Commenti disabilitati su IL VINO A NUDO E LE SFIDE PRESENTI-FUTURE
La natura è indifferente e i sogni degli umani continuano nel suo grembo. Iosif Brodskij
Il vino naturale come il Re delle fiabe è nudo! Spunti di riflessione per vignaioli osti e bevitori non improvvisati sulle sfide imminenti e future del vino agricolo contemporaneo.
“Se hai altre domande o desideri ulteriori informazioni, non esitare a chiedere” disse la Macchina all’Uomo che aveva progettato la Macchina.
Sarà l’instabilità politica ed economica mondiale in ottica macroscopica, ma in questi ultimi anni anche nel micro-mondo del vino naturale emerge sempre più una crisi di fondo che rischia di far saltare in aria i presunti giusti ideali, i supposti buoni principi su cui si è fondato il “movimento” per quanto alla fin fine non c’è mai stato un Movimento unico con la M maiuscola ma una pluralità di movimenti, gruppi sparsi e associazioni ognuna con un proprio manifesto d’intenti e una propria ricetta utopica del “vino onesto, vino vero, vino buono, vino ideale, vino ribelle, vino autentico, vino rivoluzionario, vino selvaggio, vino altro, vino sostenibile, vino ostinato e contrario…” gli aggettivi si sprecano e proprio per questo rischiano di restare ambigue frasi fatte, tormentoni per attaccabrighe, trappole retoriche o suggerire ai più smaliziati specchietti per le allodole.
Il fatto che non ci sia un disciplinare unico e ufficialmente condiviso, da una parte ha generato una confusione e una prolificazione di intenti, di ricettari personalistici, di favolette autocelebrative, di protocolli a maglie più o meno larghe a seconda dei secondi fini e degli interessi reali. Ha dato la stura a un moltiplicarsi di cataloghi specializzati, di fiere e fierette fuori controllo, di proponimenti dai più aderenti alla naturalità del vino e dell’agricoltura biologica/biodinamica da cui si produce, alle interpretazioni più fantasiose se non proprio spregiudicate e furbesche dell’etica professionale in chiave un po’ troppo a libera scelta, spesso in ottica subdolamente commerciale e/o intellettualmente disonesta. I principi di sostenibilità agricola e autenticità del vino sembrerebbero uno nessuno e centomila a dar retta ai bugiardini autopromozionali dei siti aziendali, dal più anonimo dei contadini di montagna alle multimilionarie cantine griffate progettate dagli archistar. Su mille case vinicole a campione casuale rischiamo di trovare mille interpretazioni non casuali di bio, mille sfumature di “artigianalità” e “sensibilità etica” anche da parte delle cantine più sfacciatamente ingegneristiche e convenzionali senza scrupoli. Dall’altra però come si può disciplinare in senso normativo qualcosa come il vino naturale che nella sua massima espressione è figlio della annata, dell’uva, della vigna, delle circostanze climatiche e dell’unicità di chi lo fa? Prodotto finale della visione spesso intima/spirituale, etica/estetica, irripetibile/individuale dei vignaioli, dell’idea libertaria e della pratica quotidianamente artigianale di chi quel vino lo fa? Come si può protocollare lo stile singolo e non replicabile (la non replicabilità è un valore aggiunto!) di contadini e piccole/medie realtà agricole dai più svariati territori vocati e microclimi che affrontano in maniera empirica ognuno con un proprio metodo sperimentato sul campo e in cantina anno per anno le mille variabili del flusso climatico (gelate, temporali monsonici, siccità), delle avversità in vigna (peronospora, oidio, mal dell’esca), dei cambiamenti di tendenze e mode nel bere condizionati dal Mercato (vini glou-glou, rifermentazioni, macerazioni carboniche, macerazioni sulle bucce…)?
Forse era già inscritto nel DNA del vino naturale che sarebbe finita così in un paese come l’Italia poi dove ognuno che si alza la mattina di punto in bianco decide di formare un partito politico col rischio di ritrovarsi 30 milioni di partiti e ognuno con la pretesa allegra di governare il paese, ragion per cui politica calcio vino clima diventano facilmente generiche chiacchiere da bar – oramai chiacchiere da social network o da Report – dove in potenza chiunque senza particolari competenze tecniche né conoscenze specifiche mette bocca e pretende di avere la soluzione dei problemi in mano. Questa frammentazione pulviscolare tra chi produce chi vende chi comunica chi beve il vino ha a quanto pare portato alla crisi d’identità attuale che è una crisi non solo nazionale ma globale che coinvolge importatori e distributori su ampia scala. È una crisi d’identità che non riguarda solo i lieviti selezionati, le fermentazioni spontanee, i limiti della solforosa, le temperature controllate e i livelli di acidità volatile visto che anche un sistema informatico di simulazione dell’intelligenza umana saprà a breve “replicare un vino alla maniera naturale“, complice una filiera enologico-vivaistica sempre più à la Matrix (leggi più avanti la chiacchierata con l’IA). Proprio per questo la vera sfida futura si giocherà sul piano dell’educazione gastronomica, del sapere ecologico e della cultura agroalimentare in parallelo alle accelerazioni vertiginose del progresso tecnologico e dell’evoluzione digitale nei vari ambiti della conoscenza sia manuale che teorica. Avere un palato sempre più educato/consapevole da parte di chi produce, assaggia, racconta e beve il vino significa saper riconoscere o quantomeno discernere lo shining tra un “vino artefatto” e un “vino onesto” e se siamo sempre più in grado di operare questo discernimento il mercato stesso, l’industria enologica dotata di strumenti sempre più sofisticati alzerà sicuramente l’asticella del vino onestamente artefatto o del vino artificiosamente onesto. Allo stesso tempo il livello di guardia di chi fa il vino nella propria vigna, territorio e cantina in maniera trasparente sarà sempre più incisivo, netto e distinguibile da tutta la massa degli improvvisati vignaioli della domenica narcotizzati sul carrozzone delle troppe manifestazioni caciarone attrezzate spesso per fare profitto su sollecitazione di bevitori superficiali, comunicatori sprovveduti e operatori del settore (ristoratori, osti, enotecari) professionalmente scostanti, disillusi o approssimativi. Tutti indistintamente condizionati dalle mode del momento che si fanno strada nel mercato a colpi di disinformazione incessante, di slogan vuoti fino all’imbarazzante urlati e propagati nel megafono della Rete generando così un oceano babelico di confusione, ostilità di tutti contro tutti e disagio diffuso per cui è ormai diventata un’impresa patetica riconoscere l’originale dalla copia. Quasi impossibile distinguere il vino messo a nudo nella sua naturalità, dal vino contraffatto, truccato a bella posta per ostentare la mascherata della nudità e della naturalezza.
“…ora, il vero problema conoscitivo non consiste nel provare che qualcosa sia un falso ma che l’oggetto autentico sia tale.”
Umberto Eco, La forza del falso tratto da Sulla Letteratura
Wystan Hugh Auden nella sua raccolta di saggi intitolata La mano del tintore scriveva: ”Nel corso di tanti secoli sono stati introdotti ben pochi strumenti atti a rendere meno duro il lavoro nella cucina della mente – alcol, caffè, tabacco, benzedrina, ecc. – e quei pochi molto grezzi, perennemente soggetti a guasti e pericolosi per il cuoco. Nel ventesimo secolo dopo Cristo la composizione letteraria è in larga misura quella che era nel ventesimo secolo prima di Cristo: quasi tutto dev’essere ancora fatto a mano.”
Oggi nel ventunesimo secolo quella che per Auden era una luminosa certezza per noi è diventato un angoscioso dilemma. Abbiamo visto sparire in questi anni numerosi lavori artigianali. Tanti faticosi mestieri “fatti a mano” dove la mano è sempre l’integrazione necessaria della mente, si sono estinti. Pensare e scrivere libri, disegnare, comporre poesie o partiture musicali così come fare il vino agricolo applicandosi mani e cervello in vigna e in cantina, saranno definitivamente rimpiazzati dalla stampa 3D e dall’Intelligenza Artificiale?
Ho provato a chiedere a un Chatbot: “Quali sono le sfide future per il vino naturale: chi lo produce, chi lo vende, chi ne parla e chi lo beve?”
Riporto le risposte dell’Intelligenza Artificiale Generativa* articolate da algoritmi e modelli statistici inquietanti organizzati dal Machine Learning con cui, volenti o nolenti, dovremo sempre più fare i conti nel futuro prossimo in ogni ambito del fare e del sapere umano, anche sulle questioni più spirituali, astratte, metafisiche, in una convivenza auspicabilmente pacifica e di cooperazione tollerante tra esseri-umani ed esseri-macchine:
IA:
Le sfide future per il vino naturale potrebbero includere questioni legate alla produzione, alla distribuzione, al marketing e all’accettazione da parte dei consumatori.
1. Produzione: una sfida per i produttori di vino naturale è mantenere la coerenza nella qualità e nel gusto aderendo alle pratiche di vinificazione naturale. Anche i cambiamenti climatici e i fattori ambientali possono avere un impatto sui processi di coltivazione e vinificazione.
2. Distribuzione: i produttori di vino naturale possono trovarsi ad affrontare sfide nella distribuzione, poiché i canali di distribuzione tradizionali possono favorire aziende vinicole più grandi e affermate. Trovare modi per raggiungere un pubblico più ampio e garantire la distribuzione nei mercati chiave può essere un ostacolo.
3. Marketing: comunicare il valore e l’unicità del vino naturale ai consumatori può essere una sfida. Educare i consumatori sui vantaggi delle pratiche di vinificazione naturale e distinguere il vino naturale da altre categorie può essere importante per il successo del marketing.
4. Accettazione da parte dei consumatori: sebbene la popolarità del vino naturale sia in crescita, potrebbero esserci ancora delle sfide per ottenere una più ampia accettazione tra i consumatori tradizionali. Superare le idee sbagliate e gli stereotipi sul vino naturale e ampliare la base dei consumatori sono considerazioni importanti.
Nel complesso, affrontare queste sfide richiederà la collaborazione tra produttori, distributori, operatori di marketing e consumatori per sostenere la crescita continua e il successo dell’industria del vino naturale.
GAE:
Dai per scontato che esistano pratiche enologiche naturali ma quali sono nella sostanza e quali realmente si distinguono dalle pratiche convenzionali?
IA:
Le pratiche di vinificazione naturale comportano in genere un intervento minimo in vigna e in cantina, con l’obiettivo di consentire all’uva e al processo di fermentazione di esprimersi senza l’uso di additivi o sostanze chimiche. Alcune pratiche chiave che distinguono la vinificazione naturale dalle pratiche convenzionali includono:
1. Agricoltura biologica o biodinamica: i viticoltori naturali utilizzano spesso metodi di agricoltura biologica o biodinamica per coltivare l’uva senza pesticidi sintetici, erbicidi o fertilizzanti.
2. Raccolta manuale: l’uva viene generalmente raccolta a mano per garantire un’attenta selezione e manipolazione del frutto.
3. Fermentazione del lievito selvatico: i produttori di vino naturali si affidano al lievito selvatico presente sulle bucce dell’uva e nell’ambiente della cantina per fermentare il succo d’uva, invece di utilizzare ceppi di lievito commerciali.
4. Solfiti minimi o assenti: i solfiti, che sono comunemente usati come conservanti nel vino, non vengono aggiunti o vengono aggiunti in quantità minime nei vini naturali.
5. Non filtrati e non chiarificati: i vini naturali sono spesso non filtrati e non chiarificati, consentendo un’espressione del vino più cruda e genuina.
Queste pratiche mirano a produrre vini che riflettano il terroir e le caratteristiche uniche delle uve e della regione, con particolare attenzione alla sostenibilità e alla manipolazione minima. È importante notare che la definizione di vinificazione naturale può variare tra i produttori, quindi si consiglia di ricercare le singole cantine e le loro pratiche per comprendere il loro approccio specifico alla vinificazione. Se hai altre domande o desideri ulteriori informazioni, non esitare a chiedere...
