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CARTA PENSANTE

Un archivio virtuale dove memorizzo mie letture presenti/passate/future di fogli a stampa che sono perlopiù libri persi eppure imperdibili, segni viventi del pensiero umano in azione. Perché certa scrittura è più vera, più potente e reale della stessa realtà che invece è quasi sempre finzione, debolezza, miseria.

Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

30 Maggio 2023
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Nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.”

Elsa Morante

Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

Con l’escamotage molto sofisticato ed ironico del romanzone d’appendice o del feuilleton alla Dumas, Elsa Morante a poco più di 30 anni nel 1943 comincia a scrivere Menzogna e Sortilegio il cui titolo originario, tra i tanti scartati, doveva essere Storia di mia Nonna.

Con le stesse parole della scrittrice romana, il romanzo è un dramma piccolo borghese trasformato in una leggenda. Il libro intreccia una nevrotica saga meridionale che porta in superficie le ambizioni deluse di tre generazioni di donne. Questo grandioso romanzo della Morante è un’epopea familiare scaturito dalla memoria invasa dai vapori lunari ed erratici di Elisa doppio di Elsa, cioè il personaggio che racconta in prima persona la storia della sua famiglia in una duplice (ambigua?) funzione sia di medium stregonesco e di invasata che incarna le voci dei fantasmi del passato, tanto in quella di testimone oculare dei fatti e delle ambasce accaduti ai suoi genitori di cui si fa giocoliera e solitaria cronista. Menzogne e sortilegi della grande letteratura che attraverso la potenza di fuoco dell’immaginazione e la demiurgica verità della poesia, plasma il mondo, stana la realtà più e meglio della stessa verità della storia. Il Sud della Morante è un meridione immaginario eppure realissimo, barocco e contemporaneo a un tempo. Questo Sud immaginifico è una Sicilia eterna intrisa di magia nera, fosco intrigo di lutti, mistificazione, superstizioni, sessualità repressa, frustrazione religiosa, orgoglio malsano, distinzione di classe. Una Palermo fantastica ma più vera del vero, sospesa nel tempo, immortalata dallo sguardo sarcastico, amaro ed estatico di un Dostoevskij folletto a Palermo o di un Kafka meridionale tutto al femminile. 

Menzogna e Sortilegio è stato scritto in fasi avventurose della vita della scrittrice, durante i tragici anni della II Guerra Mondiale. Cesare Garboli, fraterno amico della Morante nella sua intensa introduzione al romanzo “cosí centrale nella storia letteraria del nostro secolo”, rivelando una commistione illuminante tra il polpettone rosa e il marchese De Sade, sottolinea:

“Mentre gli occhi di tutto il mondo si giravano verso il futuro e puntavano diritti sulla realtà, lo sguardo della Morante si distraeva dal presente, attirato e affascinato dalla profondità di uno scenario spettrale e lontano.”

Un altro grande critico Cesare Cases che reputava Menzogna e Sortilegio tra i maggiori capolavori della nostra letteratura, ragionando sul senso ultimo dell’arte in quanto espressione sia eversiva che consolatoria, quindi di adesione viscerale alla realtà pure se incoraggia la fuga dall’oppressione del mondo presente, scriveva in Patrie Lettere:

“L’arte è di per sé contemporaneamente eversiva e consolatoria: dice la verità sul mondo, ma trasponendo la verità nella parvenza lascia il mondo così com’è e riconcilia con ciò che ha giudicato.”

In questa polverosa rivendita di vini, lo sciagurato padre di Elisa, il Butterato, porta la bimba con sé. Un luogo esotico tipo fumeria d’oppio, dove il Butterato Francesco “nell’effimera animazione dei primi bicchieri” può narcotizzare i sensi e dare libero sfogo alle sue fantasie represse, millantando origini nobiliari e titoli universitari mai raggiunti che la figlioletta osservatrice implacabile testimonia nell’aspetto di “vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime”. Francesco è uno dei personaggi più dannati del romanzo, altre pagine notevoli sono quelle dell’arrivo di sua madre Alessandra in città, una contadina analfabeta di cui si vergogna amaramente, già quando lui era ancora uno studente iscritto all’università e si era messo in testa di redimere la malafemmina Rosaria.

La realtà si respinge con asprezza rinnegandola fino alla radice, nel suo grigiore prosaico, per amare solo gli spettri. È proprio questo il destino truce dei protagonisti del romanzo. Questa, a pensarci bene, è anche la parabola conclusiva di qualsiasi lettore e scrittore di romanzi. La voce più ricorrente nella ragnatela velenosa di Menzogna e Sortilegio è la parola ambascia. È una voce anomala e gelosa: “squillante e patetica, misericordiosa e animalesca non rara nel Mezzogiorno” come la stessa voce dell’ostessa moglie reclusa dell’oste Gesualdo.

Dall’enciclopedia Treccani: ambàscia s. f. [etimo incerto] – 1. Grave difficoltà di respiro, unita a senso di oppressione. 2. fig. Oppressione dell’animo, accoramento, angoscia.

Angoscia, oppressione, respiro affannato… predominano nelle descrizioni minuziose dello scantinato di Gesualdo, mescita dei vini oppiacei. Nella Quinta parte del romanzo intitolata Inverno, si descrive appunto Gesualdo, un oste malarico di “selvatica tristezza… e tetra indolenza”, e la sua rivendita di vini, una bottega fuorimano con gli avventori popolani “carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi”, uomini del popolo dall’ambiguo sorriso e le occhiate sfuggenti. Sono pagine di malinconica, straordinaria bellezza che emanano il marchio a fuoco della poesia più straziante mentre esprimono l’infelicità predestinata, la miseria inconsolabile, l’amarezza funesta, la muta rassegnazione della condizione umana.

Osserviamo e ascoltiamo questo micro-mondo perduto del Sud che è racchiuso a matrioska dentro tutti i Sud del macro-mondo, attraverso lo sguardo e l’udito ammaliati da scettico stupore infantile della testimone Elisa:

“E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principesca, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.
Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci! (…)

Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtú, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero piú menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben piú grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro. (…)

Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia”.

Viene in mente Thomas Hardy e le rabbiose sfuriate anti-accademiche di Jude l’Oscuro nelle sue luride bettole d’Inghilterra affollate di umiliati e offesi.

“Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non piú che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.”

E segue la memorabile descrizione del vino servito nella stamberga e dei suoi taciturni frequentatori dai volti semitici, riportata sempre da un’Elisa bimba onnisciente, annoiata in quel tugurio di avvinazzati. Elisa preferirebbe giocare con la gatta selvatica incinta di cui “nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura” a cui l’oste avrebbe in seguito affogato i micetti rendendosi per sempre malefico e odioso allo sguardo innocente della bambina malamata il cui sogno più grande sarebbe stato proprio quello di ricevere in dono uno di quei gattini nuovi tutto per sé, il solo amico possibile in quel suo universo ostile.

“Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensí amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.
Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra. (…) A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.”

Negli ultimi capitoli di Menzogna e Sortilegio, la piccola Elisa sempre accompagnando suo padre alla bettola di Gesualdo vivrà le sue ore più disperate e umilianti, con il Butterato completamente ubriaco, svenuto sul tavolo della stamberga in un pomeriggio di afa e calura estiva che accentuano l’allucinazione verista, che amplificano lo squallore della scena di questo “pellegrinaggio infernale”.

Dovrà riaccompagnarlo lei lungo le strade verso casa tra le lacrime della mortificazione estrema che la porteranno al culmine di odio e disgusto nei confronti di quel suo tragico padre, nemico di se stesso come quasi tutta la schiera di spettri autolesionisti che animano il romanzo della Morante, un assoluto capolavoro di stile, sensibilità artistica, osservazione del mondo, autoironia che fa dell’autrice una delle più acute rabdomanti della psiche, cronista lucidissima degli abissi del cuore umano.

“Le vie rimanevano ancora quasi spopolate. Vi s’incontravano solo frotte di ragazzetti mezzi nudi che, insensibili al clima, si davano ai soliti giochi e al chiasso; oltre ai primi scarsi passeggiatori domenicali, ancora istupiditi dalla siesta interrotta anzitempo, e a qualche vagabondo che dormiva buttato in terra all’ombra d’un portone, fra nugoli di mosche. Ancora, sulla città regnava il sonno: soltanto piú tardi, calato il sole disumano, le famiglie, le ragazze a frotte sarebbero uscite agli svaghi della domenica, e incomincerebbero ad apparire i primi ubriachi, familiare spettacolo delle sere festive al sobborgo. Ma in quell’ora prematura, attraverso le vie semideserte nella piena vampa del giorno, un ubriaco aveva l’aria d’uno stralunato pioniere disceso da regioni sideree.
I mille metri di percorso dall’osteria fino a casa furono, è certo, un pellegrinaggio infernale per la fiera Elisa De Salvi.”

È ancora possibile usare gli strumenti digitali senza esserne abusati?

8 Aprile 2021
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“Il cellulare più merdoso del mondo è un miracolo tecnologico. La tua vita che gira intorno al cellulare, ecco, è quella far schifo.”
Louis C.K.
Di questi tempi, spesso non a torto, tendiamo a demonizzare la comunicazione digitale che per sua natura prevede lettori sempre più distratti e comunicatori (anche i più coscienziosi), adeguati a un modello altamente efficiente di massimo dell’informazione in un minimo di spazio/tempo. Viene in mente uno sketch dei Monty Python’s Flying Circus dove i partecipanti ad un quiz a premi dovevano raccontare tutta la Recherche di Proust in pochi secondi.
Quella dello stand-up comedian Louis C.K. è una satira dei luoghi comuni attorno ai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Il comico americano evidenziava in quella battuta che il cellulare in sé è un miracolo, un vertice della sofisticata ricerca tecnologica a cui è giunto l’ingegno umano fino ad oggi; semmai quello che non va per niente bene è la vita dell’uomo attorno al cellulare, questa sì che andrebbe un po’ rivista in meglio perché è proprio quella a fare schifo e lui lo testimonia scandalosamente anche nelle disgrazie della sua vita privata in epoca d’allarmismo da #MeToo. Dunque gli strumenti digitali sono potentissimi e pericolosissimi ad un tempo, “una lama a doppio taglio”. È l’uso che ne facciamo a stabilire la differenza cercando però di non farci violentare dai mezzi che dovremmo usare a nostra volta. Dovrebbe essere obbligatorio l’uso (mai l’abuso) della comunicazione ai fini di una maggiore libertà espressiva, possibilmente con la giusta premura, con tutto l’amoroso scrupolo di “pensare alle cose per ciò che esse sono” come scriveva Virginia Woolf nel suo memorabile Una stanza tutta per sé.
“La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.”
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (1929)
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Certo siamo lontani anni luce dalla stanza tutta per sé immaginata dalla scrittrice inglese, ora ci sono semmai le chat room nei social network che all’apparenza sono affollatissime di opinioni tendenziose, nidificazioni di commenti aggressivi, polemiche del giorno gratuite, visioni distorte del mondo che si riducono quasi sempre a stereotipi o a idee grossolane di seconda o terza mano. La “bellezza del mondo” è sempre minore così come anche la gioia di vivere sta scomparendo lasciando sempre più campo libero all’angoscia esistenziale, un’angoscia di natura digitale, biometrica, una frenesia da manipolazione comportamentale, un’ansia da sorveglianza psichica. Pretendiamo tutti di esprimere i nostri “liberi pensieri in un mondo libero”. Ci illudiamo di diffondere i più o meno giusti ragionamenti in cui diciamo di credere, urlando a squarciagola le nostre vite anonime, sbraitando segreti e bugie intime nel confessionale pubblico di una bacheca online che alla fine dei conti non è altro che la proprietà privata di qualche ultra-miliardario della Silicon Valley.
Certo lo scandalo Facebook/Cambridge Analytica con tutto lo strascico d’implicazioni inquietanti che si porta dietro dall’abuso dei dati personali per influenzare le campagne elettorali alla diffusione di una politica incentrata sull’odio e la paura, è solo l’inizio di una nuova era d’autoritarismo psicografico e controllo comportamentale delle masse attraverso tecniche di neuromarketing. Diciamo pure però che la differenza con i mezzi tradizionali quali la TV non è alla fin fine tanto abissale. Se cominciamo a parlare col Papa davanti a uno schermo è perché abbiamo fatto la fine di Travis Bickle in Taxi Driver. Una piattaforma accattivante ma ingannevole come Twitter ti offre l’abbaglio che il Papa potrebbe anche risponderti, ma è soltanto una grande illusione, una presa per il culo di portata planetaria.

