dissetarsi  davvero non basterebbe un bel Fûte de Chêne per persona…); eleganza massima e persistenza ad libitum. Può uno champagne fondere in un solo elemento armonico il cuore con la mente? Questo Winston Churchill 1996 all’apertura del tappo ha sfiatato un “SI” tanto secco, luminoso, rigoroso e concreto come la facciata romanica della Concattedrale di Santa Maria in Cortona.