*La conversazione con l’AI è avvenuta in inglese e l’ho riportata tradotta (tradotta da me o dall’AI?).
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Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.
Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.
Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.
A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.
A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”
Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.
Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.
Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.
Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”
Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.
Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.
Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.
All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.
Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.
Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.
Verticale di Le Trame suddivisa in 3 batterie dalla 2016 alla 2004 saltando solo la 2011 proprio l’anno dell’uscita lucida e cosciente di Giovanna dalla DOCG, una denominazione ottusa come tante coi paraocchi nei confronti delle differenze e della complessità. Da allora Le Trame è stato “declassato” a IGT. La 2011 fu un’annata anomala per il vento caldo ad agosto perciò si decise di fare una selezione delle uve in vigna.
Alcune sere fa con un gruppo misto di amici abbiamo messo assieme una dozzina di bottiglie di Le Trame del Podere Le Boncie di Giovanna Morganti, vignaiola a Castelnuovo Berardenga che non ha certo bisogno di presentazioni per chi beve vino artigianale con cognizione di causa ormai da qualche anno.
Si tratta di dodici annate che coprono quasi per esteso i primi due decenni del 2000 tracciando un ponte temporale che profila un lavoro di estremo perfezionismo manuale da parte di Giovanna, dalla vigna alla cantina. Una vigna giardino ad alberello di Sangiovese, Colorino, Mammolo, Foglia Tonda. L’alberello costa senza dubbio più fatica lavorarlo ma ripaga nel tempo perché è più longevo e poi ha una sua dignità vegetale che di sicuro le altre forme di allevamento della vite non hanno perché troppo addomesticate dall’utilitarismo dell’uomo. E sono vini senza sconti né compromessi quelli di Giovanna soprattutto zero sconti con se stessa oltre che nei confronti di coloro che bevono il suo vino magnificamente austero, appassionato, intransigente. Territoriale e personalissimo allo stesso tempo.
I batteria: 2016 – 2015 – 2014 – 2013
Questi primi 4 vini circoscrivono la potenza e il balsamico. Tannino, terra, sale. Il balsamico traccia la linea dell’acidità, della freschezza, dell’allungo sul palato. La potenza precisa un timbro oscuro sulla lingua, definisce una materia decisamente saporita dal gusto ampio, di persistenza esemplare. Si intuisce meglio la longevità di questi vini cavernosi e solari a un tempo, soprattutto all’assaggio della III batteria cioè alla prova del tempo.
II batteria: 2012 – 2010 – 2009 – 2008
L’austerità si smorza. La compressione della I batteria qui si distende e scioglie. La gamma di queste quattro annate tende più verso tonalità ferrose, ematiche. Ma non siamo affatto nel territorio della terziarizzazione, anzi neppure nella III batteria lo saremo. Il gusto sapido di questi vini se da una parte sembra più etereo o sognante dall’altra risplende nel tratto palato-cuore-cervello come un tutt’uno fermentato di uva-sassi-sole a cui non si sfugge. Pure se non serve ricordarlo, parliamo di vini con solforose trascurabili, vini concepiti con minuziosa conoscenza tecnica e agronomica senza la sciatteria fastidiosa o l’improvvisazione tipiche dei troppi ultimi arrivati “del vino naturale del contadino”.
III batteria: 2007 – 2006 – 2005 – 2004
Nell’arco degli anni Le Trame, che porta inscritto già nel proprio nome un destino di svolgimento avventuroso nello spazio e nel tempo, libera un’energia nervosa, una forza minerale scalpitante che trova il suo apice nella 2004. Se la I batteria era la tesi la II batteria l’antitesi questa III batteria non potrà che essere la sintesi.
Colori del mare, festa del sole.
La vita fa brillare ogni sogno…
così canta João Bosco, così cantiamo anche noi a celebrare un vino struggente e una vignaiola più unica che rara. Un modello di testardaggine romantica, di sognatrice visionaria a cui dovrebbero rifarsi i vignaioli in cerca di se stessi, ispirarsi in concreto – senza mitizzare – quale cristallino esempio d’indipendenza, di studio della materia, d’approfondimento continuo in campagna e in cantina. In ascolto perenne e osservazione tenace delle vigne e del vino, in culo alle sirene del mercato, in controtendenza rispetto alle mode fottute del momento.
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IL VINO COME SIMBOLO E TRASFIGURAZIONE DELLA NATURA UMANA
Siccome al tempo mi era sfuggito, traduco e pubblico a due anni dall’uscita sul New Yorker, questo articolo di Rachel Monroe del 18 novembre 2019.
La cosa più significativa non è tanto l’articolo in sé che oltretutto è assai prolisso ed è scritto in maniera alquanto sciatta e approssimativa da una giornalista che chiaramente ha poca familiarità col vino, mostrando un approccio piuttosto naïf alla materia che tratta. Interviene in alcuni tratti Alice Feiring a puntualizzare alcuni aspetti più specifici sul vino naturale; avevo recensito qua il libro della mia amica Alice, Naked Wine, tradotto da Slow Food col titolo Vino (al) naturale.
Quel che è molto interessante dell’articolo invece è la sua forte carica implosiva che manifesta in vari punti lo Zeitgeist (lo spirito dei tempi) rivelando inconsapevolmente la tipica propensione americana verso derive mistiche di bassa lega sempre correlate alla propaganda occulta, all’ossessione bulimica per il denaro. Una superficiale propensione alla creduloneria costellata dall’assoluto vuoto spirituale che è di volta in volta colmato dal santone di turno in cui credere e da cui farsi abbindolare, dal volto nella folla più sveglio degli altri, dalla moda new age più furba del momento che rifili alle masse di pecoroni cibo bio, vino naturale o yoga.
Chi ha visto Wild Wild Countrycapisce meglio di cosa sto parlando. È un documentario eccellente diretto e montato con estrema accuratezza da Maclain Way & Chapman Way. Sono 6 episodi incentrati sul guru Osho Bhagwan Shree Rajneesh, sulla fondazione della città di Rajneeshpuram in Oregon, sul delirio d’onnipotenza che può scatenare il culto della personalità in milioni di disadattati alla ricerca di risposte vagamente spirituali in un mondo brutalmente capitalistico. Tutto questo scenario implosivo emerge dalla lettura dell’articolo dove il tema del vino naturale è giusto un pretesto, anzi un simbolo di distorsione mentale, un’allegoria di trasfigurazione del mondo in cui viviamo e di quel brutto genere d’animali sociali tragicamente influenzabili che tutti noi siamo diventati.
Segue la mia traduzione dell’articolo della Monroe.
IL VINO NATURALE È DIVENTATO UN SIMBOLO DI CONSUMO VIRTUOSO
La moda dei vini naturali ha esposto i produttori artigianali al successo e a nuove prospettive economiche, suscitando interesse sulla loro personalità e visione politica.
Nel 2010, Dani Rozman si era appena laureato all’Università del Wisconsin. Dani è talmente preciso e premuroso che i suoi amici sostenevano fosse inevitabile sarebbe diventato un professore di storia con un armadio pieno di cardigan. Rozman invece se ne andò in Argentina, finì a Mendoza, il fulcro della scena vinicola del paese, lavorando per una startup che aiutava la gente ricca a realizzare le proprie fantasticherie sul vino. La startup permetteva di acquistare un vigneto a distanza, farlo coltivare da qualcun altro, personalizzare le etichette e ricevere casse del “proprio” vino da sfoggiare alle cene con gli amici.
Un’estate, Rozman andò a Itata, l’estremità meridionale della regione vinicola del Cile, per fare la vendemmia in un’azienda locale. Ebbe l’impressione che i produttori di vino del Cile fossero come i figli di papà della Napa Valley: soldi di famiglia e abiti firmati. A Itata invece era diverso. L’azienda vinicola consisteva in un container e in una tenda a rete, il lavoro era incessante. Rozman è cresciuto in una famiglia attenta alla salute che tuttavia “doveva sempre ricordare che il cibo proviene dalle coltivazioni e dal lavoro in campagna“. Il contatto quotidiano con le piante fu come una rivelazione per Rozman. Alcuni dei vigneti erano stati piantati secoli prima, da conquistadores e missionari. Le uve erano País, un vitigno caduto in disgrazia quando i produttori di vino si sono dedicati a varietà più popolari come il Cabernet Sauvignon. Anche i metodi di lavorazione erano ancora tradizionali: l’uva veniva raccolta a mano e diraspata su un tappeto di bambù chiamato zaranda, quindi fermentava in vasi di terracotta. Il prodotto finito era qualcosa di sorprendente. “A quel tempo in Argentina il Malbec la faceva da padrone”, mi ha detto Rozman. Il paese produceva molti vini omologati e ad alto contenuto alcolico, invecchiati in botti di rovere, vini che soddisfacevano il gusto internazionale – “la roba del consulente francese”, come l’ha definita Rozman. Per lui erano vini dal sapore pesante e inespressivo, mentre i vini di Itata erano essenziali ed elementari. “La stessa differenza che c’è tra il giorno e la notte”.I vini artigianali in quegli anni avevano già trovato un bel seguito nelle città europee e giapponesi e stavano iniziando a guadagnare terreno anche negli Stati Uniti. La loro novità risiedeva proprio nella venerazione della tradizione da parte dei produttori, nel rifiuto dei metodi high-tech su cui facevano affidamento molti viticoltori convenzionali. I vini erano tipicamente prodotti con uve biologiche, senza aggiunta di lieviti selezionati, senza filtrazione né additivi chimici né botti di rovere nuove, Vini prodotti senza manipolazioni meccaniche. Quel genere di vino era variamente descritto come a basso intervento, vino nudo o crudo; il termine che alla fine ha attecchito di più è proprio “naturale”.
Negli ultimi anni i vini naturali hanno acquisito un prestigio da parte degli hipster, con enoteche naturali che spuntano in ogni città da Seattle a Kansas City o Helena addirittura, nel Montana. Kasimir Bujak, un acquirente di Wine Source, un negozio a Baltimora, mi ha detto: “È un effetto a cascata da Brooklyn, e questo significa che le persone a Columbus lo berranno a scoppio ritardato”.
Sempre Rozman: “Dieci anni fa, i ventenni non frequentavano tanto le enoteche. Ora è pieno di wine bars”. Nel boom anni Novanta dei vini della Napa, i consumatori apprezzavano quei vinoni opulenti e impeccabili. Adesso si cercano vini più “espressivi” invece dei vini “corretti”; vini terrosi, con sedimento visibile; vini dal sapore vivo.
Rozman ha fatto un apprendistato da uno dei primi produttori di vino naturale negli Stati Uniti, Gideon Beinstock, un vignaiolo franco-israeliano di sessantaquattro anni dal fisico asciutto e la mente propensa al pensiero astratto. Beinstock e sua moglie, Saron Rice, coltivano circa quattro ettari d’uva ai piedi occidentali della Sierra Nevada, in California. Clos Saron, la loro impresa a quattro mani, è riuscita a dimostrare che i vini naturali possono soddisfare anche i palati più elitari; a un certo punto, a detta di Beinstock, le loro bottiglie erano nelle liste dei vini di almeno un quarto dei primi cento ristoranti recensiti dal San Francisco Chronicle.