“Le nostre tracce digitali vanno a costituire un mercato da miliardi di dollari all’anno. Siamo diventati merci ma amiamo cosi tanto questo dono di una connettività libera che nessuno si è preoccupato di leggere i termini e le condizioni d’uso.”

da The Great Hack (2019)  documentario di  Jehane Noujaim & Karim Amer

Cambridge-Analytica-logoUsiamo i mezzi di comunicazione o ne siamo usati? Avere una coscienza critica rispetto al consumo di merci e tecnologie ci salverà dall’appiattimento planetario delle coscienze? L’aspetto più tragico di questa impasse da cui a quanto pare ne usciremo solo estinguendoci è che i consumatori avveduti possono dire e fare quello che vogliono tanto è la produzione dall’alto a piazzare di volta in volta i loro prodotti ad hoc, a imporre le proprie merci e le proprie verità plastificate, fottendosene intenzionalmente dell’ambiente, dell’etica comunitaria e del consumo critico.
Il problema pressante della comunicazione in generale attraverso i social e nello specifico della comunicazione del vino, sono le polarizzazioni ben poco costruttive tra buoni/cattivi, belli/brutti, autentici/falsi, naturali/convenzionali. L’autoreferenzialità ebete, lo straparlare, il far bella mostra di sé a qualsiasi costo pur non avendo una benamata sega da dire, sono le piaghe più eclatanti di quel complesso di segni e manifestazioni semantiche che definiscono il vino, la sua comunicazione ai tempi mordi-e-fuggi di Instagram. Comunicazione online che s’inserisce di forza all’interno di quel gigantesco calderone propagandistico del web dove imperversano la disinformazione a tappeto, un’informazione sempre più sciatta, la manipolazione delle coscienze e conoscenze, la falsificazione dei fatti, la superficialità programmata a braccetto con la sistematica assenza di contenuti… giusto per elencare solo alcuni tra i giganteschi ostacoli da superare oggi per riorganizzare un ecosistema della comunicazione ad un superiore livello di profondità del sapere e a verificata qualità dei contenuti. Verificata da chi? Qualità dei contenuti in base a quali parametri? Parametri stabiliti come e da chi? È un ginepraio senza via d’uscite dove l’apparenza predomina sempre sulla sostanza. Basta vedere le contraddizioni drammatiche sulla certificazione formale che attesti la naturalità di un vino in retro-etichetta su cui ci si scanna ormai da anni in stile Guelfi e Ghibellini, scissi tra velleità ideologiche di natura filosofico-morale e impellenze d’ordine biecamente commerciale.
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Nel frattempo che stavo riordinando le idee su questo pezzo, facendo su e giù da Roma a Itri in macchina, ad un certo punto mi sono imbattuto in un cartellone pubblicitario enorme lungo la statale all’altezza della casa-martirio di Santa Maria Goretti (sic!), tra sedie di plastica vuote dove spesso si appoggia qualche puttana in attesa del prossimo avventore. Sul cartellone a lettere cubitali c’era scritto un sibillino: SIAMO SEMPRE SUL PEZZO. Tutt’attorno la desolazione e lo squallore mortiferi della Pontina, davanti a una vigna talmente diserbata che il suolo era color giallo fosforescente. Ecco quindi che in un’immagine accecante, ho pensato, tutta la contraddizione del mondo in cui viviamo, erompeva come un’epifania. Eh già, un’epifania della prostituzione collettiva. Quell’arroganza da smorto ottimismo che porta chi vende qualcosa a manifestarlo con quell’aggressivo “siamo sempre sul pezzo“, è faccia della stessa medaglia della strafottenza di colui o coloro che avevano diserbato a morte quel povero campo. Una vigna da cui verrano fuori delle bottiglie di vino vendute ad un prezzo plausibilmente stracciato per masse di clienti anonimi. Acquirenti da supermercato che continueranno a giustificare la loro medesima strafottenza di consumatori qualunque con la solita scusa dell’indigenza e della ristrettezza economica a vita, così a scaricabarile come in una catena di Sant’Antonio della noncuranza e dell’inciviltà diffuse.
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Tuttavia ora è necessario come il pane che la diffusione orizzontale delle conoscenze sia condivisa tra la maggior parte delle persone in barba ai pregiudizi costruiti ad hoc dalla Rete. Sarà cioè sempre più vitale mantenere alta l’asticella dello spirito critico in aperto contrasto agli algoritmi faziosi che vorrebbero sostituire le nostre coscienze autonome con le loro allucinazioni numeriche, umiliando senza pietà il nostro organismo pensante. Insomma, non dobbiamo mai tenere spento il livello di guardia dell’attenzione, bisogna evitare con tutte le nostre forze di farci lobotomizzare in massa, narcotizzare le coscienze dall’industria dei Like. Dobbiamo aver fede nel nostro intelletto insostituibile da qualsiasi AI (Artificial Intelligence) finanziata da qualche squaletto venture capitalist di San Francisco. Nella maniera più assoluta non possiamo permettere, è in gioco la dignità umana, che un’Intelligenza Artificiale generata dalle macchine, a loro volta create da noi, ci rimpiazzi senza autorizzazione, nonostante abbiamo già tutti svenduto i nostri dati e la nostra anima al diavolo dei social media. Facciamo in modo che uno strumento tecnologico resti tale, senza farci prevaricare. Perché in fin dei conti è solo uno strumento inventato da noi potenzialmente per aiutarci a vivere meglio e non – si spera – per accelerare il processo della nostra definitiva autodistruzione.
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10 letture consigliate
– Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaello Cortina Editore 2011)
– Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli 2020)
– Richard H. Thaler, Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale (Einaudi 2018)
– Evgeny Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio (Codice Edizioni 2016) 
– Jon Ronson, I giustizieri della rete (Codice Edizioni 2015)
– David Weinberger, La stanza intelligente (Codice Edizioni 2012)
– Mark Fisher, Capitalist realism. Is there no alternative? (Zero Books 2009)
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Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico, per non pensare troppo al mondo di oggi

29 Marzo 2021
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Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico, per non pensare troppo al mondo di oggi
Pensiamo al mondo antico, all’ubriachezza e alla sobrietà nel mondo passato, per non pensare troppo al mondo presente, un mondo ottenebrato dal virus SARS-CoV-2 e dalle sue varianti insidiose che non danno tregua, non concedono neppure un attimo di quiete né la spensieratezza d’ubriacarsi in pace, viaggiare tranquilli, scopare in libertà.
Aspettiamo ancora un attimo però. Non vorrei subito cedere alle lusinghe del mondo antico. A sprofondare, a perderci in esso come in un paradiso d’oppio. Facciamo un salto a qualche decina d’anni fa. Siamo agli inizi degli anni 30, nel pieno della Grande Depressione, forse il momento più buio, almeno fino all’anno scorso, dell’era industriale. Una coppia di gangster in fuga si esercitava a sparare su una casa di poveri contadini espropriata dalle banche. La famiglia dei contadini, prima di emigrare, passa per dare un ultimo saluto a quella che era la proprietà sottratta loro dal sistema bancario. I due gangster si presentano:
<<Lei è Bonnie Parker. Io sono Clyde Barrow. Rapiniamo banche!>>
Dal capolavoro cinematografico di Arthur Penn, Bonnie and Clyde (1967). 163996425_3002792453282301_413606418085182560_o-1

Riportato a oggi, marzo 2021, dopo un anno di pandemia di COVID-19 e sue mutazioni, questo scambio folgorante nell’America sfigurata dai vortici della Great Depression, tra i contadini rapinati dalle banche e Bonnie & Clyde che le banche le derubavano sul serio, può suonare un po’ macabro. Macabro perché? Perché con l’aria che tira ora, presto saranno in tanti a finire in bancarotta, a indebitarsi con le banche o l’Agenzia delle Entrate, questo a prescindere dai decreti degli azzeccagarbugli, dai labirinti burocratici dei fondi salva stati e i superbonus ad uso di chi, al solito, ne ha meno bisogno. Perché poveri e disperati in situazioni di crisi saranno ancora più impoveriti, preda della disperazione. I ricchi invece, gli ammanicati ai politici, ai palazzinari, ai leccaculo e ai traffichini di turno, questo si sa, si arricchiscono ancora di più, tanto in provincia che in città.Mondoantico

È trascorso un anno che ha rilevato man mano una discrepanza sociale enorme tra quelli che lavorano con le mani o nei servizi dove è prevista la presenza fisica (muratori, camerieri, baristi, parrucchieri, meccanici, contadini, medici, infermieri, il sepolcrale sottobosco delle Partite Iva…) e quelli che lavorano in ufficio davanti a un computer (banche, poste, amministrazioni pubbliche, statali, insegnanti, speculatori di borsa, militari…) tranquilli tranquilli, almeno per ora, in “smart working“. Un anno di confusione totale sul virus, sulle mascherine, sui vaccini. Confusione fraudolenta incoraggiata malignamente dai mezzi di comunicazione di massa che hanno provocato, in modo irreversibile, un senso d’insicurezza e instabilità perenni. Più di un anno ormai, alternato a quarantene di settimane o mesi e riaperture a zone colorate che ci ha reso tutti più suscettibili, tormentati, smarriti. In bilico sull’abisso come quell’equilibrista matto da una vecchia foto scovata su internet. In equilibrio precario sulle sedie dalla cima di un grattacielo.162611815_3000923243469222_4393863656241896354_o

