Giorni fa ad Orvieto ho colto al volo una felice occasione di ritrovarci con alcuni dei più fulgidi nasi scintillanti umbri. Appuntamento al caffè Montanucci per inerpicarsi su un trasversale e spassoso itinerario sensoriale condotto dall’amico Giampiero Pulcini sempre animato dal sacro fuoco istruttivo che lo contraddistingue ben dosando un giusto sentimento delle proporzioni a misurata dissimulazione pedagogica.
Vino e Visione il titolo programmatico dei sorseggi alla cieca che ci sta a ricordare la difficile arte (direi pure l’artigianato) del guardare innanzitutto in se stessi poi del saper osservare sia dentro a un calice di vino sia attraverso un’immagine che paralizza in una fotografia un determinato istante di vita non più replicabile, come scriveva ad esempio Roland Barthes:
“Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente.”
Visto quanto mi aspettava per la serata sicuramente ricca d’analogie, di metafore audaci di vertiginose figurazioni antropomorfiche, nei quattro passi per raggiungere il luogo dell’incontro dalle parti del Duomo imponente a voi tutti noto con i bassorilievi apocalittici dello scultore Lorenzo Maitani, salendo sui gradini di una scalinata e prima ancora d’aver sorbito neppure una lacrima di vino sono incappato in questa elementare visione premonitrice. Tre gatti perdigiorno, – non mi addentrerò troppo sul gender sessuale degl’accoppiamenti felini – di cui uno attivo intento all’azione scopereccia, uno passsivo invece disponibile all’amplesso – entrambi esibizionisti come mi pare evidente – e un terzo (tertium non datur) sornione, sporcaccione più degl’altri e voyeur cioè guardone e scopofilo quanto me, io cioè, il quarto della lista pur se apparentemente umano, con l’iphone a portata di scatto pronto ad osservare-immortalare chi già era indaffarato nel fare e nel guardare, – quei tre gattacci appunto -, a mia volta forse ripreso-perpetuato da una telecamera a circuito chiuso sospesa proprio sul vicoletto.
Proponimenti alla base dell’incontro al Montanucci il desiderio leale di approcciarsi – di far approcciare – la gente al vino con un maggior bilanciamento di “istinto memoria emotività” ed ironia aggiungerei io, cosa che Giampiero è riuscito ad illustrare col solito piglio coinvolgente, witz perspicace e toni persuasivi, sicuro di un understatement da filibustiere navigato ormai da anni nel “mare color del vino” in cui è facile gioco naufragare, discutendo di contenuti temi e questioni accessibili ai partecipanti – sia gli iniziati che i consumati – ma mai banalizzando con accenti astrusi o contegni distaccati, attitudini impettite e pose bacchettone cosa che ahimè è ormai da troppo tempo stucchevole prassi in tante rattristate situazioni degustative di tal specie.
Le linee guida richieste da questo divertissement sinestetico svolto per un paio d’orette, – lui Giampiero assieme a noi altri teosofi delle uve fermentate e ad un nutrito coro di curiosi, appassionati più qualche addetto ai lavori, – sono risultate essere molto limpide e semplici fin da subito: bisognava cioè liberarsi la testa le narici lo sguardo il palato da qualsiasi preconcetto accademico. L’istinto non si insegna tutt’altro il più delle volte anzi viene addomesticato se non addirittura castrato dall’eccesso di regolamenti a rischio di depotenziare l’impulso liberatorio sterilizzando l’immaginazione creatrice alla radice di ognuno di noi. Orale o scritta, non c’è nessuna legge veterotestamentaria valida che possa imporsi ai nostri sensi, nessuna prestabilita regola inoculata da frigidi protocolli di scuola sommelieresca che possa sopraffare l’unicità percettiva di ogni singolo individuo. Siamo infine solo noi con la nostra immaginazione anarchica, tante solitudini raggruppate assieme davanti ai vini nel bicchiere e di fronte a delle immagini cui abbinare le nostre sensazioni suscitate volta per volta all’osservazione, all’annasata quindi all’assaggio.