Beinstock, temperamento irrequieto, affamato di spiritualità e disciplina, aveva studiato per diventare pittore, ma quando, poco più che ventenne, i suoi dipinti iniziarono a vendere, disprezzava il modo in cui anche quel piccolo successo fomentava il suo ego. Come molti dilettanti della New Age negli anni Settanta fu attratto dalla Quarta Via, il misticismo fondato da George Gurdjieff all’inizio del XX secolo. La Quarta Via attingeva, tra le altre cose, dal Buddismo Zen, dall’Islam Sufi e dall’occulto. I seguaci della Quarta Via sono in lotta per l’incessante consapevolezza e padronanza di sé. Nel 1978, Beinstock si imbatté in un segnalibro che pubblicizzava un gruppo di studio della Quarta Via chiamato Fellowship of Friends (Compagnia degli Amici), fondato nella Bay Area alcuni anni prima. (La Fellowship era reclutata di proposito per posizionare strategicamente nelle librerie quei segnalibri nei testi New Age.) Beinstock dopo aver partecipato a una riunione si è unito al gruppo in quello stesso anno. “La Fellowship pullulava di poeti, scrittori, artisti, musicisti, attori. Vibrava di un’energia incredibile”. Il fondatore del gruppo, Robert Earl Burton, affermò di essere in comunicazione con quarantaquattro esseri angelici, tra cui Platone, Shakespeare e Abraham Lincoln. La Compagnia credeva che gli esseri umani trascorressero le loro vite come ipnotizzati, in trance, cullati da abitudini mentali, costretti in gabbie fisiche ed emotive; al contrario, i membri della Compagnia cercavano in ogni momento di risvegliarsi da questo sonno della coscienza.Beinstock iniziò a trascorrere del tempo presso la sede del gruppo, conosciuta come Apollo, in una comunità contadina ai piedi della Sierra chiamata Oregon House. Si trovava in una delle contee più povere della California, ma la Fellowship ha lavorato per creare un’atmosfera rurale, piantando roseti ed erigendo un edificio centrale nello stile di un castello francese. Il gruppo, che contava quasi tremila membri in tutto il mondo, aveva una propria orchestra e una compagnia d’opera, che si esibiva in un anfiteatro classico chiamato Theatron. La Fellowship ha accumulato negli anni una collezione di mobili della dinastia Ming, che è stata successivamente venduta da Christie’s per oltre undici milioni di dollari.
Il vino si adattava bene all’impegno del gruppo per il lavoro spirituale e l’alta cultura. Beinstock e altri membri della Fellowship piantarono filari e filari di Cabernet Sauvignon, Riesling, Sauvignon Blanc e altre varietà del Vecchio Mondo, le cosiddette uve nobili. Il lavoro era arduo – rimuovere massi di granito, piantare viti a mano – ma la Fellowship apprezzava la chiarezza mentale e il cameratismo che scaturivano dal lavoro fisico collettivo. Alla fine, i membri piantarono centocinquanta ettari di vigna. Ricorda Beinstock: “Poi il leader spirituale disse: ‘Questo è un bel traguardo. Possiamo fermarci qua’”. La Renaissance Winerydella Fellowship ha cominciato presto a produrre trentacinquemila casse di vino l’anno. “Se c’è un vigneto più notevole di questo in California, non l’ho ancora visto”, così ha scritto James Halliday, nel suo ”Wine Atlas of California”, aggiungendo: “Renaissance Winery è aperta alle visite solo su appuntamento. Posso solo suggerirti di spostare cielo e terra per fissare un appuntamento, perché tanto li vedrai entrambi quando arriverai là.” Beinstock poi si è trasferito in Inghilterra, dove ha studiato per la prestigiosa qualifica di Master of Wine. Nel 1991 è tornato in California e in seguito è diventato l’enologo della Fellowship.
A quel tempo, ha detto Beinstock, la Fellowship produceva vino “con molto uso di tecnologia avanzata e un’attenzione scientifica ai dettagli fin troppo maniacale”. Dopo la seconda guerra mondiale, il mondo del vino era stato trasformato dalle stesse forze dell’industrializzazione che stavano cambiando qualsiasi tipo di approccio agricolo. Ora c’erano soluzioni tecniche per ogni problema enologico. Alla Renaissance, il terreno veniva irrorato con erbicidi; dopo la vendemmia, l’uva pigiata era centrifugata, fino al raggiungimento di una precisa percentuale di sostanza solida. Il liquido veniva fatto fermentare in serbatoi a temperatura controllata, il contenuto zuccherino veniva misurato e riportato sui grafici due volte al giorno, durante l’imbottigliamento il vino veniva sottoposto a filtrazione sterile. “Era l’età della scienza nella produzione del vino”, ha detto Beinstock. “Dava alla gente l’illusione di essere al posto di guida, di poter controllare tutto e produrre vini perfetti”.
Al tempo gli ”espertoni del vino” – soprattutto uomini – discutevano sul vini in termini di composti chimici e metriche quantificabili: pH, acidità totale, mesi di invecchiamento in botte. Celebravano la modernizzazione del processo di vinificazione notoriamente minuzioso; gli sviluppi tecnologici hanno consentito una maggiore coerenza e precisione. Un anno di condizioni meteorologiche difficili non doveva più tradursi automaticamente in brutta annata. I vini spediti attraverso l’oceano avrebbero avuto una durata di conservazione più lunga e un gusto più prevedibile. Il consolidamento dell’industria del vino ha accelerato questa tendenza, proprio perché un vino prodotto in serie non poteva più permettersi un’annata sbagliata.
Beinstock credeva che questi metodi soffocassero il terroir, l’espressione naturale delle uve e della terra, e disapprovava l’arroganza di coloro che si ritenevano vignaioli. Lui si considerava come un’ostetrica, che incoraggia la nascita di qualcosa di bello stando il più lontano possibile. Una volta subentrato alla Renaissance, smise con le filtrazioni e smantellò le centrifughe; voleva che la vinificazione fosse meno intensiva o allarmistica.
Un critico del Times ha definito “eccellente” lo Chardonnay di Renaissance del 1995 e il suo Sauvignon Blanc “ancora migliore”. Esther Mobley, il critico di vini del San Francisco Chronicle, ha dichiarato gli anni tra il 1995 e il 2001 “l’età d’oro” dell’azienda vinicola, quando Beinstock ha fatto “alcuni dei più grandi vini mai prodotti in California”.
Beinstock amava fare il vino, ma era sempre più disilluso dalla Fellowship. Burton, il leader della Compagnia, aveva iniziato a fare previsioni sul giorno del giudizio. Nel 1998, Burton affermò che un terremoto avrebbe distrutto la maggior parte della costa occidentale ma avrebbe risparmiato Apollo. Un gruppo di membri della Fellowship è stato incaricato di prepararsi per affrontare le scosse. “Come enologo, non potevo sopportarlo”, ha detto Beinstock. “Allora mi sono fatto molti nemici, perché li stavo cacciando fuori dalla cantina, e loro tornavano e legavano le botti agli scaffali”. Quando l’apocalisse non arrivò, molti membri lasciarono il gruppo. Burton è stato anche perseguitato da azioni legali di affiliati che affermavano di essere stati sfruttati sessualmente. (Il presidente della Fellowship ha dichiarato che nessuna causa per reati sessuali è stata giudicata in tribunale.)A metà degli anni Novanta, Beinstock e Rice, sua moglie, iniziarono a coltivare quattrocento viti in un boschetto lungo la strada di Apollo, con l’obiettivo di produrre vino al di fuori del loro lavoro alla Renaissance. Clos Saron non utilizza pesticidi o erbicidi e ancor meno interventi in cantina. Costruirono una casetta, un recinto per le loro pecore e una cantina interrata, per mantenere stabile la temperatura. Beinstock ha messo all’asta la sua collezione di Grand cru di Borgogna e altri vini costosi per aiutare a finanziare la costruzione della cantina. Nel 2010, hanno tagliato i legami con la Fellowship.
Non pubblicizzavano Clos Saron come vino naturale, perché questa definizione al tempo non era ampiamente compresa negli Stati Uniti. Invece, Beinstock ha descritto i suoi vini come artigianali, espressione del terroir, minimalisti o a basso intervento. “Non è che pensassi di essere un ecologista di tendenza e politicamente corretto. Per me c’era una cosa sola: come si esprime il suolo nella misura più ampia possibile? E poi, dieci anni dopo, è arrivato il fenomeno del vino naturale, e siamo stati scoperti”.
Nel 2000 la scrittrice e giornalista Alice Feiring, è stata assunta per creare una guida dei vini per Food & Wine, mi ha raccontato: “Ho dovuto fare così tante degustazioni per compilare quel libro, lì ho capito che il mondo del vino era nella merda”. Feiring ha attribuito la colpa di questo in gran parte a un uomo solo: Robert Parker, il critico dietro l’influente newsletter The Wine Advocate. Quando Parker lanciò la sua pubblicazione, nel 1982, si considerava un outsider nel mondo snob dei vini pregiati. La sua innovazione più notevole è stata la classificazione dei vini su una scala di cento punti. “Vedere un vino schiaffeggiato con un numero era nuovo e sorprendente”, ha scritto Elin McCoy, in “The Emperor of Wine: The Rise of Robert M. Parker, Jr. and the Reign of American Taste“, del 2005. Questo metodo di valutazione a punteggi è stato anche enormemente efficace. I consumatori intimiditi dal linguaggio mistificante delle etichette dei vini avevano ora un modo molto più semplice per decidere cosa acquistare.
Le bottiglie con punteggi alti spesso esauriscono immediatamente dagli scaffali. Le annate che ricevevano un punteggio alto potevano quadruplicare i loro prezzi, il che significava che c’era un forte incentivo finanziario per produrre il tipo di vini ad alto contenuto alcolico, vini marmellatoni e legnosi che piacevano al palato di Parker. Le aziende vinicole di tutto il mondo hanno adattato di conseguenza i loro processi produttivi. Fu proprio questo effetto omogeneizzante a sconvolgere Alice Feiring. I vini consacrati da Parker, scrisse lei in seguito “non avevano nessun senso del luogo”. (Alice ha anche descritto i vini che non le piacevano come “stupidi”, “evirati”, “qualche intruglio da Body Shop”, “l’equivalente vinoso del bello ma non balla da bottiglia”, vini “disegnati con l’aerografo”, “vini morti”.)
Come Parker due decenni prima, anche Feiring si considerava un’estranea, rivelando gli sporchi segreti del mondo del vino in diversi libri e articoli. Ha scritto sui lieviti prodotti in laboratorio che consentono ai coltivatori di modificare i sapori naturali delle loro uve; sugli enzimi che modellano l’aroma e la consistenza; sui tannini in polvere che migliorano il ventaglio delle sensazioni in bocca; sui coloranti che intensificano le tonalità; sui processi di filtrazione e chiarifica che rimuovono le particelle in sospensione; sui solfiti che aiutano il processo di conservazione; sui macchinari di micro-ossigenazione che levigano i tannini – o, secondo il lessico della Feiring, “trasformano il vino in pappette omogeneizzate” – quei macchinari a osmosi inversa che lei definisce “camere di tortura” per il vino. (In verità anche Parker è stato un detrattore della filtrazione ed è stato uno dei primi sostenitori di diverse figure chiave nel mondo del vino a basso intervento, tra cui l’importatore Kermit Lynch e l’enologo di Sonoma Tony Coturri.)
Una tendenza contraria si era affermata nel Beaujolais negli anni ottanta, dove i viticoltori Jules Chauvet e Marcel Lapierre si rifiutavano di utilizzare lieviti commerciali e aggiungevano poco o zero solfiti durante la vinificazione. Altrove sempre in Francia, c’era un crescente interesse per la biodinamica, una versione mistica dell’agricoltura biologica, basata sulle teorie agricole del filosofo del diciannovesimo secolo Rudolf Steiner, che utilizza un calendario di semina che si allinea ai cicli del cosmo. Ma i consumatori a volte presumevano che questi vini fossero di qualità inferiore. Uno studio ha rilevato che i vini con certificazioni ecologiche hanno ottenuto punteggi leggermente più alti dalla critica, ma che elencare tali certificazioni sull’etichetta di un vino ha portato, in media, a una riduzione del prezzo del venti per cento almeno. Coturri, che iniziò a produrre vini naturali negli anni Sessanta, ha affermato sul sito web Sprudge che i suoi metodi sono stati a lungo considerati un ostacolo, non un punto di forza. “Ho imparato rapidamente che non si poteva entrare a gamba tesa e iniziare a ragionare di lievito naturale, di sostanze organiche e di non aggiungere solfiti. Quando ho fatto l’errore di parlare di come venivano prodotti i vini, di come veniva coltivata l’uva, alcune enoteche in città si sono spaventante”.