In questa altalena di sbalzi d’umore e pensieri nerissimi (a proposito delle zone a colori), concentrarsi sulla lettura di libri appassionanti può rappresentare un ottimo esercizio spirituale. Un diversivo proficuo, una forma di protezione della mente se volete. Vogliamo definirla volontà di potenza per astrazioni somme? Ecco, forse anche meglio: una passione insana verso distrazioni vagabonde. Anzi no, un vero e proprio viaggio iniziatico della coscienza che ci ammaestri ad osservare le cose a noi più prossime ma con la giusta proporzione d’impulsi emotivi, cioè alla dovuta distanza di sicurezza e senza soffocarci con un senso immane d’impotenza lungo il frenetico arco temporale della storia umana. mosaico con satiro e musaAffascinante pensare perciò all’uva di 60 o 50 mila anni fa. Sessantamila o cinquantamila anni fa le viti, i grappoli d’uva, ma ve l’immaginate? Quando l’uva era il nutrimento base delle civiltà di matrice Mediterranea? Che sapore, che colore, che spessore poteva avere quell’uva selvatica? Era aspra, dolce, allappante, acidula, succosa? Dai semini abbrustoliti, ci si preparavano dei panetti impastati con legumi, miele e frutta secca? Che faccia avranno fatto – buffa offuscata ebete erotica grottesca rancorosa sessuale fosca – le prime comunità di uomini e donne intenti ad assaggiare il liquido originato dall’uva fermentata e tramuta in alcol? Quali o come saranno state le reazioni d’intossicazione degli esseri umani primordiali il cui organismo non era certo troppo abituato ad assorbire bevande alcoliche nel proprio interno? Era un’ubriachezza di natura molesta, malinconica, psicotica, arrapante, febbrile, aggressiva, funebre, gioiosa, timida, omicida?

Fresco Fragment Depicting Dionysos and Ariadne; Unknown; Roman Empire; 1st century; Fresco; 94 x 93 x 6 cm (37 x 36 5/8 x 2 3/8 in.); 83.AG.222.3.1
Fresco Fragment Depicting Dionysos and Ariadne; Unknown; Roman Empire; 1st century.

Leggevo in Paolo Nencini, Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico. Alle radici del bere moderno (Gruppo Editoriale Muzzio, 2009):
<<In una grotta del Monte Carmelo, la cui occupazione è databile tra i 60 e i 48 mila anni fa, e quindi durante il Paleolitico medio (cultura di Mouster), sono stati trovati semi abbrustoliti di Vitis vinifera selvatica attorno al focolare, mischiati a semi di varie specie di legumi, a pistacchi e ghiande. È interessante osservare che in tale sito sono stati trovati solo due semi d’orzo selvatico. È pertanto probabile che, ancor prima dell’avvento della rivoluzione cerealicola, gli abitanti della Palestina paleolitica contassero sull’uva come fonte di nutrimento.>>29103238_2126941010867454_8372190423086530560_o

Staccare la spina!

21 Marzo 2021
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Staccare la spina!

Spleen 

…un popolo muto di infami ragni

viene a tendere le sue reti in fondo ai nostri cervelli

[…un peuple muet d’infâmes araignées

Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux]

Charles Baudelaire, Les Fleurs du mal (1857-1861)

Quei ragni infami oggi sono tutti i mezzi d’informazione condizionati dall’interesse economico, incoraggiati dall’onnipotere mediatico attraverso cui i monopolisti della tecnologia controllano questi stessi strumenti di comunicazione che confondono di proposito l’immaginario della gente comune allo scopo di attuare una disinformazione a tappeto sempre più totalizzante, radicale, diffusa. AI_The_Silver_Bullet_Against_Disinformation_960

È questo un ragionamento pretestuoso che affonda le sue radici fin nei meandri della storia. La commistione di Potere e Informazione procede di pari passo con l’evoluzione dell’uomo, cioè col controllo delle coscienze dei molti da parte dell’esercizio di manipolazione dei pochi; gli antichi romani insegnano, vedi il saggio splendido di Paul Zanker, Augusto e il potere delle immagini.9788833916873_0_0_626_75

Non c è nostalgia più amara di quella per un passato che non abbiamo mai vissuto. È un’utopia rovesciata. La nostalgia per origini mai avute. Eppure tendiamo quasi per propensione genetica a idealizzare il passato, a mitizzare un’età dell’oro che probabilmente non è mai avvenuta. Siamo organismi mitizzanti, smetteremmo anche di respirare senza l’adorazione irrazionale di miti e nostalgie delle origini. La nostalgia di ciò che non è stato è ancora più straziante, più penosa di quella per ciò che mai sarà.

Staccare la spina è il solo rimedio per salvarsi dalla disinformazione radicale con cui manipolano i nostri sentimenti, umori e pensieri. Può suonare paradossale e difatti lo è, che inviti a staccare la spina dalle lusinghe del digitale mentre sto a spina attaccata, proprio qua ora su internet da cui persuado, me stesso per primo, a sfuggire.MV5BMTRkYWNjZGEtOWM2OC00NmVlLWIyZmUtNmEwYzk2Njk4MjU5XkEyXkFqcGdeQXVyMTU1ODU5NjM@._V1_

Eppure sarebbe da staccare Internet, definitivamente. Spegnere radio e TV che trasfigurano i fatti in una bolla d’irrealtà tanto gigantesca quanto grottesca. Rifiutarsi di buttare anche solo per sbaglio lo sguardo sui giornali di tutto il mondo i cui proprietari alla fin fine non sono che magnati dell’informazione, cioè padroni dei giornalisti da loro stipendiati esattamente per disinformare a prescindere, spesso ancora più insidiosi quando dissimulati dalla maschera del giornalismo libero e indipendente. Bestie da soma a servizio dell’industria culturale o dell’inserzionista di turno. Pinguini del circo equestre informatico, addomesticati a simulare gesti ed espressioni come scimmie allo zoo. Programmati per ripetere notizie false e opinioni deformate a pappardella meccanica tipo pappagalli. Pachidermi di pubblicisti edotti a mestiere per snocciolare le squallide verità a pagamento del loro addomesticatore del momento, tanto a questo si è ridotto ormai il ruolo dei giornalisti, dei giornali e dell’editoria nel mondo contemporaneo. Miseria umana. Vergogna professionale. Devastazione morale.

Sarebbe da spegnere tutto insomma, tornare a ruminare i versi dolci e amari di Baudelaire con occhi liberi, mente purificata; è questo il solo invito plausibile a pensare con la propria testa, a riappropriarsi della propria vita offuscata, della propria perduta capacità di leggere se stessi, gli altri esseri umani e il mondo.

…un popolo muto di infami ragni

viene a tendere le sue reti in fondo ai nostri cervelli

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Quello a cui i cospirazionisti non credono

19 Marzo 2021
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Siamo in gabbia ormai da un anno mentre subiamo passivamente giorno dopo giorno una deriva psicotica fomentata da un giornalismo sempre più sciacallesco, terroristico, infame. È uno stillicidio indegno! Un’istigazione alla pazzia che andrebbe punita con la legge marziale. Sì, sono per la legge marziale contro questo modo criminale d’informare che istiga alla confusione mentale e all’irrazionale, davvero inqualificabile per la professione. Una professione che dovrebbe custodire una responsabilità enorme ma che di fatto sta creando un danno epocale a furia di perpetrare imposture senza fondamento né verifica dei fatti. È oltre un anno che TV, stampa e Web stanno prolificando paure collettive a non finire. Diffondono a tappeto una valanga merdosa di mistificazioni, panico immotivato, allarmismi, false notizie, sensazionalismo da quattro soldi giocando come il gatto col topo con le ansie della gente tappata in casa. Gente comune. Gente inerme. Gente passiva. Gente evirata di giudizio critico dopo decenni di TV commerciale, Quiz a premi o telegiornali che sembrano piuttosto televendite del cazzo. Gente in perenne stato confusionale.

Colgo quindi l’occasione per tradurre e pubblicare qui di seguito un pezzo di Tim Harford editorialista del Financial Times, uscito pochi giorni fa sul The Atlantic. Harford trae un po’ le conclusioni sul tema inquietante del vero e del falso, della fede o del dubbio indiscriminati. È un articolo sul veleno del cospirazionismo dilatato in America quindi espanso nel mondo intero come un cancro ai polmoni del pianeta. È una riflessione ponderata sulla pandemia morale, sugli abusi pianificati della negabilità illimitata che hanno inquinato ormai definitivamente l’ecosistema della comunicazione globale a furia d’esercitare uno scetticismo malato e acritico, incapace di autoanalisi. Soprusi cognitivi che deformano in fabbriche di menzogna non solo chi l’informazione (cioè la disinformazione) la crea e la diffonde (i mass media) a favore dell’opinione pubblica, ma anche chi l’informazione la interpreta e la subisce, cioè i lettori critici (sempre più pochi) e i fruitori/propagatori di bufale/fake news sui social o i siti online (in vertiginoso, angoscioso aumento).

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Quello a cui i cospirazionisti non credono

Distinguere un dubbio eccessivo da una convinzione eccessiva può aiutarci a spiegare come riportare un cospirazionista alla realtà.

Alcune persone credono nelle cose più straordinarie. Che la terra sia piatta, che il GPS degli aerei siano truccati per indurre i piloti a credere il contrario. Che i vaccini per il COVID-19 siano un pretesto per iniettare microchip che controllano il pensiero in tutti noi. Che il vero presidente degli Stati Uniti è ancora Donald Trump…

“Come può una persona sensata credere a questo paccottiglia?” è una domanda che viene abbastanza naturale. Tuttavia non è questa la domanda più urgente da porsi. I teorici della cospirazione credono a idee strane, vero. Ma queste convinzioni stravaganti poggiano su solide fondamenta di incredulità.

Per pensare che Trump sia ancora il presidente degli Stati Uniti, come fanno alcuni nel movimento QAnon, devi esercitare il dubbio radicale. Devi dubitare del giornalismo praticato da qualsiasi mezzo di comunicazione mainstream e di qualsiasi credo politico; devi dubitare di tutti gli esperti e delle élite politiche;  devi mettere in dubbio la magistratura, l’esercito e ogni altra istituzione americana. Una volta che hai completamente screditato tutti loro, solo allora puoi iniziare a credere nei signori delle lucertole, nei profeti alieni o che l’ascensione di Trump sia praticamente dietro l’angolo.