Certo il punto nodale qua allora è un altro. Secondo me è il nucleo del linguaggio il vero perno della questione perché poi a questo si riduce tutta la materia del vino parlato, interpretato e ascoltato che si faccia narrazione delle impressioni, resoconto d’attributi, gioco linguistico, costellazione d’aggettivi, gomitolo di proiezioni-ricordi-memorie innescati dall’abbinamento vino/foto come in questo nostro caso orvietano ad esempio a simulazione divertita dell’assai più dogmatico abbinamento cibo/vino. È proprio qui l’aspetto più interessante della faccenda allora, che poi da gioco si fa sempre più serio e possa tramutarsi in un buon esercizio autocritico utile ad allenare il linguaggio dei nostri sentimenti; una sana abitudine cioè a manifestare le nostre capacità descrittive che ci faccia adatti ad esprimere con maggior cura delle sensazioni sempre meno aleatorie o superficiali ma ancor più precise, approfondite, distinte ed attinenti che aderiscano meglio cioè alla nostra più autentica interiorità psichica e sfera emotiva. E qui allora penso al Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche:
“Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più”
Otto quindi i vini serviti alla cieca durante il corso della serata. Otto differenti sfumature cromatiche dal biancogiallino verdognolo trasparente passando per l’ambrato oro zecchino ossidativo all’amaranto tenue al rosso acceso fin al violaceo spinto. Otto territori completamente diversi l’uno dall’altro, distribuiti in due batterie da quattro che sono stati così fantasiosamente abbinati a quattro foto gigantografate appese su appositi cavalletti in un punto della sala offerte in pasto, (in bevuta sarebbe più consono) allo sguardo del pubblico borbottante scrutante annusante degustante. Un pubblico sopratutto che irraggiava quei certi sorrisi e quell’entusiasmo genuino che hanno incoraggiato una parlantina mai troppo accessoria ma anzi con buona pace e una gran disposizione dei presenti all’esperimento sociale di gruppo. E tutto questo senza mai prendersi troppo sul serio evitando così qualsiasi prescrizione fondamentalista se non si voleva poi cadere, di rovescio, nello stesso tranello retorico da cui si stava tentando di sfuggire cioè quello della degustazione tracotante, standardizzata a modellino usa-e-getta fatto di punteggi molesti, descrittori pseudoscientifici, vanagloriosi elenchi con la solita solfa d’aggettivi riciclati, pleonasmi monocordi, pappette autoreferenziali, sulfamidici recitati da pinguini ricercatori di pagliuzze negl’occhi altrui col tastevin a forma di trave conficcato nell’occhio. Evitare come la peste insomma che eliminato un idolo lo si sostituisca poi però subito con un altro magari ancora peggiore del precedente!
Dopo aver coinvolto la sala intera nel prolifico scambio di analogie personali, impressionismi rapsodici ed associazioni di idee tra vino-sentori-raffigurazioni fotografiche, le due impetuose batterie hanno dato avvio allo smutandamento successivo dalla carta argentata che copriva le bottiglie così che si son visti sfilare i seguenti vini proprio nella medesima successione in cui li abbiamo bevuti noi quella sera stessa:
Domaine Gauby 2013 Les Calcinaires (Côtes Catalanes) un uvaggio di Muscat, Macabeau e Chardonnay nella regione della Languedoc-Roussilion.
Vernaccia di Oristano 2001 dei Fratelli Serra (Sardegna).
Rossese di Dolceacqua Testalonga 2013 di Antonio Perrino (Liguria Riviera di Ponente).
Collecapretta Vigna Vecchia 2014, Trebbiano Spoletino di Vittorio Mattioli (Umbria alle pendici dei monti Martani).
Côtes du Jura Domaine Macle 2009, Chardonnay e Savagnin (dalla denominazione Château-Chalon nel Jura in Francia).
Barbacarlo 2012 di Lino Maga una composizione promiscua come tradizione contadina comanda di Croatina, Uva Rara, Ughetta (ovvero Vespolina) e forse della barbera, (in Provincia di Pavia nell’Oltrepò Pavese).
Barolo Paiagallo 2010 di Giovanni Canonica ovviamente nebbiolo in Langa, che guarda caso ne avevo aperto una bottiglia mesi prima trovandola sfortunatamente tappata ed è stato quindi una piacevole sorpresa che Giampiero ha voluto dedicarmi con affetto e quale omaggio alla cattiva memoria della precedente bottiglia che sapeva di tappo, facendola smutandare a me di persona; ultima boccia dell’intera sequenza a commiato di una serata tanto estrosa quanto appassionante, fasciata dal velo magico-protettivo della condivisione.
Gli scatti che seguono al centro di tutto questo serio svago tra vino e visione, sono del fotografo Luca Marchetti, questi appunto i soggetti rappresentati dalle quattro tele in ordine così come erano anche disposti in sala quella sera a partire da sinistra verso destra:
Cinciallegra colta in volo sopra una palizzata con filo spinato e qualche filo d’erba secca.