Verso la metà del duemila, però, i gusti dei consumatori sono cambiati. Le persone che facevano acquisti nei mercati degli agricoltori, che bevevano birra artigianale e mangiavano antiche varietà di pomodori nei ristoranti a chilometro zero erano allarmate dagli enormi conglomerati aziendali, dalle notizie sui lieviti prodotti in laboratorio, dall’uva cosparsa di glifosato.
Le qualità che un tempo facevano sembrare i vini naturali semplici o sospetti –i vitigni oscuri, i produttori rustici, il gusto occasionalmente eccentrico – iniziarono a sembrare genuini. Il vino naturale si adattava molto bene alla curiosità urbana per i movimenti che evocavano un passato più lento a misura d’uomo e più legato alla terra. (Steiner era anche il padre delle scuole Waldorf, che adottano all’educazione lo stesso approccio olistico ed esperienziale che la biodinamica applica all’agricoltura.) Le viti erano spesso lavorate a secco, cioè coltivate senza irrigazione e in aridocoltura, rendendole così resistenti alla siccità, più adatte ad un clima in pieno cambiamento climatico.
I buongustai pellegrini che si sono recati a Copenaghen per mangiare al Noma hanno trovato una carta dei vini senza Bordeaux e molti vini abbastanza “selvaggi” da abbinare al cibo. “In questi ultimi anni, sembra tutto fuori controllo”, ha detto Feiring. “Non c’era neppure un posto dove bere vino artigianale a Boston, poi, l’anno scorso, ha aperto Rebel Rebel. Sempre l’anno scorso, a Houston, ha aperto Light Years. Ad Austin c’era un solo posto dove bere bene. Ora ce ne sono diversi”.
Per etichettare un vino “biologico” o “biodinamico” è necessario seguire un lungo elenco di regole e pagare per la certificazione; chiamarlo “naturale” è una indimostrabile rivendicazione di virtù ideali. “Stasi, purezza, essenza immutabile: questi attributi definiscono il cuore del mito naturale. Naturale significa la versione originale e, come per i libri sacri, originale significa il migliore”, come scrive lo studioso di religioni Alan Levinovitz, nel suo libro di prossima pubblicazione intitolato: “Naturale: come la fede nella bontà della natura porta a mode nocive, a leggi ingiuste e a una scienza imperfetta.” Ma trasformare il succo d’uva in vino significa intervenire nel corso della natura. Quel che le persone intendono quando dichiarano un vino naturale, quindi, dipende da una costellazione di fattori: il suolo, l’uva, l’irrigazione o la sua assenza, i metodi di raccolta, la quantità di solforosa, quali macchinari sono coinvolti, persino, forse, la personalità e la visione politica dell’enologo, e dove o come vengono vendute le bottiglie. Ci sono molti modi per essere virtuosi o per fallire.Questa vaghezza fa parte di ciò che ha permesso al vino naturale di diventare un fenomeno culturale in un modo che ai vini biologici o biodinamici non è mai riuscito di fare. I vini possono essere color crema, vini greci, o leggermente effervescenti, o tutte queste cose in una volta. Possono avere un sapore argilloso o acido da far venire l’acquolina in bocca. Possono essere prodotti da una venticinquenne che coltiva da sola meno di un ettaro. Possono essere vini al gusto di sidro!
Ad agosto, ho guidato da Sacramento a Gadsden flags fino alla riserva delle capre nella contea di Yuba, a un’ora di distanza. Era l’inizio della stagione della raccolta e Dani Rozman a Oregon House si preparava per la sua settima vendemmia in California.
Durante l’apprendistato con Beinstock, nel 2013, aveva dovuto produrre due barriques per imparare a fare il vino da solo. Rozman ha seguito le pratiche di Beinstock: grande attenzione in vigna e un approccio piuttosto concreto in cantina. Anche lui sperava di produrre vini pregiati con una struttura sufficiente, un equilibrio di tannini e acidità, così da poterli far invecchiare per molti anni. Rozman all’epoca conduceva una vita abbastanza itinerante e il vino che ne veniva fuori sembrava essere più un peso che altro. Lo lasciò invecchiare in barrique mentre tornava in Sud America per vendemmiare, immaginando che alla fine l’avrebbe regalato ad amici e familiari. Quando tornò in California diversi mesi dopo, il vino si era trasformato da ciò che Beinstock definiva “carino” in qualcosa di molto più interessante. Beinstock lo ha subito esortato a imbottigliarlo e a venderlo. Rozman ha deciso di chiamare la sua nascente azienda vinicola La Onda, che in spagnolo come in italiano significa “onda” ma anche “vibrazione”. Ha etichettato a mano e numerato seicentoquarantasette bottiglie, poi ha portato i campioni nei negozi di vini naturali più famosi della Bay Area: Ordinaire, Terroir, Ruby. Mentre gli acquirenti annusavano e sorseggiavano, Rozman osservava attentamente i loro volti per carpirne le reazioni. In un pomeriggio ha venduto decine di casse. Da allora, i vini La Onda sono apparsi nelle carte dei vini di numerosi ristoranti molto apprezzati: Ruffian a Manhattan; Roberta’s a Brooklyn; Quince a San Francisco; Bavel a Los Angeles.
Per la maggior parte dell’anno, La Onda, le cui vigne sono coltivate sulla terra di Apollo, è un’operazione prettamente individuale, ma il periodo della vendemmia richiede aiuto da parte di altre persone. Durante la mia visita, Rozman era aiutato da due stagiste simpatiche e scherzose, Francesca DeLuca e Carly Cody. La compagna di Rozman, Manuela Delnevo, era arrivata da Berkeley per il fine settimana. All’alba, ci siamo ammucchiati tutti su un furgone Ford bianco e siamo andati ad Apollo.
La Compagnia degli Amici si è molto ridimensionata nel tempo. La maggior parte delle viti piantate da Beinstock e altri negli anni Settanta sono state estirpate o abbandonate; rimangono solo una ventina di ettari. Nel 2015 Renaissance ha definitivamente cessato la produzione. Nello stesso anno, due degli altri protetti di Beinstock, Aaron e Cara Mockrish, i proprietari di Frenchtown Farms, firmarono un accordo con Renaissance che consentiva loro di prendersi cura di gran parte del vigneto rimanente. Rozman, che cerca di evitare di avere a che fare direttamente con la Fellowship, ha un accordo con Frenchtown che gli concede quasi 3 ettari. “È davvero difficile trovare terreni da coltivare in California”, mi ha detto. “Il fatto che io sia disposto a passare il mio tempo a coltivare la terra qui è perché tutto il resto o non è interessante o è bombardato da sostanze chimiche o è di proprietà di persone troppo ricche”.
Passiamo attraverso un cancello di sicurezza, lungo una strada tortuosa fiancheggiata da tozze palme – i resti di un vecchio esperimento della Fellowship – poi oltre un campo di cammelli pigri dagli occhi a prugna. C’erano sparse statue in bronzo di divinità greche tra erbacce alte punteggiate di fiori gialli. Burton aveva predicato che, dopo l’apocalisse, Apollo sarebbe stata la culla di una nuova civiltà, ma ora il suo splendore era piuttosto misero e decadente.
Il terreno era erboso e selvaggio, le uve Sémillon che avremmo raccolto quel giorno convivevano assieme a cespugli di more spinose e girasoli selvatici. Lo stile di agricoltura di Rozman è non-interventista rispetto anche a quello di molti suoi coetanei. Quest’anno ha evitato non solo prodotti chimici e pesticidi, ma anche il dissodamento e il diserbo. Ha usato solo dei falcetti per diradare le erbacce quel tanto che bastava per accedere ai grappoli d’uva. Ciò ha portato a una vendemmia più lenta e meticolosa, ma Rozman crede che un ecosistema fiorente si traduca in vini migliori e più complessi; gli è stato detto che il suo Syrah esprime una sottile nota citrica, forse dovuta proprio ai girasoli selvatici sul campo. .
Rozman ha dato a ciascuno di noi un paio di forbici, incaricandoci di assaggiare i grappoli d’uva e raccogliere solo quelli che sapevano “di calore solare con acidità alle spalle” e lasciare il resto a maturare ulteriormente. Ho strappato un acino dalla vite portandolo alla bocca: sapeva d’uva. Ho cominciato a muovermi lungo i filari, raccogliendo solo i grappoli che mi sembrava giusto raccogliere.
L’erbaccia si aggrappava ai calzini e una piccola ape librava felicemente su mio gomito. A metà di una filare, un nido d’uccelli era nascosto nell’incavo di una vite e, poco più in là, c’era un ragno grande quanto il mio palmo, chiazzato di giallo e immobile sulla sua tela. Dopo un paio d’ore di raccolta a furia di sputare semi nei cespugli, ho sentito qualcosa che cominciava a succedermi sulla lingua. Forse il sole mi stava dando alla testa, ma sembrava che alcuni acini avessero un sapore piatto o tagliente, mentre altri erano più rotondi, più espressivi direi.
Per un po’ mi sono avvicinata alla DeLuca, che mi ha raccontato delle vendemmie a cui a partecipato nelle cantine convenzionali. In un’azienda vinicola nella regione dei Finger Lakes di New York, le viti sono state irrorate con sostanze chimiche che debellano le muffe. In Oregon, fermata per ore a un nastro trasportatore, doveva cercare di setacciare l’uva cattiva mentre le passava sfrecciando sotto gli occhi a velocità impossibile. Un lavoro alienante da sentirsi male. Ha poi aggiunto: “La gente dice che non è possibile farlo in questo modo come facciamo qua“ – indicando il pendio della collina – “e ricavarne un qualche genere di profitto”.
I metodi di Rozman erano allettanti, ma la vendemmia aveva un aspetto disperato. La stagione di crescita era stata pericolosamente umida e decine di viti erano andate perse. Alcune parti di recinzione avevano dei buchi e i cervi si erano tranquillamente mangiati l’uva dalle piante, danneggiando ulteriormente il raccolto. (In precedenza, una recinzione elettrica si era guastata e il piccolo branco di bufali indiani della Compagnia si era scatenato, calpestando un’ottantina di viti.) Ora era nostro compito salvare i singoli chicchi d’uva dai grappoli danneggiati. Un mezzo ettaro di Cabernet coltivato in modo convenzionale a Napa in media produce da quattro a sei quintali di uva. Rozman invece ricava da uno a due quintali, e questo prima di tenere conto dei danni provocati dagli animali. L’approccio laborioso di Rozman alla viticoltura sembra sostenibile per quanto riguarda il raccolto ma molto meno per il vignaiolo.
Più tardi, Rozman da un altro appezzamento chiese alle ragazze di attraversare i filari e valutare il Cabernet. “Cosa avete visto?” chiese quando tornarono.
“Un disastro”, dissero loro all’unisono. “Ma il frutto che c’è è maturo”, ha aggiunto Cody.
“Se non otteniamo abbastanza uva per la pigiatrice, cosa facciamo?” chiese De Luca.
“Ci mettiamo a piangere?” rispose Rozman con un’altra domanda.