Il confine tra dubbio eccessivo e credenza eccessiva è una distinzione senza differenze? Non credo, perché è una distinzione che ci aiuta a spiegare come riportare un cospirazionista alla realtà. Bisogna riconoscere che un cospirazionista è una persona che già diffida di ciò che dicono le fonti più autorevoli. Si dovrebbero porre domande tranquille, invitando il teorico della cospirazione a spiegare e a riflettere sulle sue convinzioni, piuttosto che avanzare prove o citare gli esperti. Però le prove e gli esperti, ricorda, sono esattamente ciò che il cospirazionista ha già rifiutato in partenza.

Quando qualcuno ha deciso di ignorare i fatti ovvi, ripeterli non lo persuaderà a trovarne il senso. Ma quando alle persone gli si concede tutto il tempo e lo spazio per spiegarsi, possono pian piano iniziare a individuare le lacune nelle proprie conoscenze o argomentazioni. Gli psicologi Leonid Rozenblit & Frank Keil hanno coniato l’espressione “l’illusione della profondità esplicativa” per riferirsi al modo in cui la nostra sicurezza di sé si accartoccia quando siamo invitati a spiegare idee apparentemente semplici.

L’attenzione all’eccessiva credulità distrae dal problema del dubbio eccessivo, che è ovunque nel nostro moderno ecosistema dell’informazione. Siamo tutti capaci di fare ragionamenti coerenti, di credere a ciò che vogliamo credere. Ma siamo anche tutti capaci di dubitare di ciò in cui vogliamo dubitare, e le ricerche hanno scoperto che il ragionamento coerente ha un potere speciale quando assume la forma del dubbio.

Un paio di decenni fa, gli psicologi Kari Edwards & Edward Smith hanno condotto un esperimento in cui hanno chiesto ai loro soggetti di leggere semplici discussioni su argomenti politicamente delicati quali la pena di morte. Hanno quindi invitato queste persone a produrre ulteriori discussioni e contro-argomentazioni. Non sorprende che Edwards e Smith abbiano scoperto che i preconcetti sono determinanti: le persone trovavano più facile discutere nella corrente di pensiero delle loro convinzioni precedenti.

Ancora più sorprendente era che questo pregiudizio fosse più evidente quando i soggetti si ponevano all’attacco, cercando di confutare un argomento che non gli piaceva, rispetto a quando invece stavano soppesando argomenti che erano inclini a difendere. Quando cercavano di confutare una posizione sgradita, trovavano utile fare lunghi elenchi di motivi per dubitarne. L’incredulità scorreva liberamente e il pregiudizio in ciò che le persone rifiutavano era molto più chiaro del pregiudizio su ciò che accettavano.

I propagandisti hanno capito da tempo questa stranezza della psicologia umana. Negli anni ’50, quando Big Tobacco dovette affrontare prove crescenti che le sigarette erano mortali, l’industria trasformò il dubbio in un’arma. Rendendosi conto che i fumatori desideravano ardentemente credere che la loro abitudine non li stesse uccidendo, Big Tobacco concluse che l’approccio migliore non fosse quello di provare a dimostrare che le sigarette erano sicure. Piuttosto, avrebbe semplicemente sollevato dubbi sulle prove emergenti che le sigarette fossero pericolose. La famosa “Dichiarazione di Frank ai fumatori di sigarette” del 1954 riuscì a sembrare socialmente responsabile e allo stesso tempo rassicurò i fumatori che “i ricercatori hanno pubblicamente messo in dubbio” l’importanza delle nuove scoperte.

Mettere in discussione pubblicamente le cose è ciò che fanno da sempre i ricercatori, ma questo non importava. Il messaggio astuto dall’industria del tabacco ai fumatori era: “Tutto questo è complicato ma noi presteremo tanta attenzione in modo che non debba farlo tu”. Quando ci troviamo di fronte a prove sgradite, non abbiamo bisogno di molte scuse per rifiutarle.

Trump sembrava canalizzare questo flusso di pensiero quando ha sfruttato prontamente un panico morale su alcune storie palesemente stupide – “false notizie” – creando uno slogan per diffamare i giornalisti più seri. Mentre noi dei media ci torcevamo le mani alla sola idea che la gente potesse credere che il Papa avesse appoggiato Trump, Trump stesso si rese conto che il vero pericolo – e per lui, la vera opportunità – era diverso. Non che la gente credesse in simili sciocchezze, ma che si potesse convincere a non credere a un giornalismo autorevole e accuratamente selezionato.

Deepfakes“, la tecnologia che crea filmati plausibili di persone che dicono e fanno cose che non hanno fatto, forniscono una lezione simile. (In questo momento sembrano spopolare i deepfakes di Tom Cruise.)

Una ricercatrice ha rassicurato Radiolab che “se le persone sanno che esiste una tale tecnologia, allora saranno più scettiche”. Potrebbe forse sbagliarsi su questo, ma sono più preoccupato che abbia ragione – che i deepfakes creino cioè un mondo di negabilità illimitata. Qualsiasi cosa dici, qualsiasi cosa fai, anche se le telecamere ti stanno riprendendo, puoi sempre affermare che non è mai successo. Non siamo ancora a questo punto, ma la traiettoria non è certo rassicurante.

I giornalisti devono prendere più seriamente il problema del dubbio armato. In particolare, quei gruppi che controllano i fatti, come PolitiFact, FactCheck.org e Snopes, devono fare molta attenzione a non alimentare il cinismo. Il rischio è di creare la sensazione che le bugie siano onnipresenti, motivo per cui i migliori verificatori dei fatti dedicano tanto impegno a spiegare ciò che è vero quanto a smascherare ciò che è falso.Cover-1

L’ultimo ammonimento qui è il classico del 1954 di Darrell Huff, How to Lie With Statistics (Come mentire con le statistiche). Il libro di Huff è intelligente, perspicace e malizioso, e potrebbe essere il libro di statistiche più venduto mai scritto. È anche, dall’inizio alla fine, un avvertimento continuo che le statistiche riguardano solo la disinformazione e che non si dovrebbe crederci più che a uno spettacolo di magia. Huff finì per testimoniare in un dibattito pubblico al Senato che le evidenze che correlavano fumo e cancro erano tanto pretestuose quanto le prove che collegano le cicogne ai bambini. Il suo seguito inedito, How to Lie With Smoking Statistics è stato sovvenzionato da un gruppo di lobby del tabacco.

Sì, è facile mentire con le statistiche, ma è molto più facile mentire senza di esse. È pericoloso avvertire che le bugie sono universali. Lo scetticismo è importante, ma dovremmo riconoscere con quanta facilità può raggomitolarsi nel cinismo, un rifiuto riflesso di qualsiasi dato o testimonianza che non si adatta perfettamente alle nostre idee preconcette.

Gli eventi del 6 gennaio ci hanno mostrato che il pensiero complottista può avere gravi conseguenze. Ma non si tratta solo dei teorici della cospirazione. I tratti psicologici che conducono alla tana del coniglio della teoria della cospirazione sono in una certa misura presenti nella maggior parte di noi. A tutti noi piace ascoltare le persone che sono d’accordo con noi. Siamo tutti inclini a rifiutare prove indesiderate. Siamo tutti più coinvolti da storie drammatiche che da crudi dettagli politici. E a tutti noi piace sentire che abbiamo intuizioni del mondo che mancano agli altri. A nessuno piace sentire di essere presi per stupidi, quindi dubitare presto e spesso può sembrare la cosa più intelligente da fare. E se vogliamo pensare con chiarezza al mondo, lo scetticismo è una buona cosa.

Ma è possibile averne troppe di cose buone. La fede indiscriminata è preoccupante, ma il dubbio indiscriminato può essere anche peggio.

TIM HARFORD

Domeniche a Basilea

18 Marzo 2021
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Riprendo in mano la mia vecchia copia de L’Educazione Sentimentale (Gli Struzzi 60 – Einaudi) “Il romanzo dell’illusione”.

Nelle ultime pagine, il paio di pagine lasciate in bianco dopo l’elenco degli altri 59 titoli pubblicati nella collana Gli Struzzi, difatti questo di Flaubert era il numero 60, ritrovo scarabocchiato a matita un appunto di viaggio, un abbozzo dal vago sapore impressionista. Sono passati nove anni, ero in Svizzera per motivi di lavoro, frequentavo una fiera di vino che si svolgeva due volte l’anno, una in primavera l’altra in autunno.46A5221D-FDDB-491E-8182-2D939058F501

Questo che segue è l’appunto che ho dovuto decifrare manco fosse un geroglifico nonostante l’abbia scritto io, un io ormai vecchio di quasi dieci anni. Un io illusorio come è quello attuale o sarà quello futuro.

Domenica a Basilea

Il Reno si trascina orizzontale lungo le abitazioni e le chiese di Basilea, sui ponti scorrono i tram verdastri. Trasversalmente, a intervalli di pochi minuti, chiatte merci risalgono la corrente. Sulla banchina uomini e donne corrono, a piedi e in bicicletta. In fondo alla direzione del fiume, dal boccalone della ciminiera sbuffano sbocchi di fumo nero, è l’inceneritore mentre aggrega montagne di nuvole che ritorneranno al Reno sotto forma di pioggia tossica. 
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Nella valle oscura di Internet