Primo piano di un elefante colto di fronte: scorcio di proboscide e occhio sinistro torvo, intenso, rattristato, condannato… possiamo elencare tutti gli aggettivi che ci passano per la mente tanto non sarebbe che forzatura emotiva ed antropomorfizzazione cerebrale.
Conceria nordafricana, uomo seminudo in piedi si riposa rilassato di spalle al sole tra quelli che sembrerebbero i tepori termali di un hammam mentre invece prende una tregua dalle fatiche del lavoro.
Ragazzina o donna ritratta da dietro mentre procede avanti in quello che appare essere un paesaggio offuscato, notturno e lunare.
Commenti disabilitati su Tacere a voce alta nell’età del frastuono informatico
C’è tutta una tradizione spirituale e filosofica sia in Occidente che in Oriente indirizzata ad una sorta di mistica del silenzio. Da Laozi a Sant’Agostino da Pirrone lo scettico a Nietzsche e Wittgenstein fino alla prescrizione – nei saecula saeculorum – costrittiva, cupa, ossessionata, quasi minacciosa del silenzio osservato dai monaci di clausura. Il Grande Silenzio è per l’appunto anche il titolo di un bellissimo documentario di Philip Gröning del 2005 che ritrae la quotidianità di alcuni certosini nel monastero della Grande Chartreuse sulle alpi francesi vicino Grenoble.
Giorni fa ad una serie di commenti e commenti dei commenti innescati a cancrena esegetica da un mio post di facebook su un libro inutile eppure letto da milioni di persone, un amico virtuale mi stimolava – forse a torto forse a ragione – sui temi robusti dell’osare, del sapere, del potere e del TACERE. Ho subito pensato che l’argomentazione sbrigativa per quanto scaturita su una piattaforma futile e spiccia qual’è Facebook, per quanto asciutta e mordi-e-fuggescamente argomentata custodisse in sé la stessa dose di ragione quanto di torto, infatti pensavo – lo penso tuttora – che poter tacere – sospendere qualsiasi opinione, impressione, punto di vista, giudizio – sia sempre più un’impresa titanica, una destinazione inarrivabile nell’epoca nostra della frastornante comunicazione di massa in cui tutti si parla e sparla uno in sovrapposizione dell’altro e comunque alla fine dei conti, per non dir nulla di così sostanzioso; l’era digitale dell’indicizzazione impazzita su Google, delle notifiche di Twitter propagate quasi alla velocità del suono nello schiamazzo dei social quale rumore assordante di fondo, campo magnetico sonoro perenne ad ovattare le nostre vite quotidiane di cellophane; un rumore bianco (White Noise) cui tutti comunque si partecipa e che si subisce come un sopruso necessario anche supponendo di non parteciparne, standosene zitti e muti in disparte. Quanto detto fin qui crediamo riguardi solo il frastuono acustico, ma del Big Bang visivo a cui siamo ossessivamente sottoposti ogni giorno dallo schermo del pc ai milioni di cartelloni pubblicitari per strada agli sponsor video-animati? Del rombo di immagini che ci assordano la vi(s)ta che ci bombardano a sangue i bulbi oculari – armi di distrazione di massa – vogliamo parlarne o meglio tacere appunto anche qui? Come osare quindi il silenzio oggi se non costringendosi ad uno stoico sordomutismo clinico ad un accecamento auto-indotto tanto per rivitalizzare la tragedia dell’Edipo re di Sofocle nella nostra standardizzata epoca della farsa globale?
Traduco una piccola recensione di Maria Popova su Brain Pickings che propone un testo di Paul Goodman su linguaggio e silenzio in difesa delle ragioni della poesia che credo non sia mai stato tradotto in italiano. Goodman è autore poco conosciuto dalle nostre parti disperso tra qualche coraggiosa piccola casa editrice resistenziale, noto forse per un libro degli anni ’60 ora più che mai attuale: Gioventù Assurda sul disadattamento, sul disagio di crescere nel labirinto sociale delle grandi metropoli d’America, che mi pare però non sia mai più stato ristampato da Einaudi fin dal 1971.
Paul Goodman e le 9 forme di silenzio.
“Devo imparare a tacere” così il giovane e risoluto André Gide nel suo diario. Ma che tipo di silenzio intendeva esattamente? Nel capolavoro del 1972 Speaking and Language, che è anche l’ultimo lavoro pubblicato in vita, il grande romanziere poeta drammaturgo e psichiatra del XX secolo, Paul Goodman – soprannominato anche: “l’uomo più influente di cui abbiate mai sentito parlare” – esamina nove possibili forme di silenzio.