Nel 2011, Marissa Ross stava lavorando come assistente personale di Mindy Kaling, a Los Angeles, quando ha iniziato a realizzare video sul vino per il sito web HelloGiggles. I video erano più comici che incentrati sulle bevande; Ross ha bevuto e discusso di robe a buon mercato da drogheria. Birra e whisky erano le bevande preferite dai giovani; il vino era più per i papà avvocati che si vantavano dei loro Cabernet californiani vellutati, o per le mamme mezze brille con gli enormi bicchieri pomeridiani di Chardonnay. Ma Ross ha scoperto che quando beveva vini migliori, in particolare quelli a basso intervento e senza additivi, si sentiva meglio. Ha aperto il suo blog, che era più informativo, anche se spesso si scolava il vino direttamente dalla bottiglia.
C’era un entusiasmo e una confidenza giovanile tra i sommelier e bartender di Los Angeles che a Ross ricordava i suoi anni nella scena indie-rock. La gente produce fanzine sul vino naturale, organizza festival e fiere, vende magliette con le scritte spiritose e tagga i propri post su Instagram con l’hashtag #nattywine. Il vino naturale si addiceva all’ansiosa e cospicua consumazione dei nostri tempi; era sia virtuoso che indulgente. Un settimanale alternativo nella Carolina del Nord consigliava di trangugiarne un bicchiere come maniera rivoluzionaria per combattere “il complesso industriale del vino”. “Il vino naturale è la mia cura personale”, recitava un titolo sul Times.
Nel 2015, Ross è stata assunta come editorialista del vino di Bon Appétit dichiarando che avrebbe recensito solo vini naturali. Lo ha fatto in un modo gergale e profano che l’ha resa cara ai suoi coetanei, anche se non sempre ai lettori più anziani. Nel suo podcast, “Natural Disasters” Ross e il suo co-conduttore hanno descritto i vini da “scorretti in senso varietale“ a “molto acidi al palato”, ma hanno anche fatto battute sulla cocaina, hanno discusso di abbinare le bottiglie alle patatine barbecue di Lay’s. Quando Ross pubblica su Instagram una particolare annata, quella va rapidamente esaurita.Al posto dei muscolosi Bordeaux di Parker, i vini del momento venivano spesso descritti come glou glou, l’espressione francese per “vini da tracannare”: rossi chiari spesso ottenuti tramite macerazione carbonica, una tecnica di fermentazione che si traduce in vini freschi e fruttati. (È anche più veloce; i vini sono spesso pronti per la vendita pochi mesi dopo la vendemmia.) A volte questi vini hanno un sapore consapevolmente non convenzionale. I millennial con velleità per le bevande difficili – birre acide, liquori amari, kombucha, aceto di mele – apprezzano i vini torbidi ed effervescenti, notevolmente fermentati, ridotti e con qualche puzzetta. Le enoteche cominciano così a celebrare stili e regioni prima oscuri: pét-nat, macerazioni sulle bucce, vini georgiani e sloveni.
Quando il vino naturale ha cominciato ad essere confuso con una bevanda dal profilo rustico al gusto di lievito, ha dovuto affrontare molte obiezioni. Un importatore di vino si è presentato a un evento del settore indossando una maglietta con la scritta “Amo i Solfiti”. Robert Parker ha definito la tendenza del vino naturale una “truffa indefinita” descrivendo i suoi sostenitori quali “jihadisti del terroir“.
“È diventato uno stile da cui prendo tranquillamente le distanze”, dice Alice Feiring. “Non devi per forza fare macerazione carbonica per essere naturale. Un vino naturale non deve necessariamente apparire torbido. Non si tratta solo di fare i vini glou glou.”La crescente popolarità del vino naturale è stata guidata anche da persone convinte che sia un modo più sano di bere. Dry Farm Wines, il più grande distributore di vino naturale negli Stati Uniti, commercializza le bottiglie che vende tramite abbonamenti per corrispondenza etichettate quali senza zucchero, senza micotossine, testate in laboratorio, compatibili per le diete paleo/cheto e a basso contenuto di carboidrati. Da quando l’azienda è stata fondata, nel 2015, ha accumulato più di centomila clienti attraverso apparizioni a fiere della salute e collaborazioni con esponenti nel settore benessere come la blogger Wellness Mama e il famoso fitness trainer J. J. Virgin. “Ho bevuto cinque bicchieri la scorsa notte e mi sono svegliato stamattina, sono andato in palestra alle 5 del mattino e mi sono sentito benissimo”. Ben Greenfield, un atleta di triathlon, un entusiasta influencer del fitness, sul suo podcast: “Proprio come non posso entrare in una Steak House e ordinare un filet mignon a meno che non sappia che è nutrito Grass-fed, non posso neppure ordinare un Cabernet senza pensare a settantadue diverse tossine.”
Dry Farm Wines, che ha sede nella Napa Valley, ha ora trentacinque dipendenti. Iniziano ogni giornata lavorativa con una meditazione di gruppo in una stanza che ha moquette ruvida, cuscini sul pavimento e un paio di lampade di sale. Quindici minuti di seduta tranquilla sono seguiti da una visualizzazione di gruppo e da una pratica collettiva di gratitudine. Quando sono stata a visitarli, i dipendenti erano contenti per avere a disposizione YouTube e Netflix, per un nuovo gattino, per aver fatto un ottimo allenamento e per la pratica della gratitudine quotidiana. Poi tutti si sono alzati e hanno cominciato ad abbracciarsi.
Todd White, il fondatore dell’azienda, si è scusato per la voce gracchiante; stava risolvendo un caso di bronchite. “Di solito sono come un cavallo scatenato che scoppia di salute”, ci ha tenuto a dirmi. White segue una dieta chetogenica (molti grassi, carboidrati drasticamente ridotti, digiuno regolare) e si descrive come un bio-hacker. Mi ha detto che il successo di Dry Farm Wines è stato in gran parte guidato dalla meditazione e dal movimento cheto, e poi si è corretto: “la rivoluzione cheto”. I clienti dell’azienda sono persone attente alla salute che “tentano di ottimizzare la loro vita e la salute, cercando così di ottimizzare anche la propria esperienza di invecchiamento”. Dry Farm pubblicizza i suoi prodotti come “vini senza sbornie”.
White ammette che l’alcol è “una neurotossina pericolosa”, ma ha affermato che il “micro-dosaggio” del vino apporta alcuni benefici: “Quando la dose rimane sufficientemente bassa, hai un aumento dell’espressione creativa, un’apertura di quella finestra di vulnerabilità – dove tutti noi semplicemente vogliamo amare, e amare di più. Il vino aiuta in questa apertura”.Anche il cambiamento del vino da naturale a mainstream ha posto vari problemi. Come mi ha detto Marissa Ross: “I riflettori sono meravigliosi ma possono anche risultare dannosi”. La comunità dei vini naturali si è posizionata contro il colosso del vino convenzionale; ora che sta accumulando più capitale, celebrità e attenzione, è sempre più incline a lunghe speculazioni su chi sia autentico e chi invece sta solo sfruttando una moda, su quali produttori affermano di essere più biologici di quanto non siano in realtà. Nuovi ragazzi continuano a comparire sulla scena, e molti di loro sono estremamente dogmatici riguardo la solforosa. Ross in parte non vede l’ora che queste orde affamate di ultime tendenze continuino ad andare avanti così. “Il sake sarà la novità del prossimo anno”, predice, con un tono di speranza nella voce.
Questa non era l’unica cosa che la preoccupasse. Nelle settimane successive la nostra conversazione, Ross ha iniziato a raccogliere storie di donne che affermavano di essere state aggredite o molestate sessualmente dal sommelier emergente Anthony Cailan e da altri del settore. Dopo che molti dei resoconti sono stati riportati dal Times, Cailan si è dimesso dal suo lavoro in un ristorante, anche se nega le accuse. “Il vino naturale è tutto incentrato sulla celebrazione del piacere, della libertà e della sperimentazione, il che è fantastico, fino a quando queste cose non vengono utilizzate per giustificare comportamenti scorretti“, a aggiunto Ross.
Interessi commerciali più grandi stanno cercando di conquistare questa fetta di mercato. Aldi, la catena tedesca di alimentari, ha commissionato alla Romania un vino arancione che viene venduto a meno di dieci dollari. “È così raffinato, visivamente, ma ha un sapore davvero mortale”, mi ha detto Feiring. “Non è disgustoso come il vino convenzionale, ma non va da nessuna parte”. (Il vino passa attraverso una centrifuga, e questo è un no secco secondo i principi della Feiring.) Un’azienda specializzata in bioscienze ora vende un lievito che promette di conferire ai prodotti fabbricati in modo convenzionale quei complessi sapori dei vini prodotti con lievito naturale. “Penso che l’aggettivo naturale sparirà dalla circolazione”, mi ha detto sempre Alice Feiring. “Quando la gente del mondo convenzionale inizia a commercializzare i propri vini come naturali, le persone che producono davvero vini naturali smetteranno di usare quella parola. Sarà semplicemente vino. Come tornare a prima degli anni Ottanta, quando ci si aspettava che ogni vino fosse naturalmente naturale”.Non me lo sarei aspettato ma mi sono sentita triste dopo aver lasciato Oregon House, perseguitata dal ricordo di quanto fossi stata felice durante quel periodo in vigna, svegliarsi all’alba, a stretto contatto con le forbicine che prolificano tra le viti. Sono andata in un wine bar naturale nel Lower East Side a Manhattan e mi sono seduta tra due coppie di quelle che sembravano al primo appuntamento andato a buon fine. Sapevo che l’agricoltura è un lavoro estenuante e che sarei stata una frana. Tuttavia, mi piaceva immaginare un tipo di vita diverso, più necessario, meno confinato all’interno dei vari schermi in cui ci intrappoliamo. Ho chiesto al cameriere i vino più vivo che avessero in lista. “All’inizio avrà un odore come di scoreggia, ma presto diventa un piacevole tintinnio al palato”, mi ha detto lui portandomi un bicchiere. Costava sedici dollari, aveva un sapore frizzante e sporco. Ad essere onesta con me stessa, non mi è piaciuto molto quel vino e questo mi ha fatto sentire come esclusa dal gruppo.
Ho pensato a una conversazione che avevo avuto con Beinstock. Eravamo seduti sotto una grande quercia in una radura vicino al primo appezzamento di vite di Clos Saron, e stava parlando di come il vino naturale fosse diventato una specie di culto religioso, ma lo era anche il calcio, così come la scienza. “La maggior parte delle persone sono in qualche modo membri di una setta”, ha detto. A metà frase, ha inclinato la testa e alzato lo sguardo. “Mi chiedo”, stava cominciando a dire quando mi accorsi di un ronzio attutito proveniente dall’albero. “Ci deve essere un alveare là dentro”, fece. “È sempre pieno di api.” Il sole stava tramontando e lui era via via più propenso a filosofeggiare. “Nella terminologia della Fellowship, puoi perdere la tua identità in qualsiasi cosa. Nello Zen si dice che l’ultimo e il più difficile passo è rinunciare alla lotta per risvegliarsi. Solo quando lo lasci andare puoi farcela, anche se non vuoi più. È un paradosso. Questo è il modo in cui mi sento oggi, che ormai il vino è parte profonda di me. E allo stesso tempo l’ho praticamente lasciato andare”.
Sì, il mondo del vino naturale può essere tanto assurdo quanto dogmatico. Eppure Beinstock crede ancora che stia accadendo qualcosa di speciale, qualcosa a cui valga la pena prestare attenzione. “È un bel fiore che si sta ancora aprendo”, ha aggiunto. “Diventerà un frutto? Rigermoglierà? Svanirà?”
[Pubblicato nell’edizione cartacea del 25 novembre 2019, con il titolo “Sul naso”.]