4 Marzo 2021
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Nella valle oscura di Internet
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L’Adelphi è una casa editrice con i piedi ben saldi nella cultura libraria europea ed un catalogo editoriale enciclopedico d’impressionante profondità culturale. Titoli intrisi di vertiginose raffinatezze filosofiche radicati nella tradizione occidentale ed orientale del passato se non addirittura nell’eterno, non stridono con la curiosità onnivora dell’editore che ha sempre le antenne ritte pronte a captare le redditizie novità editoriali del momento assieme agli umori conoscitivi o alle esperienze liminari della contemporaneità, lo Zeitgeist come si diceva un tempo, al fine di leggere un presente incerto per comprendere, chissà, il futuro abissale.
Alcuni dei titoli che tentano di riordinare la complessità caotica del mondo ipertecnologico in cui viviamo, un mondo a quanto pare che sempre più subiamo invece di agirlo, sono La vita segreta di O’Hagan, Essere una macchina di O’Connel, Storie dal mondo nuovo di Rielli, Spillover di Quammen.
Ultimo questo La valle oscura di Anna Wiener a completare idealmente con gli altri titoli un mappamondo inquietante dell’attualità nell’epoca dei terrapiattisti. Intendiamoci, non è il Diario dell’anno della peste (1722) di Defoe, e delle trecento pagine di cui è composto almeno la metà potevamo farne tranquillamente a meno, chiacchiericcio insulso tanto per allungare il brodo anche se sospetto proprio quello stesso chiacchiericcio insulso sia rivelatorio, involontariamente, dello spirito dei tempi di cui sopra. Tutto sommato Uncanny valley, come suona il titolo originale, è un buon memoir, una cronaca piuttosto onesta della generazione millennials, quella che segue la generation X e i baby boomers, abbagliati dal feticcio dell’efficienza paranoica come valore fondativo, autosacrificati a sangue sull’altare dell’economia dell’attenzione. Una generazione totalmente condizionata dalla tecnologia digitale e dall’elettronica il cui scopo utopico è sì il miglioramento delle attività umane, l’ottimizzazione del lavoro e del tenore di vita ma che nella realtà si sta sempre più rivelando quale incubo distopico che monetizza brutalmente la privacy, schiavizza l’individuo, robotizza la psiche, controlla le vite altrui attraverso la biometrica e il biohacking, mercifica il tempo libero, distrugge l’attenzione del cervello attraverso l’uso all’apparenza giocoso (gamification) di app e social network, veri e propri strumenti di distrazione di massa asserviti dall’ossessione diffusa principale per il successo e per i soldi. Senza dimenticare che le origini oscure di Internet affondano le proprie radici nella ricerca della difesa e strategia militare sempre ravvivate dall’algoritmo implacabile: più guerra più business.
“(…) il tech che non era progresso ma soltanto business”
A rileggerlo già solo tra una decina di anni – che per gli schemi mentali della tecnologia equivalgono a ere geologiche – questo testo rimarrà forse come un documento epocale che trasfigura la stessa tristezza cosmica di film quali Blade Runner (1982), Matrix (1999) o Her (2013).
“Le piattaforme social erano pervase dall’intero spettro delle emozioni umane: un flusso ininterrotto di dolore, gioia, ansia, banalità”
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Sono svariati i punti d’interesse del libro che testimonia in tempo reale la mutazione antropologica di una generazione fottuta dalla crescita a ogni costo, dagli algoritmi e dalla smartphonite – i millennials appunto – riprodotti in serie come polli da batteria dall’industria Tech nella “terra promessa per i lavoratori della conoscenza del nuovo milennio”.
L’elemento più evidente d’interesse è che questo diario nell’inferno patinato di silicio e cobalto sia stato scritto da una donna in un ambiente ad alto tasso testosteronico/fallocentrico a predominanza cioè di bianchi californiani nativi digitali nutriti a barrette proteiche, energy drink, videogames e frutta secca, che incarnano alla perfezione le tendenze autodistruttive del settore tech. La nuova élite dei nerds al potere formata da aggressivi multimilionari, baby-tiranni lobbisti e venture capitalist (VC) già a vent’anni.
Deprimente il paragone del mondo borghese bohémien di provenienza che l’autrice protagonista si lascia alle spalle a New York, la giungla d’asfalto dei paleo-sfigati radical chic dell’editoria underground, a confronto con l’ambiente tutto startup, clouds, software, criptovalute, big data, yoga anti-stress, danza new age e milioni facili della Bay Area nella tecnocratica San Francisco. È un raffronto impietoso tra la sua formazione umanistica priva di precise competenze tecniche “spendibili” nel mercato e l’ambito rapace degli sviluppatori di programmi, degli ingegneri informatici, degli scienziati dei dati che sviluppano il “codice” creando di fatto un mondo virtuale che è poi la realtà concreta dei nostri giorni organizzata da motori di ricerca, inserzionisti per le pubblicità online, intelligenze artificiali, robotica, monopolizzata dai colossi della new economy nella Silicon Valley autocompiaciuti da contenuti cospiratori, bufale e disonformazione perenne. L’autrice prende coscienza di un legittimo accoramento di rabbia e dolore collettivo ma disperso nel nulla da parte degli indigeni di San Francisco e di New York nei confronti della gentrificazione urbana che massifica esseri animati, vegetazione e cose. Un condensato di frustrazione e risentimento generato nella scrittrice e rivissuto di riflesso dai lettori, davanti allo strapotere d’acquisto delle startup finanziare ultra-redditizie con capitali di rischio nei confronti del lavoro creativo o artistico a zero rendimento economico.
“La Silicon Valley forse promuoveva uno stile di vita individualistico, ma su scala larga generava uniformità.”
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Dove Bret Easton Ellis in American Psycho appioppava un’etichetta di brand del luxury a qualsiasi persona svilendo di fatto gli individui a merci tra tante dell’alta finanza – era l’epopea anni ‘80 dello yuppismo rampante di Wall Street ad alto tasso di dollari, marchi firmati e cocaina – qua l’autrice/protagonista del memoir utilizza lo strumento retorico della parafarsi – forse anche per evitare denunce e ripercursioni – senza mai nominare neppure una volta il nome delle compagnie “unicorno” di cui racconta, così che Facebook diventa “il social che tutti odiavano”; o Amazon con Jeff Bezos “un grande negozio online che aveva aperto negli anni Novanta vendendo libri sul web – non perché il fondatore amasse i libri e la letteratura, ma perché amava i consumatori e il consumo efficiente…”; oppure Google: “(…) la svolta imboccata dal colosso dei motori di ricerca, da archivio accademico della conoscenza globale a gigante della pubblicità”.
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La filigrana malinconica che si sfilaccia lungo tutto il memoir è questa discrepanza interna nella sensibilità dell’autrice – che è poi la contraddizione intima di un’intera fascia generazionale devastata da un innato senso di colpa genetico – tra la vocazione personale a un lavoro culturale stabile che più corrisponda alla sua vocazione d’affermazione sociale ma che non ripaga né in termini economici né in senso di appagamento professionale, e il patto col diavolo con le società tech del Software tritacarne, il “nemico oscuro” per cui lei ha collaborato durante i suoi anni di formazione e crescita dove si smarrisce il confine dalla parte di chi sorveglia e di chi è sorvegliato, dove non mancano certo né soldi né prospettive di carriera, almeno finché l’elettricità dura (leggi l’ultimo, apocalittico DeLillo, Il Silenzio).
“L’industria tecnologica mi stava rendendo una perfetta consumatrice del mondo che essa stessa stava creando.”
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Clyde Fans capolavoro a fumetti sulla memoria il progresso il fallimento

21 Ottobre 2020
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Clyde Fans è un graphic novel di grande intensità emotiva cresciuto negli anni assieme all’esperienza interiore e alla maturità artistica dell’autore canadese. È difatti un romanzo per immagini (romanzo grafico) a cui Gregory Gallant in arte Seth ha lavorato a “spizzichi e bocconi” per venti anni. Questo libro a fumetti di culto andrebbe salutato come un vero e proprio evento editoriale anche oltre i confini del circoscritto mondo della narrativa disegnata. L’edizione definitiva in lingua originale è uscita nel 2019 per Drawn and Quarterly, in Italia è stato pubblicato grazie al lavoro sempre accurato della Coconino Press.

Questo eccezionale romanzo per immagini si struttura in 5 parti che dal 1957-1997 ricoprono 40 anni di vita dei fratelli Matchcard, un nome composto dalle parole match e card, in cui è già contenuto in nuce il destino dei due personaggi fatti di cenere (fiammifero e carta). Clyde Fans, dalle fiamme alle ceneri, racconta la storia malinconica di un’impresa commerciale specializzata in ventilatori elettrici, fondata da Clyde, padre dei due fratelli Abraham (Abe) e Simon Matchard. Un padre assente, che ha lasciato i due fratelli quando erano ancora bambini. Questa assenza è il centro gravitazionale, il vuoto magnetico primordiale attorno a cui ruota tutta la triste parabola dei fratelli Matchard e della loro madre abbandonata giovane dal marito.IMG_0791

Se il carattere delle persone è il loro destino, Clyde Fans in effetti è la parabola a tutto tondo di un destino d’incompiutezze interiori e fallimenti correlati: il fallimento dell’attività commerciale che non sa adeguarsi al cambio dei tempi quando i ventilatori elettrici vengono sostituiti dall’aria condizionata; il fallimento di Abe, mediocre eppure abile procacciatore d’affari, commesso viaggiatore dalla vita sentimentale disastrata; il fallimento esistenziale di Simon dai nervi fragili, inetto alle relazioni sociali sempre più chiuso in sé e sprofondato nel suo labirinto psichico fatto di cartoline bizzarre, oggetti animati, visioni mistiche; il fallimento del capitalismo occidentale tout court.IMG_0788IMG_0789Nell’arco di questi 40 anni oltre ai due protagonisti della storia vediamo scorrere tutta una folla di cose, una moltitudine dolorosa di case e persone: cameriere di tavole calde, squallide camere d’hotel, sale d’ospizi, oggetti distinti pure se immersi in un mondo anonimo cosparso da una luce soffusa di blu e nero, reso miracolosamente da un’illustrazione raffinata – tributo all’epoca d’oro del design -, e da un taglio grafico geniale che, come già detto, si è dilatato in due decenni, di pari passo con la maturità stilistica dell’autore.

Seth racconta che la scintilla gli è scattata davanti a un locale chiuso da anni a Toronto, con la scritta Clyde Fans sull’insegna. La faccia schiacciata sulla vetrina, lo sguardo interiore è penetrato come in una lampada magica dentro quell’ufficio polveroso e dai ritratti appesi al muro di due figure maschili la realtà inorganica annidata nelle pieghe del passato si è animata, ha cominciato a vivere di vita propria grazie alla fantasia alchemica dell’artista. È man mano così avvampata nella sua testa tutta la storia dei due fratelli Matchard. Ha continuato a proliferare come la leggiamo ora, dall’immaginazione creatrice dell’autore alle pagine di carta, la storia di Clyde Fans che insegue ossessivamente le vite ordinarie dei due fratelli racchiusi nel proprio guscio protettivo; ricostruisce il destino stesso di una città, di tante megalopoli tutte uguali a se stesse sprofondate nel disagio metropolitano fatto di ottusa aggressività commerciale, alienazione urbana, abbandono architettonico, superflue competizione sul mercato, relazioni umane finte, molto spesso sfuggenti o superficiali anche se profonde all’apparenza.IMG_0797Da questa tesserina minima di realtà canadese, il nome del negozio stesso tra King Street e Sherbourne Street, Seth crea un mosaico di invenzione prodigiosa più vera del vero, che è allo stesso tempo una struggente verità domestica e universale, cioè l’amore mancato tra il padre e la madre dei fratelli Matchard che si diffonde come una nube funesta sulle loro esistenze adulte spezzate tra la frenesia irrazionale della quotidianità esterna e l’irrealtà difensiva della solitudine appartata, oscurandole fino alla tristezza, allo squilibrio mentale, all’impotenza.