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Qualche considerazione sui difetti del vino bevendo un Riesling ossidato di Pierre Frick
Riesling Rot Murlè 2011 di Pierre Frick aperto già da qualche giorno. Pure da ossidato questo vino dal vigneto di Krottenfues-Rouffach non cede a banali considerazioni sulla fragilità degli imbottigliamenti senza solforosa aggiunta né filtrazioni o altri stabilizzanti invasivi. È molto didattico bere un vino così, ossidato eppure ancora teso ed energico, con una sua vibrazione minerale all’assaggio e tutta una sua integrità che travalica facili ma anche tendenziosi incasellamenti scolastici: difetto/irregolarità/imperfezione. È utile soprattutto per comprendere al palato la struggente fusione di ossigeno e fermentazione spontanea. Cioè una bevuta così aiuta ad afferrare con i sensi e l’intelligenza sempre all’erta che oggi non è più una questione di perseguire la perfezione assoluta verso cui l’enologia moderna ha esasperato la ricerca svendendo la propria anima al diavolo della tecno-farmaceutica. È piuttosto il fatto concreto di non cedere alla chimera del “vino rifinito” per le masse e all’ossessione del vino depurato a tutti i costi col rischio di renderlo sterile a furia di chiarifiche impattanti, processi meccanici edulcoranti e trattamenti enologici. L’ossigeno è la bestia nera dell’enologia fin da sempre, ma quando entra nella visione di chi fa il vino come elemento essenziale che definisce la multidimensionalità di un vino, non è più un difetto incondizionato così come lo ostracizza la casta degli enologi universitari, ma può divenire anzi fattore essenziale che costituisce la complessità, la stratificazione, la profondità di un vino.
Già vi vedo eh, migliaia di sommerdièr gongolanti, degustatori scorreggioni coi papillon cuciti di finta seta, le bocche strette a culo di topo, strombettanti: “Ah ah ah ma lo senti ‘sto scemo bevitore d’aceto? Cose da pazzi, sta dicendo che l’ossidazione non è un difetto ma una virtù!”
È chiaro che non sto affermando nella maniera più assoluta che l’ossidazione in sé sia da prediligere all’integrità. Tantomeno sto esortando ai “difetti” a rimpiazzo della pulizia. Stavo semplicemente considerando a ragion veduta che per il mondo dei bevitori consapevoli, avere produttori scrupolosi come Pierre Frick può rappresentare un esempio virtuoso di rigore artigianale. Produttori cioè invasi da una grande cognizione di causa che elaborano vinificazioni meticolose pur essendo non interventiste né processate al massimo come ahimè la gran parte delle produzioni standard le quali annullano qualsiasi sbavatura o irregolarità necessaria a donare al vino bellezza e singolarità. Dico insomma che l’ossessione antisettica della tecno-enologia moderna ha reso il vino un prodotto piatto e asettico, normalizzato così da far bella mostra di sé sugli scaffali o nelle carte dei vini del pianeta: etichette di pregio, contenitori di lusso ad alto contenuto di monotonia e piattume. Un prodotto perfettamente disinfettato dunque privo di umanità e mistero cioè soppresso di deviazioni, infrazioni alla regola, incrinature le quali invece – come la volatile – se armonizzate alla sostanza finita originata dall’uva e alla visione d’insieme del vignaiolo non possono che essere un valore aggiunto impagabile proteso all’arricchimento gustativo, alla singolarità indomabile del vino, di chi lo fa, di chi lo vende, di chi lo beve.
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Grifi e la normalina del XXI secolo
Alberto Grifi (1938-2007) è un nome che probabilmente non dice nulla a tanti pur presunti appassionati di cinema eppure è stato un grandissimo cineasta sperimentale romano. Il suo Verifica Incerta (1964/65) fu celebrato da Marcel Duchamp a cui era dedicato, oltre che da Man Ray, Max Ernst, John Cage. Un regista oltranzista vissuto purtroppo in un paese d’analfabeti acculturati dove si osannano i Sorrentino, i Muccino ed altri palloni gonfiati simili. Negli anni settanta Grifi ha inventato una specie di vidigrafo artigianale, sulla base del Kinescope sviluppato alla fine degli anni venti, in grado di trascrivere su pellicola le riprese fatte sul nastro di una videocassetta creandolo con i pezzi di una moviola comprata a Porta Portese, oltre al macchinario lavanastri per la rigenerazione dello stato fisico dell’emulsione dei nastri analogici e la restituzione su supporto digitale, uno strumento progettato per restaurare videonastri incisi negli anni sessanta-settanta.
Nel 1972 in collaborazione con Massimo Sarchielli ha girato quello che è il suo capolavoro assoluto Anna, la realtà filmata di una quindicenne tossicodipendente incontrata per strada a Roma, epifania del cinema che da “caso umano” diventa pura emanazione della vita reale a discapito della vita recitata. Un vero e proprio documentario visionario, un miracolo in bianco e nero su pellicola 16 millimetri.
Nel 1978 Grifi dopo la realizzazione diMichele alla ricerca della felicità, un film sulla condizione carceraria commissionato e poi censurato dalla RAI, propone implacabile alla radiotelevisione italiana un altro mediometraggio maledetto Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follia militanteche verrà bandito sempre dalla RAI. Si tratta degli appunti per un racconto sulla socialità fittizia prodotta dalle comunicazioni di massa e sulle modificazioni genetiche realizzate sugli animali da macello. È un mockumentary sul filo del rasoio della mistificazione e della veridicità, girato alla fine degli anni settanta in piena stagione anti-psichiatrica, dove è quasi impossibile districare verità/finzione, fantascienza/realtà. La normalina è un farmaco ottenuto dalla distillazione dell’urina e delle feci degli schizofrenici, un vaccino che sradica il dissenso, riconduce alla normalità e alla banalizzazione delle coscienze. Oggi possiamo ascoltare questi appunti geniali grazie a Radio Techeté un’emittente della RAI che ripropone alcuni episodi di Audiobox il programma di ricerca e sperimentazione radiofonica ideato da Pinotto Fava andato in onda su Radio Rai dal 1991 al 1998:
La voce penetrante, l’intelligenza lucidissima di Grifi che ormai più di quarant’anni fa discuteva di ibridazione con uno specialista zootecnico, di adattamento degli animali alle macchine e selezione genetica, risuonano più che mai profetiche oggi che i Big Data hanno penetrato il nostro stesso DNA. Oggi che le aziende digitali monopoliste condizionano i comportamenti emotivi delle persone, manipolano le supposte scelte politiche di intere nazioni pregiudicando le decisioni economiche dei popoli attraverso la biometrica o l’uso di algoritmi personalizzati ovvero la “normalina” del XXI secolo, che fissa il grado del nostro irreversibile asservimento alle macchine e alle “fabbriche del consenso” come insegnavano Chomsky ed Herman.
Se non è più la natura a determinare la selezione degli animali ma è il capitale come afferma Grifi in merito agli allevamenti intensivi, se mangiamo “animali prigionieri” allora anche noi esseri umani siamo di conseguenza contaminati nella psiche, imprigionati nelle nostre società sempre più simili a mattatoi, uniformati a un gusto monocorde. “Normalizzati” a una vita piatta. Sottomessi all’intelligenza artificiale. Sacrificati sull’altare del profitto sistematico e del grigiore meccanizzato.
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È ancora possibile usare gli strumenti digitali senza esserne abusati?
“Il cellulare più merdoso del mondo è un miracolo tecnologico. La tua vita che gira intorno al cellulare, ecco, è quella far schifo.”
Louis C.K.
Di questi tempi, spesso non a torto, tendiamo a demonizzare la comunicazione digitale che per sua natura prevede lettori sempre più distratti e comunicatori (anche i più coscienziosi), adeguati a un modello altamente efficiente di massimo dell’informazione in un minimo di spazio/tempo. Viene in mente uno sketch dei Monty Python’s Flying Circus dove i partecipanti ad un quiz a premi dovevano raccontare tutta la Recherche di Proust in pochi secondi.
Quella dello stand-up comedian Louis C.K. è una satira dei luoghi comuni attorno ai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Il comico americano evidenziava in quella battuta che il cellulare in sé è un miracolo, un vertice della sofisticata ricerca tecnologica a cui è giunto l’ingegno umano fino ad oggi; semmai quello che non va per niente bene è la vita dell’uomo attorno al cellulare, questa sì che andrebbe un po’ rivista in meglio perché è proprio quella a fare schifo e lui lo testimonia scandalosamente anche nelle disgrazie della sua vita privata in epoca d’allarmismo da #MeToo. Dunque gli strumenti digitali sono potentissimi e pericolosissimi ad un tempo, “una lama a doppio taglio”. È l’uso che ne facciamo a stabilire la differenza cercando però di non farci violentare dai mezzi che dovremmo usare a nostra volta. Dovrebbe essere obbligatorio l’uso (mai l’abuso) della comunicazione ai fini di una maggiore libertà espressiva, possibilmente con la giusta premura, con tutto l’amoroso scrupolo di “pensare alle cose per ciò che esse sono” come scriveva Virginia Woolf nel suo memorabile Una stanza tutta per sé.
“La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.”
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (1929)
Certo siamo lontani anni luce dalla stanza tutta per sé immaginata dalla scrittrice inglese, ora ci sono semmai le chat room nei social network che all’apparenza sono affollatissime di opinioni tendenziose, nidificazioni di commenti aggressivi, polemiche del giorno gratuite, visioni distorte del mondo che si riducono quasi sempre a stereotipi o a idee grossolane di seconda o terza mano. La “bellezza del mondo” è sempre minore così come anche la gioia di vivere sta scomparendo lasciando sempre più campo libero all’angoscia esistenziale, un’angoscia di natura digitale, biometrica, una frenesia da manipolazione comportamentale, un’ansia da sorveglianza psichica. Pretendiamo tutti di esprimere i nostri “liberi pensieri in un mondo libero”. Ci illudiamo di diffondere i più o meno giusti ragionamenti in cui diciamo di credere, urlando a squarciagola le nostre vite anonime, sbraitando segreti e bugie intime nel confessionale pubblico di una bacheca online che alla fine dei conti non è altro che la proprietà privata di qualche ultra-miliardario della Silicon Valley.
Certo lo scandalo Facebook/Cambridge Analytica con tutto lo strascico d’implicazioni inquietanti che si porta dietro dall’abuso dei dati personali per influenzare le campagne elettorali alla diffusione di una politica incentrata sull’odio e la paura, è solo l’inizio di una nuova era d’autoritarismo psicografico e controllo comportamentale delle masse attraverso tecniche di neuromarketing. Diciamo pure però che la differenza con i mezzi tradizionali quali la TV non è alla fin fine tanto abissale. Se cominciamo a parlare col Papa davanti a uno schermo è perché abbiamo fatto la fine di Travis Bickle in Taxi Driver. Una piattaforma accattivante ma ingannevole come Twitter ti offre l’abbaglio che il Papa potrebbe anche risponderti, ma è soltanto una grande illusione, una presa per il culo di portata planetaria.
“Le nostre tracce digitali vanno a costituire un mercato da miliardi di dollari all’anno. Siamo diventati merci ma amiamo cosi tanto questo dono di una connettività libera che nessuno si è preoccupato di leggere i termini e le condizioni d’uso.”
da The Great Hack (2019)documentario diJehane Noujaim & Karim Amer
Usiamo i mezzi di comunicazione o ne siamo usati? Avere una coscienza critica rispetto al consumo di merci e tecnologie ci salverà dall’appiattimento planetario delle coscienze? L’aspetto più tragico di questa impasse da cui a quanto pare ne usciremo solo estinguendoci è che i consumatori avveduti possono dire e fare quello che vogliono tanto è la produzione dall’alto a piazzare di volta in volta i loro prodotti ad hoc, a imporre le proprie merci e le proprie verità plastificate, fottendosene intenzionalmente dell’ambiente, dell’etica comunitaria e del consumo critico.
Il problema pressante della comunicazione in generale attraverso i social e nello specifico della comunicazione del vino, sono le polarizzazioni ben poco costruttive tra buoni/cattivi, belli/brutti, autentici/falsi, naturali/convenzionali. L’autoreferenzialità ebete, lo straparlare, il far bella mostra di sé a qualsiasi costo pur non avendo una benamata sega da dire, sono le piaghe più eclatanti di quel complesso di segni e manifestazioni semantiche che definiscono il vino, la sua comunicazione ai tempi mordi-e-fuggi di Instagram. Comunicazione online che s’inserisce di forza all’interno di quel gigantesco calderone propagandistico del web dove imperversano la disinformazione a tappeto, un’informazione sempre più sciatta, la manipolazione delle coscienze e conoscenze, la falsificazione dei fatti, la superficialità programmata a braccetto con la sistematica assenza di contenuti… giusto per elencare solo alcuni tra i giganteschi ostacoli da superare oggi per riorganizzare un ecosistema della comunicazione ad un superiore livello di profondità del sapere e a verificata qualità dei contenuti. Verificata da chi? Qualità dei contenuti in base a quali parametri? Parametri stabiliti come e da chi? È un ginepraio senza via d’uscite dove l’apparenza predomina sempre sulla sostanza. Basta vedere le contraddizioni drammatiche sulla certificazione formale che attesti la naturalità di un vino in retro-etichetta su cui ci si scanna ormai da anni in stile Guelfi e Ghibellini, scissi tra velleità ideologiche di natura filosofico-morale e impellenze d’ordine biecamente commerciale.
Nel frattempo che stavo riordinando le idee su questo pezzo, facendo su e giù da Roma a Itri in macchina, ad un certo punto mi sono imbattuto in un cartellone pubblicitario enorme lungo la statale all’altezza della casa-martirio di Santa Maria Goretti (sic!), tra sedie di plastica vuote dove spesso si appoggia qualche puttana in attesa del prossimo avventore. Sul cartellone a lettere cubitali c’era scritto un sibillino: SIAMO SEMPRE SUL PEZZO. Tutt’attorno la desolazione e lo squallore mortiferi della Pontina, davanti a una vigna talmente diserbata che il suolo era color giallo fosforescente. Ecco quindi che in un’immagine accecante, ho pensato, tutta la contraddizione del mondo in cui viviamo, erompeva come un’epifania. Eh già, un’epifania della prostituzione collettiva. Quell’arroganza da smorto ottimismo che porta chi vende qualcosa a manifestarlo con quell’aggressivo “siamo sempre sul pezzo“, è faccia della stessa medaglia della strafottenza di colui o coloro che avevano diserbato a morte quel povero campo. Una vigna da cui verrano fuori delle bottiglie di vino vendute ad un prezzo plausibilmente stracciato per masse di clienti anonimi. Acquirenti da supermercato che continueranno a giustificare la loro medesima strafottenza di consumatori qualunque con la solita scusa dell’indigenza e della ristrettezza economica a vita, così a scaricabarile come in una catena di Sant’Antonio della noncuranza e dell’inciviltà diffuse.
Tuttavia ora è necessario come il pane che la diffusione orizzontale delle conoscenze sia condivisa tra la maggior parte delle persone in barba ai pregiudizi costruiti ad hoc dalla Rete. Sarà cioè sempre più vitale mantenere alta l’asticella dello spirito critico in aperto contrasto agli algoritmi faziosi che vorrebbero sostituire le nostre coscienze autonome con le loro allucinazioni numeriche, umiliando senza pietà il nostro organismo pensante. Insomma, non dobbiamo mai tenere spento il livello di guardia dell’attenzione, bisogna evitare con tutte le nostre forze di farci lobotomizzare in massa, narcotizzare le coscienze dall’industria dei Like. Dobbiamo aver fede nel nostro intelletto insostituibile da qualsiasi AI (Artificial Intelligence) finanziata da qualche squaletto venture capitalist di San Francisco. Nella maniera più assoluta non possiamo permettere, è in gioco la dignità umana, che un’Intelligenza Artificiale generata dalle macchine, a loro volta create da noi, ci rimpiazzi senza autorizzazione, nonostante abbiamo già tutti svenduto i nostri dati e la nostra anima al diavolo dei social media. Facciamo in modo che uno strumento tecnologico resti tale, senza farci prevaricare. Perché in fin dei conti è solo uno strumento inventato da noi potenzialmente per aiutarci a vivere meglio e non – si spera – per accelerare il processo della nostra definitiva autodistruzione.
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Cinema e vino, giusto qualche concatenazione vagante
Il montaggio è tutto diceva Orson Welles. Il montaggio è tutto anche per Hitchcock che in Psycho (1960) era affiancato da George Tomasini alla moviola. Folgorante la graduale, rapidissima sovrapposizione d’immagini quando il teschio della mamma combacia – il tempo di qualche fotogramma – sul volto di Norman Bates che nella sua psiche sdoppiata si è ormai definitivamente trasferito alla “personalità” della madre.
“We all go a little mad sometimes.”
Provo allora a fare un piccolo montaggio errabondo delle scene di Hitch dedicate al vino, è solo un gioco mentale per puro divertimento mio che ne scrivo e magari sarà divertente pure per chi legge.
In Rear Window – La Finestra sul Cortile (1954) Lisa Fremont (Grace Kelly) ordina una cena in casa dal mitico 21 Club da consumare assieme al fidanzato con la gamba ingessata L.B “Jeff” Jeffries (James Stewart) nel suo appartamento di scapolo al Greenwich Village.
Il vino è un Montrachet, è tutto quello che sappiamo. “It’s a Montrachet” dice la bellissima ed elegantissima Grace Kelly. Al bicchiere sembra un orange wine o è un vecchio Montrachet ossidato? Pare che in un’intervista Hitch abbia dichiarato di aver usato un banale Puligny Montrachet Rosè de Pinot Noir. Il grande regista inglese attraverso questi dettagli relativi ai personaggi presumo abbia voluto evidenziare ancora di più la personalità di Lisa molto raffinata, attenta ai dettagli del buon vivere per cui lo avrebbe senz’altro riconosciuto fosse stato un vino andato a male, oltretutto stappato da un dipendente del 21 Club che avrebbe dovuto a sua volta riconoscerlo qualora ci fosse stato un difetto. Forse negli anni cinquanta in Borgogna, come in tante altre zone vinicole del mondo, i vini bianchi mantenevano ancora un minimo legame con le bucce di partenza? Forse non erano ancora diventati quella bevanda scialba e smorta, sterilizzata di sostanza, chiarificata a morte, filtrata all’eccesso fino a produrre quelle odierne oscenità farmaco-enologiche trasparenti giallo-paglierine in circolazione ovunque, bevande idroalcoliche inutili che in molti si ostinano ancora a definire “vino”?
La relazione Jeff/Lisa – tema preponderante in Hitchcock – è il matrimonio come gabbia e degrado del sentimento. Jeff è un fotografo squattrinato, un avventuriero sempre in giro a caccia di foto uniche in zone pericolose del mondo ora momentaneamente bloccato sulla sedia a causa di un incidente. Lisa invece è una figlia della agiata e superficiale high society di Park Avenue nella quale vive ma da cui si distingue nettamente per eleganza, per bellezza non solo esteriore.
Il film si chiuderà in maniera ambigua, a lieto fine probabilmente per Lisa che riuscirà a strappare una promessa di matrimonio a Jeff. Lui dopo aver visto la morte con gli occhi si ritroverà anche con l’altra gamba ingessata. Lei legge un libro sull’Himalaya subito sostituito da una rivista patinata d’alta moda. “Perché andare sull’Himalaya quando abbiamo scalato il K2 al Greenwich Village?” Sembra suggerire nel finale il regista allo spettatore attraverso lo sguardo ammaliante di Lisa. La rivista patinata riflette la passione di Lisa per la moda come a dire, “matrimonio o non matrimonio ognuno è in gabbia nella propria personalità”. E intanto lo tiene incastrato a sé ancora per un pò, almeno finché la seconda ingessatura guarisca.
Tornando al vino nel film. E se fosse un semplice sidro o un tè? Considerazione più che legittima direi. Perché stappare una bottiglia così costosa quando l’illusione del film può farti credere che stai stappando un Montrachet ma in verità è un sidro da pochi soldi o un tè da prove di scena? Hitchcock era sí scrupoloso, perfezionista, maniaco del dettaglio ma era anche un uomo molto pratico non un fanatico della realtà alla Stanislavski che nelle scenografie teatrali pretendeva un’accuratezza ossessiva anche negli oggetti e nei dettagli fuori scena – fuori cioè dalla visione del pubblico – perché gli attori non dovevano fingere di essere solo dei personaggi ma erano quei personaggi. E se fossero i colori della pellicola, l’atmosfera crepuscolare con le luci rosse sullo sfondo della scena ad alterare il colore del vino nei bicchieri? Il vino nel bicchiere, ribadisco, non è un bianco limpido e chiarificato borgognone come siamo abituati da decenni a questa parte. Questo è piuttosto evidente, a prescindere dal timbro fotografico della pellicola. E se fosse lo stesso brandy che sorseggiano poco più avanti durante il film? Anzi se quello che ci viene presentato come brandy fosse a sua volta tè, sidro o Puligny Montrachet rosè? Sono certo comunque che la gran cura dei dettagli di Hitch, che era anche un buongustaio, non l’avrebbe mai portato a confondere/manipolare il pubblico con densità e colori di bevande diverse, e questo non tanto per uno scrupolo di ordine morale bensí per rigore estetico.
Cary Grant ovvero John “The Cat” Robie, in Caccia al Ladro – To Catch a Thief (1955), versa due bottiglie all’assicuratore inglese. In terrazza è una bottiglia coperta, una bordolese. A tavola invece all’apparenza sembrerebbe un vino alsaziano dal formato della bottiglia, probabilmente un rosato o un pinot nero molto scarico. Certo potrebbe anche essere un vino della Mosella o del Reno ma il fatto che il film sia girato sulla Riviera francese ci lascia immaginare che anche il vino sia d’origine francese.
Più avanti durante il film l’implacabile, americanissima signora Jessie Stevens di Tulsa Oklahoma, madre ricca e volgare di Frances interpretata ancora da Grace Kelly al suo più magnetico grado di sensualità, afferma tranchant: “Io bevo solo bourbon. Versate pure lo champagne nella Manica.”
“Bourbon’s the only drink. You can take all that champagne stuff and pour it down the English Channel. Well, why wait 80 years before you can drink the stuff? Grape vineyards, huge barrels aging forever, poor little old monks running around testing it just so some woman in Tulsa Oklahoma can say it tickles her nose…”
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Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico, per non pensare troppo al mondo di oggi
Pensiamo al mondo antico, all’ubriachezza e alla sobrietà nel mondo passato, per non pensare troppo al mondo presente, un mondo ottenebrato dal virus SARS-CoV-2 e dalle sue varianti insidiose che non danno tregua, non concedono neppure un attimo di quiete né la spensieratezza d’ubriacarsi in pace, viaggiare tranquilli, scopare in libertà.
Aspettiamo ancora un attimo però. Non vorrei subito cedere alle lusinghe del mondo antico. A sprofondare, a perderci in esso come in un paradiso d’oppio. Facciamo un salto a qualche decina d’anni fa. Siamo agli inizi degli anni 30, nel pieno della Grande Depressione, forse il momento più buio, almeno fino all’anno scorso, dell’era industriale. Una coppia di gangster in fuga si esercitava a sparare su una casa di poveri contadini espropriata dalle banche. La famiglia dei contadini, prima di emigrare, passa per dare un ultimo saluto a quella che era la proprietà sottratta loro dal sistema bancario. I due gangster si presentano:
<<Lei è Bonnie Parker. Io sono Clyde Barrow. Rapiniamo banche!>>
Dal capolavoro cinematografico di Arthur Penn, Bonnie and Clyde (1967).