Leggendo e rileggendo queste tavole stupende, veniamo come risucchiati dal microcosmo sottomarino illustrato di Clyde Fans. Un buco nero, una feritoia dentro a un muro, un piccolo mondo infinito al rallentatore, gelido e desolato, teatro eterno della lotta dis-umana fra progresso e fallimento, dove sembra sempre autunno o inverno e non passerebbe mai per a testa di utilizzare un ventilatore elettrico anzi d’istinto vorremo solo un camino acceso accanto, un bicchierozzo di cognac d’annata e continuare a farsi assorbire l’anima dalle malinconiche seduzioni per il passato create dal tocco magico di Seth artista folgorante, romanziere, fumettista del XXI secolo.IMG_0792IMG_0793

Austerum e Sordidum: le due facce della vita come del vino

9 Dicembre 2019
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(…) aveva l’aria di una persona estremamente precisa e pulita, solo che quella pulizia  poteva anche essere sporca…

Witold Gombrowicz, Cosmo
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Austerum e Sordidum: le due facce della vita come del vino
Austero e sordido oltre che due attributi ancestrali riferiti al vino nei primi prontuari agronomici dell’antichità, sono soprattutto delle categorie spirituali: gradazioni di personalità dell’essere umano, generi psicologici ben definiti che indicano una precisa prospettiva esistenziale. Sordido e austero sono due distinte Weltanschauung, cioè visioni del mondo. Certo le cose si fanno assai più complicate quando, pensando a un vino di particolare equivocità, potrebbe addirittura venire in mente di definirlo sordidamente austero o austeramente sordido. Se poi accantoniamo per un attimo il vino e passiamo alle nostre vite, chi di noi non ha sperimentato almeno una volta quel sentimento serpeggiante tra la doppiezza e l’ambiguità che ci fa sembrare perfino ai nostri stessi occhi una maschera sordida-austera allo stesso tempo?62F72706-D785-4B9C-A32A-9A44B290C44A
Dalla lettura di un libretto assai curioso ricavo quest’informazione di cui non sapevo nulla circa l’invecchiamento indotto dei vini in epoca romana antica. Il tema di fondo del paragrafo che leggevo tratta il vino e le tecniche primordiali di conservazione per evitare l’inacidimento.
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“(…) poi qualcuno scoprì un ingegnoso (e supponiamo, redditizio) sistema per invecchiarlo artificialmente. Il fumo delle caldaie dei bagni e dei fornelli della cucina era convogliato in una camera, molto ben esposta, spesso sovrastante il locale dei bagni stessi, in cui erano sistemate le anfore. Fumo e calore <<affrettavano>> l’invecchiamento; il calore, soprattutto, accelerava le reazioni chimiche. Il vino così affumicato e riscaldato era dunque divenuto <<vecchio>> pur essendo giovane. E, come anche oggi spesso accade, il vino trattato così artificialmente incontrò il favore dei consumatori al punto che, nell’epoca imperiale, di vino ad invecchiamento naturale era ben difficile  trovarne. Si osservò con molta meraviglia che il vino così trattato non inacidiva più: gli antichi enotecnici avevano scoperto la pastorizzazione.”
Oberto Spinola, Il Museo Martini di Storia dell’Enologia (Contessa Editore, Torino)
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La produzione del vino procede di pari passo con il progresso e l’imbarbarimento ahimè della civiltà; è un prodotto che origina dalla fusione/confusione nel tempo e nello spazio di Natura e Cultura (leggi Tecnica).
Avrei voluto impostare il post in chiave più polemica come al solito, per dire “passa il tempo ma l’attitudine umana bivalente a prendere per culo e farsi prendere per il culo resta inalterata…”, ma poi ho riflettuto con maggior ponderatezza anche sul desiderio legittimo dell’umanità di conservare il proprio cibo e le proprie bevande in modo da non farli andare a male; allora si comprende meglio la nostra fragilità di specie, peggio di quella dei moscerini quasi, che per molti enotecnici scrupolosi non sia mai s’accostano al vino per tramutarlo in aceto (o è l’aceto a produrre i moscerini?). Meglio dunque che lo adulteriamo, sterlizziamo, neutralizziamo noi il vino all’origine, in tutte le sue componenti vive e problematiche, elaborando fino ai nostri giorni tecniche di sofisticazione sempre più raffinate che infine, con l’ausilio delle nanotecnologie arriveremo – come siamo già arrivati – a programmare, a riprodurre qualsiasi gusto, sensazione, nuance o microsentore organolettico desiderato, reale o immaginario, nel Bordeaux ai Raggi Gamma del futuro prossimo.
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Alcuni direbbero che abbiamo il privilegio ozioso di permetterci troppe masturbazioni mentali vanesie quando bisognerebbe semplicemente tornare al vino buono, al vino sincero. Tornare a modi antichi d’intenderlo con più schiettezza in tutta la sua ”facilità” senza sovrastrutture verbose, raggiri da bottegai, scorreggine poetizzanti o altre spericolate peripezie linguistiche.
Eppure anche generosum, austerum, pretiosum, severum sono definizioni antiche relative al vino, ciò nonostante  l’abuso manipolatorio farmaco-enologico ha mutato tutto ciò, il generoso, il prezioso, il severo, nel suo esatto contrario. Oggi perciò è molto più facile avere a che fare con il vino sordidum, vile, crassum o imbecille esattamente come certuni che lo producono, promuovono, commercializzano.
Ma siamo pur sempre figli della nostra epoca sovrastrutturata, complessa (complessata?) per cui bontà, schiettezza, sincerità sono merce rara che dobbiamo cercare invano col lanternino nel tunnel di una contemporaneità dominata dall’industria alimentare, adulterata dall’ingegneria enologica, in ogni sua più recondita piega. E poi è quasi certo, non ci piove, che in quel tunnel dove arranchiamo col lanternino, il treno implacabile del Progresso a tutti i costi ci travolgerà senza pietà come bestie inattuali, fuori luogo e fuori tempo massimo.
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Nei fatti che riguardano le impressioni puramente personali come nella critica d’arte, nella letteratura, così nella descrizione del vino, rimaniamo pur sempre invischiati nell’alone di giudizi/pregiudizi soggettivi che pretendono assai spesso d’assurgere a statuto d’oggettività scientifica evidente, valida per tutti gli altri, indiscutibile. Basta osservare la gran parte della cricca critica dei tromboni sfiatati, i quali continuano imperterriti ad attribuire a parcella di contropartita: stellette, bicchierozzi e faccioni da ciolla. Tuttavia, nel nostro piccolo mondo antico di “assaggiatori militanti” che provano a non essere collusi con tornaconti personali e conflitti d’interesse troppo smaccati, tendiamo a valorizzare le sgrammaticature quando sono, come dire, intenzionali, consapevoli d’esserlo, quando cioè “i difetti” o le “puzzette” non sono insomma attitudini modaiole e pose naïf. Anche perché a furia di essere sommersi dai vini artificiosi fabbricati in cantina con abuso di ingredienti farmaco-enologici ed edulcoranti vari, quasi quasi preferiamo annasare gl’aceti di vino, gorgheggiare, sbicchierare e sputacchiare il vino che sa d’aceto, fanculo ai vini di pregio sterilizzati sul nascere già a partire dall’uva in vigna!

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Corrado Cagli, La Lanterna (1949)

Nessun assaggiatore però, militante o meno che sia, dovrebbe mostrare d’avere la tracotanza di stabilire niente di Supremo, che non sia già in qualche modo inscritto nel suo palato sempre in fieri che è – ci si augura – volubile, fluttuante, in continua trasformazione, così come in perenne mutamento, inafferrabile è il vino vivente nella metamorfosi del suo farsi, darsi e disfarsi. L’intenzione di cui io parlo è solo nel bicchiere mezzo pieno infatti, in relazione a noi che lo gustiamo, non nelle chiacchiere di chi lo ha fatto; eventualmente nello sguardo del vignaiolo che al limite suggerisce più cose oggettive delle stesse parole dette ma subito svaporate nell’aria.

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Il genio del terreno, l’unicità inimitabile dell’annata, l’inafferrabilità della natura cioè la sfuggenza della vita. I capricci, le esuberanze della fermentazione spontanea meritano talento, prudenza, saggezza, stupore sia da parte di chi fa il vino che da parte di chi il vino lo consuma lentamente, con cognizione concentrata, partecipazione ecologista e leale austerità.
Certo che desideriamo bere in santa pace solo il vino austerum tuttavia dobbiamo commisurare noi stessi, i nostri simili, la nostra epoca aspra come aspra è stata ogni epoca per chi l’ha passivamente subita nei secoli. Dobbiamo scontrarci con l’altro da noi, pur se restii, accantonando stati d’ansia e angosce esistenziali. Non possiamo insomma non affrontare la cartina al tornasole del vino sordidum e con essa tutta la sordidezza di troppa enologia d’accatto a fondamento d’un sistema economico del settore food and wine costituito d’accattoni che predicano bene ma razzolano male: dalle cattedre universitarie alle testate giornalistiche, dai corsi di degustazione, alle sale dei ristoranti, bistrot ed enoteche.
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“Rimasto un mistero fino a Pasteur, il processo di fermentazione del vino non è tuttavia stato ancora chiarito del tutto. L’enologia moderna si crogiola nell’illusione che un rigoroso controllo delle temperature e l’impiego di lieviti selezionati e clonati siano sufficienti a evitare i capricci e le esuberanze della vita.
Essi riescono solo a creare dei vini tecnologici, senz’anima, privi di ogni seduzione. La grande arte dei buoni vignaioli è di saper restituire nel loro vino il genio del terreno e dell’annata. Oggi sappiamo che i fermenti naturali possono dare i risultati più complessi e più sfumati. Il talento, la prudenza e la saggezza dei viticoltori si uniscono così allo stupore dei credenti che perpetuano i culti della vita.”
Jean-Robert Pitte, Il vino e il divino (Palermo, Sellerio 2012)EABBD430-7E79-4433-B1FB-9AE08195ABC5

L’ecologia del pianeta in vigna a Cupramontana

11 Novembre 2019
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L’albero che guarda lo sciocco non è lo stesso albero che guarda il sapiente.

William Blake

L’ecologia del pianeta in vigna a Cupramontana

L’ultimo libro di Corrado Dottori, Come vignaioli alla fine dell’estate. L’ecologia vista dalla vigna, pubblicato quest’anno da DeriveApprodi

Già dalla prima lettura si srotola felicemente quasi come il diario di bordo d’un capitano di lungo corso solo che al posto della nave, delle vele ammainate e del mare azzurrino abbiamo i vigneti, la campagna, la cantina.

Di fatto è un prontuario di azioni agricole e contemplazioni socio-politiche. Un vero e proprio registro giornaliero di un ciclo solare. Il giornale di viaggio di un’annata viticola alla fine del secondo decennio del XXI secolo da La Distesa Cupramontana in provincia d’Ancona proiettato verso l’universo in espansione irreversibile nell’era del Capitalocene e della biodiversità perduta. Un anno in cui purtroppo sono venuti a mancare due vignaioli ispiratori per l’intero movimento denominato di Resistenza Naturale: Beppe Rinaldi e Stefano Bellotti. Due pilastri anarchici della contro-cultura enologica e della naturalità del vino traboccante di caos creativo e armonizzato nei o addirittura dai “difetti”. Naturalità in senso estetico perché vino pregno di sublime, di complessità, di paesaggio, d’esseri umani, di contaminazioni, di caso, di genuino, di necessità, d’esperienze, di bellezza, di grazia.

Il diario lavorativo d’un anno vendemmiale che comincia a ottobre e termina a novembre dell’anno successivo. Il quaderno in cantina di un vignaiolo marchigiano utopista, stanziale eppure giramondo nell’epoca della globalizzazione più spinta. Un vignaiolo intellettuale, quanto mai curioso del micro e del macro-cosmo che lo circonda e di chi lo abita, a 360 gradi: minerali, vegetali, animali e anche umani. Un vignaiolo cittadino del mondo, concentrato sì sulle questioni vitali al suo mestiere antico – raccolta, arte della potatura, trattamenti, cicli lunari, vinificazioni, lieviti indigeni, fermentazioni spontanee, macerazioni, rimontaggi, travasi, sfecciature, selezioni massali, maturità fenoliche, cloni, umificazione dei suoli, biotipi, imbottigliamenti, registri informatici, commercializzazione del prodotto – ma anche infervorato dalla vita o forse sarebbe meglio dire dalla morte della politica non solo italiana bensì mondiale, su cui prende posizioni nette di autodifesa dalla barbarie del sistema economico-mondiale odierno. Basta snocciolare la ben nutrita bibliografia alla fine del libro per radiografare una filigrana composita, densa di molto materiale di studio inerente agli svariati ambiti della ricerca intellettuale più aggiornata da cui traspirano interessi di vasta portata non solo strettamente correlati alla viticoltura sostenibile: economia, antropologia, biologia, filosofia, tecnologie e scienze informatiche, biodinamica, scienze sociali, ecologia, permacultura, urbanistica… Tutte discipline connesse in maniera attiva e partecipe alla meditata scrittura del diario. Pagine innervate dalla curiosità sana e fanciullesca del diarista Dottori che ridisegna in queste sue accorate meditazioni domestiche e multiculturali, alcuni scenari planetari tra i più insidiosi. Dal generale della mutazione genetica di un ecosistema digitale-informatico sempre più invorticato su di sé, al particolare delle piante di Verdicchio acclimatate sull’appennino marchigiano. Tesi e antitesi di una visione dialettica della realtà in cui la sintesi soggettiva è oggettivata da quel suo punto di vista privilegiato di vignaiolo ormai adulto e militante incarnato all’intelligenza vegetale della vigna che è sicuramente più elastica, più collettiva e più intelligente di noi bipedi.

Scrive Corrado in data 6 Luglio: “Da una vigna puoi capire molto bene alcune questioni del contemporaneo.”

Un “contemporaneo” insomma, una “dittatura del presente” che accorpa in sé tutta la complessità dell’esistente e che fa sentire l’individuo sempre più solo, abbandonato a se stesso, inerme. Catastrofi ambientali, insostenibilità delle risorse naturali, cambiamento climatico, antropocene, intelligenza artificiale, industrializzazione/omologazione del gusto, diseguaglianza economica, immigrazione globale, razzismo dilagante, mercati finanziari, consumismo selvaggio, sovranità nazionali.

Diciamo subito che tutte queste inesauribili tematiche “umane” compongono un humus di problemi irrisolvibili. Un patchwork di questioni su cui Dottori argomenta lungo tutto lo scorrere nostalgico ma fiducioso delle pagine di questo suo diario attraversato dal trascorrere dei mesi e dallo scandirsi delle stagioni incorniciate nel quadro delle grandi tematiche “cosmiche”, relative cioè ai processi terrestri di natura chimica e biologica: fertilità del suolo, fotosintesi, fermentazione.250EBA92-0F2B-4DF0-B89C-0B780511456E

La fermentazione esiste da circa 6000 anni, mentre l’illusione dell’uomo moderno di controllare tutto a livello enologico è degli ultimi 100 anni.

Corrado Dottori

Chi non conoscesse Corrado di persona potrebbe incorrere nel peccato d’orgoglio di giudicare in maniera troppo frettolosa questa sua attitudine olistica alla comprensione, all’osservazione filosofica del dettaglio e alla tensione esplicativa verso il Tutto. È una genuina propensione conoscitiva invece verso l’esterno cioè l’altro e verso di sé che ci mostra l’autore, il vignaiolo, il padre di famiglia, denudato nelle sue paturnie più segrete e nelle sue speranze più riposte tra un’attitudine istruttiva/costruttiva al far bene, a tentare tutto il possibile per la custodia del vigneto tramandato e da tramandare. Senza tralasciare una liberatoria quanto ragionevole pulsione al silenzio con tonalità alquanto malinconico-apocalittiche.

“Il mondo del vino è un mondo in cui semplicemente si parla troppo.” (4 dicembre)

“Non ci giurerei che fra cent’anni possa ancora esistere un vignaiolo sul pianeta Terra. Un vignaiolo vero, in carne e ossa, intendo. Non so neppure se esisterà ancora il vino.” (2 febbraio)

“L’inesorabile disordine delle cose, il pessimismo della ragione” o l’infinito sconforto leopardiano – siamo pur sempre nelle Marche – sono parte integrante dei nostri umori e delle nostre vite più o meno alienate tra città che tendono a naturalizzarsi e campagne che vanno via via urbanizzandosi. Quel che traluce soprattutto dal libro però è questa tensione conoscitiva irraggiata d’energia buona al compiersi di un lavoro ben fatto nonostante la lotta contro gli agenti atmosferici avversi (bombe d’acqua improvvise, grandinate, ondate anomale di caldo) e le piaghe stagionali della vite (peronospora, oidio, mal dell’esca, flavescenza dorata). Il gesto giusto del vignaiolo “tra cielo e terra” senza strafare ad aggiungere o a togliere troppo, dovrebbe limitarsi a generare rispetto, cooperazione, cura, tutela e non soltanto negli ambiti del vino ma in senso più aperto possibile nei confronti soprattutto di tutta la società civile coinvolgendo etica, politica, cultura, educazione.

“Solo questo, forse, potrà salvarci: la consapevolezza del nostro essere superflui.” (12 maggio)

E qui il messaggio più engagé di Corrado Dottori nei confronti di una certa frigidezza burocratica o di una non-politica sempre più ottusa, autoriferita e tracotante si fa forte e chiaro in difesa della mescolanza, del meticciato non solo contro i protocolli anacronistici dei disciplinari regionali ma mescolanza soprattutto in senso di specie, di tradizioni, culture, credenze. Meticcio difatti è anche il nome di un suo vino che ricorda, assieme a Valeria: “(…) ci interessava (…) arrivare all’estremo del lavoro iniziato con la mescolanza dei vitigni bianchi: vitigni bianchi e rossi pigiati assieme, pelli che si uniscono e macerano assieme.”

”Meticciato contro identità. Confusione contro purezza.” (18 settembre) 39622DAF-1852-4EDF-94CB-71AC5D387861

Le parti più insofferenti o più amareggiate del diario che traducono una  palpabile onestà intellettuale da parte di chi lo ha scritto, sono quelle relative alla confessione o interrogazione amletica sul proprio mestiere: avere o non avere successo? Crescere o decrescere? Rilasciare interviste a una imboscata televisiva nazionalpopolare, mediocre, manipolatoria e frivola o mandarli sonoramente tutti a cagare? Essere parte di una macchinazione commerciale autocelebrativa, adulatoria e modaiola o farsi da parte in silenzio con spirito sereno? Lottare con fierezza in favore del proprio territorio a valorizzare la propria diversità produttiva e unicità agricola non incasellabile dalle griglie carcerarie della burocrazia col rischio magari di trovarsi la repressione frodi in cantina?

”In fondo, in questi anni siamo finiti a creare prodotti per un mercato globale fatto principalmente dai ricchi del pianeta: mutui, piani di sviluppo rurale, uffici stampa, interviste, premi, social media manager…” (3 settembre)

Il sano spirito utopico anti-capitalistico che soffia un po’ per tutto il libro come una brezza estiva dall’Adriatico verso l’appennino, tonifica la lettura ricordandoci con piglio tanto imperativo quanto ahimè irrealizzabile, che la sola maniera di sottrarsi al circolo vizioso del capitalismo avanzato è sostituire il paradigma della crescita esponenziale, innescando “la rottura della logica economica stessa” (22 giugno). Quasi che questa logica diabolica fosse qualcosa di innaturale e artificioso così come artefatti e innaturali sono la gran parte dei vini perfettini e perciò infernali fabbricati dalla farmaco-enologia contemporanea. Non è il vino dell’enologo è appunto il titolo del precedente libro di Corrado Dottori.

“(…) la viticoltura è solo un altro esempio di organizzazione della natura sotto il segno dell’economia.” (18 settembre)

In quanto Homo oeconomicus, dal momento in cui faccio qualsiasi cosa attorno a me, sono subito intrappolato in un vicolo cieco di contraddizioni paralizzanti. Rinforzo, innesco e partecipo allo stesso Grande Male a cui vorrei fare da freno. Anche se animati da ideali benigni stiamo tuttavia modificando in maniera irreversibile il nostro habitat. Dovremmo quindi limitarci solo a respirare e non dissodare campi, non prendere aerei, non guidare automobili, non produrre il cibo che ci nutre e ci tiene in vita, non scrivere sul laptop come in verità sto facendo io ora in questo istante?

”Il trattore che guido brucia gasolio sviluppando gas nocivi. Le cassette con cui raccogliamo l’uva sono fatte di plastica, cioè da un derivato del petrolio. Durante la vinificazione, per produrre un solo litro di vino, vengono consumati tra i 2 e i 20 litri d’acqua. Le bottiglie con cui immagazzineremo il nostro  prodotto sono il frutto di lavorazioni industriali inquinanti e ben poco  sostenibili. E potremmo continuare con una lista infinita.” (12 settembre)

L’atavico bisogno di crescere, economicamente parlando, per realizzare maggiore libertà individuale, fa in modo che questa maggiore libertà di crescita individuale segna anche la nostra rovina come specie collettiva che consumando il mondo estingue anche se stessa. Se pensavamo potesse risolversi tutto in una spensierata sbicchierata tra amici, l’autore di questo libro ci avverte caustico che abbiamo sbagliato di brutto. Al culmine evolutivo della nostra specie disperata, dobbiamo ora saper guardare con resilienza, con occhi lucidi fino in fondo all’abisso della catastrofe ecologica preparata da un’Economia tritatutto che abbiamo sia subìto che perpetrato, per trovare in noi stessi un modo di arginarla questa voragine che ci separa dalla natura, dalla poesia, dalla verità, dal dono, dal riuso, dall’ospitalità, dalla convivialità, dal riciclo e dalla riconversione ecologica.

In questo mondo che si sta restringendo a colpo d’occhio, sovraffollato da ”capitale umano” e da persone sempre più mercificate, dobbiamo imparare allora a sottrarci come bisce all’esca del capitalismo espansionistico. Dobbiamo imparare a riorganizzarci la vita riducendola all’essenziale evitando come fosse peste la retorica del ritorno alle caverne e senza quelle importune pose social da neo-rurali radical chic.