Riportato a oggi, marzo 2021, dopo un anno di pandemia di COVID-19 e sue mutazioni, questo scambio folgorante nell’America sfigurata dai vortici della Great Depression, tra i contadini rapinati dalle banche e Bonnie & Clyde che le banche le derubavano sul serio, può suonare un po’ macabro. Macabro perché? Perché con l’aria che tira ora, presto saranno in tanti a finire in bancarotta, a indebitarsi con le banche o l’Agenzia delle Entrate, questo a prescindere dai decreti degli azzeccagarbugli, dai labirinti burocratici dei fondi salva stati e i superbonus ad uso di chi, al solito, ne ha meno bisogno. Perché poveri e disperati in situazioni di crisi saranno ancora più impoveriti, preda della disperazione. I ricchi invece, gli ammanicati ai politici, ai palazzinari, ai leccaculo e ai traffichini di turno, questo si sa, si arricchiscono ancora di più, tanto in provincia che in città.
È trascorso un anno che ha rilevato man mano una discrepanza sociale enorme tra quelli che lavorano con le mani o nei servizi dove è prevista la presenza fisica (muratori, camerieri, baristi, parrucchieri, meccanici, contadini, medici, infermieri, il sepolcrale sottobosco delle Partite Iva…) e quelli che lavorano in ufficio davanti a un computer (banche, poste, amministrazioni pubbliche, statali, insegnanti, speculatori di borsa, militari…) tranquilli tranquilli, almeno per ora, in “smart working“. Un anno di confusione totale sul virus, sulle mascherine, sui vaccini. Confusione fraudolenta incoraggiata malignamente dai mezzi di comunicazione di massa che hanno provocato, in modo irreversibile, un senso d’insicurezza e instabilità perenni. Più di un anno ormai, alternato a quarantene di settimane o mesi e riaperture a zone colorate che ci ha reso tutti più suscettibili, tormentati, smarriti. In bilico sull’abisso come quell’equilibrista matto da una vecchia foto scovata su internet. In equilibrio precario sulle sedie dalla cima di un grattacielo.
In questa altalena di sbalzi d’umore e pensieri nerissimi (a proposito delle zone a colori), concentrarsi sulla lettura di libri appassionanti può rappresentare un ottimo esercizio spirituale. Un diversivo proficuo, una forma di protezione della mente se volete. Vogliamo definirla volontà di potenza per astrazioni somme? Ecco, forse anche meglio: una passione insana verso distrazioni vagabonde. Anzi no, un vero e proprio viaggio iniziatico della coscienza che ci ammaestri ad osservare le cose a noi più prossime ma con la giusta proporzione d’impulsi emotivi, cioè alla dovuta distanza di sicurezza e senza soffocarci con un senso immane d’impotenza lungo il frenetico arco temporale della storia umana. Affascinante pensare perciò all’uva di 60 o 50 mila anni fa. Sessantamila o cinquantamila anni fa le viti, i grappoli d’uva, ma ve l’immaginate? Quando l’uva era il nutrimento base delle civiltà di matrice Mediterranea? Che sapore, che colore, che spessore poteva avere quell’uva selvatica? Era aspra, dolce, allappante, acidula, succosa? Dai semini abbrustoliti, ci si preparavano dei panetti impastati con legumi, miele e frutta secca? Che faccia avranno fatto – buffa offuscata ebete erotica grottesca rancorosa sessuale fosca – le prime comunità di uomini e donne intenti ad assaggiare il liquido originato dall’uva fermentata e tramuta in alcol? Quali o come saranno state le reazioni d’intossicazione degli esseri umani primordiali il cui organismo non era certo troppo abituato ad assorbire bevande alcoliche nel proprio interno? Era un’ubriachezza di natura molesta, malinconica, psicotica, arrapante, febbrile, aggressiva, funebre, gioiosa, timida, omicida?
Leggevo in Paolo Nencini, Ubriachezza e sobrietà nel mondo antico. Alle radici del bere moderno (Gruppo Editoriale Muzzio, 2009):
<<In una grotta del Monte Carmelo, la cui occupazione è databile tra i 60 e i 48 mila anni fa, e quindi durante il Paleolitico medio (cultura di Mouster), sono stati trovati semi abbrustoliti di Vitis vinifera selvatica attorno al focolare, mischiati a semi di varie specie di legumi, a pistacchi e ghiande. È interessante osservare che in tale sito sono stati trovati solo due semi d’orzo selvatico. È pertanto probabile che, ancor prima dell’avvento della rivoluzione cerealicola, gli abitanti della Palestina paleolitica contassero sull’uva come fonte di nutrimento.>>
Riprendo in mano la mia vecchia copia de L’Educazione Sentimentale (Gli Struzzi 60 – Einaudi) “Il romanzo dell’illusione”.
Nelle ultime pagine, il paio di pagine lasciate in bianco dopo l’elenco degli altri 59 titoli pubblicati nella collana Gli Struzzi, difatti questo di Flaubert era il numero 60, ritrovo scarabocchiato a matita un appunto di viaggio, un abbozzo dal vago sapore impressionista. Sono passati nove anni, ero in Svizzera per motivi di lavoro, frequentavo una fiera di vino che si svolgeva due volte l’anno, una in primavera l’altra in autunno.
Questo che segue è l’appunto che ho dovuto decifrare manco fosse un geroglifico nonostante l’abbia scritto io, un io ormai vecchio di quasi dieci anni. Un io illusorio come è quello attuale o sarà quello futuro.
Domenica a Basilea
Il Reno si trascina orizzontale lungo le abitazioni e le chiese di Basilea, sui ponti scorrono i tram verdastri. Trasversalmente, a intervalli di pochi minuti, chiatte merci risalgono la corrente. Sulla banchina uomini e donne corrono, a piedi e in bicicletta. In fondo alla direzione del fiume, dal boccalone della ciminiera sbuffano sbocchi di fumo nero, è l’inceneritore mentre aggrega montagne di nuvole che ritorneranno al Reno sotto forma di pioggia tossica.
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Morte innaturale dell’aggettivo naturale
Vino naturale
Sale naturale
Lievito naturale
Shampoo naturale
Morte naturale
La pubblicità nei confronti servili dell’economia globale svolge il ruolo di addomestica-cani. L’abuso merceologico fino alla nausea tende a snaturare il significato originario di un aggettivo. Lo depotenzia di senso. Castra la sua portata vitale. Spegne con brutalità la sua carica d’energia espressiva ridicolizzandolo quale etichetta fra mille negli anonimi scaffali del mercato dove si svendono sogni a saldi e creme “naturali” anticellulite un tanto al chilo. Il marketing è la escort a ore del commercio.
Alla fine della fiera una volta associato l’Inno alla gioia (An die Freude) della Nona Sinfonia allo spot di un assorbente o di una pastiglia contro la cacarella a spruzzo non riusciremo più ad ascoltare Beethoven con le stesse orecchie di prima.
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Il Mondo Buono e la Cattiva pubblicità
Con l’angoscia nel cuore, proseguo alcuni ragionamenti sulla falsariga di una meditazione anacronistica da Persuasori occulti nella cupa era Cambridge Analytica, già intrapresa qualche settimana fa in merito alla pubblicità che parla al culo più che al cervello della gente.
Coltivazione sostenibile
comunità di Agricoltori
Biodiversità
insetti impollinatori
Presentate così in grassetto a rimarcarne la centralità, queste parole-chiave esprimono tutta una serie di immagini pseudo-etiche e pensieri benigni (benigni almeno sulla carta) che rimandano all’ambito altruistico dell’attenzione, della cura, dell’impegno, della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Se tentiamo di scrostare quel grassetto in PVC come fosse una finta ceralacca ci accorgiamo però subito di essere in presenza di una mistificazione bella e buona. Siamo cioè davanti alla tipica, maligna operazione di marketing che abusa a scopi di lucro dei magnifici ideali e dei concetti generosi oltre i quali, (cioè oltre il grassetto), restano solo parole smorte, gusci marci svuotati di sostanza a raccontare una merce alimentare seriale: farine biscotti succhi panini salumi vini formaggi. Una merce neutra altrimenti anonima senza la poesia suggestiva degli aggettivi, impoverita di sapore, sterile di proprietà nutritive, uniformata all’appiattimento, priva di gusto e consistenza che lascia in bocca nulla più che frustrazione, malcontento, amarezza.
Oltretutto questo genere di operazioni pubblicitarie stucchevoli da parte delle grandi industrie alimentari con tutta la retorica fasulla della Coltivazione sostenibilee dellaBiodiversità, depotenzia all’origine il messaggio finale di quelle poche produzioni artigianali invece che sono veramente costituite da una comunità di Agricoltori. Una comunità contadina dispersa e disperata che con enorme fatica lotta per la propria sussistenza nella guerra senza quartiere dei prezzi stracciati. Una guerra persa per le sparute comunità di contadini e agricoltori. Una guerra a senso unico sempre vinta dalle stesse industrie poiché la comunità degli agricoltori scrupolosi è a rischio d’estinzione se non è già estinta. È merce sempre più rara infatti quella dei contadini, dei vignaioli, degli allevatori che fanno quel che dicono e provano a dire quel che fanno se non altro esprimendolo attraverso la sostanziosità e la bontà dei loro prodotti al vertice di una catena alimentare quanto più naturale, autentica e trasparente.
Autentico, naturale, trasparente. Ecco altri aggettivi ambivalenti che riportati in grassetto dai soliti fenomeni da baraccone e cantastorie mal assortiti della comunicazione, sviliscono immediatamente la portata profonda del senso che contengono. Così pure come sostanzioso, buono, genuino. Siamo sempre lì (rimando qui), il problema non sono mai le parole in sé ma l’uso/abuso che se ne fa in chiave ideologica ovvero economica, sociale e politica. Le parole difatti, a seconda della visione generale di coloro che le usano/abusano, complici gli studi legali onnipotenti e i profitti elefantiaci, possono essere specchietti per le allodole utili ad accalappiare quanti più consumatori acefali, acquirenti superficiali, utenti inconsapevoli. Oppure le parole sono specchi di verità. Le verità specchiate di un prodotto buono, genuino e rispettoso in sé (aggettivi a rischio di essere in grassetto) che non rifletta necessariamente l’auto-gratificazione di chi lo fa o che rimandi soltanto alla visione narcisistica di quello che vogliamo vederci riflesso noi. Un prodotto buono e rispettoso sarà radicato alla propria sostanza originaria che quantomeno possa stimolare ad un consumo più critico accrescendo una conoscenza concreta, educando a un gusto personale meno condizionato dagli slogan falsificanti considerando che il gusto medio della gente è oggi quasi del tutto manipolato e in balia dell’ingegneria degli aromi.
È mai possibile quindi ragionare di verità in relazione alla produzione del cibo? Credo di si! È una verità insomma di natura tanto etica quanto estetica la quale sia nutrita da prodotti alimentari non di sintesi, originati da materie prime il meno processate possibile che sappiano innescare nelle persone in carne e ossa, individuo per individuo, una capacità di discernimento dei sensi quanto più solida, coltivata, approfondita e ragionata. Bontà, unicità e bellezza di un cibo o una bevanda non artefatti né banalizzati a catena di montaggio ma espressione di una cultura profonda dello scambio, rispettosa delle singole differenze sia da parte di chi produce e vende che da parte di chi compra e riceve, tutto qua!
In merito alle verità tascabili relative che ognuno di noi pretende di custodire nella propria saccoccia quali verità cosmiche assolute, ricordo il grande poeta mistico sufi persiano Jalāl al-Dīn Moḥammad Rūmī (1207-1273):
La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe… Ciascuno ne prese un pezzo e vedendo riflessa in esso la propria immagine, credette di possedere l’intera verità…