“Fermi sulle rovine, ma vivi.” (4 novembre)

Impariamo quindi ad “abitare la casa”, dove la casa è il mondo intero abitato non solo da noi antropocentrici, ma da tutti gli altri: minerali, vegetali, animali e, forse, anche gl’umani.

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Enologia del passato e omologazione attuale

9 Maggio 2019
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La filosofia insegna ad agire, non a chiacchierare, ed esige che ognuno viva secondo i propri principi affinché la vita non sia in disaccordo con la parola o addirittura con se stessa.

Seneca, Lettere morali a Lucilio (Libro II)

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A sfogliare un glorioso manuale d’enologia usurato dal tempo (1912), la primissima impressione che se ne trae, già solo setacciando l’indice analitico, è di uno scompenso evidente tra la Prima parte più striminzita dedicata agli ELEMENTI DI ENOCHIMICA (poco più di cento pagine) e la Seconda parte molto più corposa consacrata alla ENOTECNIA (le restanti ottocento pagine).

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Normalmente la tendenza istintiva quando facciamo dei confronti con l’enologia del passato è quella di idealizzare il tempo che fu. Tendiamo cioè, con una certa ingenuità, ad applicare una visione più sentimentale della scienza e della tecnica che sicuramente non erano così invasive, impattanti, tiranniche come sembrano invece essere diventate la Scienza e la Tecnica attuali. Eppure basta soffermarsi a leggere qualche paginetta di questo manuale dell’Ottavi riveduto dal Marescalchi ormai centosette anni fa, per riproporzionare la presunta bontà tecno-scientifica dello stesso e rivedere con occhi meno imbambolati quella che è soltanto l’illusoria semplicità artigianale dei nostri antenati.

Vediamo assieme ad esempio il Capitolo IV dedicato a I CORRETTIVI DEL MOSTO.IMG_9810

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I vini che si pongono in commercio in Italia per consumatori paesani ed all’estero.” È a tutti gli effetti una discriminazione razziale/classista bella e buona tra i consumatori ordinari e grossolani, cioè “i bevitori da bettola” che bevono vini dal sapore astringente e aspro, e i consumatori di città, i borghesi, quelli all’estero che non badano all’andamento agricolo e “vogliono sempre lo stesso vino”, ragion per cui si pone la necessità di correggere i mosti per dare vita a un commercio duraturo. Diventa cioè addirittura necessario piegarsi alla legge della domanda di vini sempre uguali a se stessi e rassicuranti se si aspira a farsi una solida clientela sui mercati esteri.

In queste due inquietanti paginette possiamo osservare quasi al microscopio il conformarsi del batterio di una particolare tipologia di peste che ai nostri giorni ha contaminato qualsiasi settore commerciale, ovvero la peste della manipolazione del gusto soggettivo ottenuta attraverso le “correzioni” tecniche e scientifiche oggettive di un prodotto alimentare il cui ingrediente originario di partenza, come in questo caso, è semplicemente l’uva. Nessuna paura, è successa la stessa cosa anche con tutte le altre basilari sostanze merceologiche (zucchero, sale, riso, grano, latte etc.)

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Sono pagine che oggi più che mai fanno riflettere sul senso ultimo dell’oggettività scientifica; sull’abuso dell’onestà intellettuale da parte di chi questi manuali “ideologici” li ha scritti per fabbricare proselitismo e li ha imposti alle accademie conniventi a loro volta con gli interessi della nascente industria enologica. Istituti universitari e centri di ricerca che hanno utilizzato questi tomoni quali libri di testo professionale a maggior ragione che su volumi dello stesso stampo si sono formate generazioni e generazioni di enologi che hanno tiranneggiato l’ambiente – tiranneggiano tuttora – promulgando la loro monocorde visione dell’agricoltura e della vinificazione su tutta la filiera produttiva (vigna/cantina), dettando legge sul mercato proprio a partire da quella “esigenza del grande commercio a cui è necessario piegarsi se si aspira a farsi una solida clientela.”

Così come si possono modificare, adulterare e migliorare i vini rossi, bianchi o passiti allo stesso modo si possono costruire con Tecnica e Scienza, i Vini da Pasto, i Vini da Commercio o addirittura i Vini di Lusso. Al datemi una leva e vi solleverò il mondo di Archimede da Siracusa si sostituisce insomma l’onnipotente datemi miliardi di palati singoli e vi farò un unico gusto adatto per tutti i gusti dell’enologo-demiurgo-sofisticatore moderno.

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Si parte proprio dal correggere i mosti per poi modificare pian piano i gusti individuali cioè le tendenze naturali dei singoli individui. La propensione innata al dolce piuttosto che al salato o all’acido, adulterando fin dalla nascita dei bambini i liberi desideri delle persone, sofisticando nel profondo i parametri interiormente soggettivi di intere popolazioni al grado di piacevolezza o di sgradevole, di buono o di cattivo, di puzzolente o di profumato, di saporito o di sciapo. Così da ottenere, con l’omologazione del vino, l’omologazione stessa del palato quindi l’appiattimento precostituito su larga scala del cervello, uniformando all’origine le variabili sensoriali multiformi di interi popoli e paesi, castrati nella loro istintiva capacità di sentire e gustare quel che vogliono senza intermediari, né scale di valori artefatte a mestiere, né condizionamenti industriali.

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Restando ancora nell’ambito archeologico della scienza enologica, un esempio illuminante di questa castrazione applicata sui sensi che è un vero e proprio sopruso civile e una feroce violenza sulla libertà di pensiero, lo ritroviamo sempre nel trattato di Enologia dell’Ottavi che alle pagine sia iniziali che finali del suo volume riporta sfacciatamente le pubblicità di alcuni prodotti d’enologia che guarda caso è la medesima azienda di famiglia, CASA AGRICOLA F.lli OTTAVI, a vendere. A giustificazione coerente del titolo ENOLOGIA TEORICO-PRATICA dove alla teoria pensata esclusivamente per vendere un prodotto commerciale a quanta più gente possibile, segue la pratica svergognata di rivendere a colpi di teorie ingannevoli, nel libro, ciò che si elogia ai propri studenti ovvero ai futuri enologi a loro volta o ai clienti potenziali se mai diventeranno produttori di vino. Smascherandosi così, senza troppe sovrastrutture mentali, quale presunto trattato scientifico formativo di una professione altrimenti nobile, in quel che invece è per davvero, cioè uno sguaiato catalogo di prodotti chimici e strumenti industriali pro domo sua.IMG_9824

Possiamo infine ritrovare in questa brutta parabola dell’Ottavi un capostipite di quel genere di capitalismo avanzato nel quale stiamo vertiginosamente sprofondando da anni. Pensiamo ai tanti, troppi enologi Ottavi dei nostri giorni. Riduzionisti della complessità. Banalizzatori del gusto. Standardizzatori del sapore. Scienziatoni alla moda, accademici tromboni, professoretti ex cathedra, profeti del gusto unico, consulenti finanziari d’aziende vinicole, flying winemakers i quali alla fin fine non sono che degli appestati travestiti da medici del vino mentre con le loro formulette magiche vincenti sul mercato pretendono indicarci qual è il Male che loro stessi stanno propagando. Eppure, benefattori della viticoltura planetaria, ci offrono la ricetta pratica assieme al farmaco e alle spiegazioni teoriche d’uso dello stesso perché non si accontentano di sembrare solo la peste e il medico assieme, no, ma pretendono essere pure l’informatore farmaceutico che impasta il filtro magico e il sapientone super partes che rivende quel beverone a un’umanità sterilizzata nel gusto, abbeverata alla fonte della esclusiva conoscenza imparziale: L’ENOLOGIA TEORICO-PRATICA… di ‘sta minchia!

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Soprusi e miserie di una realtà surreale

18 Dicembre 2018
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La pubblicità suscita ansia. La misura di tutto è il denaro, avere il denaro significa vincere l’ansia.

Alternativamente l’ansia su cui la pubblicità gioca è la nostra paura di non essere niente, perché non abbiamo niente.

John Berger, Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità (Il Saggiatore)

 

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Soprusi e miserie di una realtà surreale

Incappare in una fragorosa cagata del genere ad una mostra sul Surrealismo:

“Le immagini contenute nel video potrebbero urtare la sensibilità di alcuni visitatori”

la trovo la cosa più surreale – per non dire fottutamente imbarazzante – delle stesse opere di Magritte, Ernst o De Chirico presenti alla mostra. A maggior ragione che il video cui si fa riferimento nell’annuncio è Un Chien Andalou (1929) di Luis Buñuel & Salvador Dalí, uno dei capolavori assoluti della storia del cinema. E poi come si può urtare la sensibilità di visitatori sempre più insulsi e insensibili a qualsiasi richiamo profondo alla bellezza, alla verità, alla giustizia, alla sostanza delle cose?

È allucinante che viviamo in una realtà del tutto rovesciata dove al personale di sala di un museo nazionale sia concesso l’arbitrio di mettere in pausa un filmato che è un’opera d’arte del cinema muto:

“in presenza di scolaresche o chi ne faccia richiesta”.

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Eppure, dalla mattina alla sera – fottute scolaresche comprese – siamo tutti costretti in maniera molto abusiva a tollerare pubblicità vigliacche su ogni muro. Demenziali annunci video digitali strillati nell’aria in filodiffusione con tracotanza implacabile e strafottenza invasiva, inneggianti il Nulla, glorificanti alla Inciviltà del Marketing. Urla di propaganda videofilmate e slogan d’ogni genere profusi a squarciagola in qualsiasi spazio condiviso che attraversiamo nelle nostre città, dai mega-schermi nelle stazioni dei treni, negli aereoporti, sui cartelloni alle pareti delle metropolitane, nei cessi pubblici. Mai che a nessuno però – un magistrato illuminato, un brillante penalista – venga neppure per sbaglio in mente di vietare un simile sopruso o quantomeno arginare questo lavaggio doloso al cervello perpetrato con violenza efferata tramite la manipolazione dello sguardo e la devastazione radicale dell’udito.questione-di-sguardi_pc-350x492

Tutti, tutto allineato e coperto, indifferenti all’evidenza che sono proprio quelle video immagini becere a torturare i nostre occhi. Incuranti all’assurdo che sono soltanto quei suoni abbaiati all’inverosimile nel grigiume quotidiano delle nostre vite castrate in un codice a barre, a farci sanguinare le orecchie, a urtare la sensibilità di tutti noi che queste immagini-sonore (cfr. Storia dello Sguardo di Mark Cousins) le subiamo passivamente, privandoci del diritto naturale a godere in piena libertà solo un po’ di pace e silenzio, almeno qualche minuto prima dell’autodistruzione globale – e si spera definitiva – che stiamo realizzando.

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