“La voce di Paul Goodman è una voce autentica”, come avrebbe scritto Susan Sontag nel suo bellissimo elogio funebre una settimana dopo la morte di Goodman nel mese di agosto di quello stesso 1972. “Dai tempi di DH Lawrence non c’è stata nella nostra lingua una voce tanto convincente, genuina e singolare.” Nel suo squisito inno in lode al silenzio, pieno di ciò che Sontag definisce le sue “serpeggianti e pazienti spiegazioni nei meandri d’ogni cosa,” la voce di Goodman si riversa nei suoi più singolari riverberi.
Un esempio di quanto scrive Goodman:
“Non parlare e parlare sono entrambi modi umani di stare nel mondo, e ci sono ordini e gradi per ciascuno di questi modi. C’è l’ammutolito silenzio dovuto al sonno o all’apatia; il silenzio sobrio che si accompagna al volto di un animale solenne; il silenzio fecondo della consapevolezza, pascolo dell’anima, da cui maturano sempre nuovi pensieri; il silenzio vivo della percezione vigile, pronto a dire: “Questo… questo…”; il silenzio musicale che accompagna l’attività assorta; il silenzio di ascoltare un’altra persona parlare, trasportarla alla deriva per poi aiutarla ad esprimersi con più chiarezza; il silenzio rumoroso del risentimento e dell’auto-accusa, discorso forte, sottaciuto ma imbronciato da dire; il silenzio della perplessità e dello sconcerto; il silenzio dell’armonia pacifica con le altre persone e in piena fusione col cosmo.”
Non fateci caso, esatto, l’immagine del video è una vera schifezza fantasy-kitsch ma non si trova altro in rete, chiudete quindi gl’occhi e godetevi questa perla musicale del 1963 scritta da Túlio Piva cantata da Elis Regina al suo terzo album [Orquestra Sob a Direção de Astor].
Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação
Sababatemtem
Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação
O pandeiro já não faz o que fazia
Violão só é na base da harmônia
Silêncio! Atenção!
Por que o Samba já tem outra marcação
A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova
O pandeiro já não faz o que fazia
E o violão só é na base da harmônia
Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação
A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sempre sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova
Silêncio, escute com muita atenção
O Samba já tem outra marcação
Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação
O Samba já tem outra marcação
E essa é a nova marcação
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Navigando nel mio sito alla sezione intitolata “references” che elenca una vertiginosa ma mai abbastanza esaustiva lista dei link di riferimento – una categoria che generalmente raccoglie altri blog preferiti ed è perciò definita blogroll – potete trovare un rimando agli archivi digitalizzati e gratuitamente scaricabili delle migliaia di libri d’arte dal Metropolitan Museum di New Yorke dal Paul Getty Museum di Los Angeles.
A queste due favolose collezioni si aggiunge ora la monumentale opera di diffusione democratica del sapere da parte della biblioteca pubblica di New York – The NYPL Digital Collections – che ha messo online a disposizione del mondo intero quella che è una vera costellazione di documenti, libri, foto, immagini, raccolte private, articoli, carte topografiche, riviste, manifesti, progetti urbanistici, mappe, atlanti… che non basterebbero una decina di vite per spulciarseli tutti con la dovuta calma e il misurato piacere della lettura. Possiamo (anzi dobbiamo) criticare con lucidità e argomenti legittimi questo mondo ipervirtuale e massmediatico nel quale siamo quasi costretti a vivere e lavorare, violentati dal giorno alla mattina da false notizie, notifiche insulse, informazioni disinformate, continuamente in allerta su cosa scremare di valido setacciandolo da tonnellate d’impurità, separare senza sosta il falso dall’autentico, il soggettivo dall’oggettività, tentando di non cascare a nostra volta nell’infelice, frustrante ed infecondo gioco del rincorrersi a vuoto delle pseudoverità virali, delle mistificazioni, delle pressapochezze di massa e delle bufale inventate di sana pianta sempre da qualcun altro tanto per gioco che per interesse o per puro spirito di zizzania.
Eppure una speranza ancora c’è, un modello politico valido per il mondo intero, un esempio di civiltà illuminata che pratichi il relativismo culturale, la tolleranza etnica, lo scambio di bellezza e conoscenze, l’abbraccio di intelletto e manualità attraverso la scrittura la lettura la ragionevolezza. Ecco, questa raccolta babelica di saperi collezionata dalla biblioteca nazionale di New York messa a disposizione libera dell’umanità digitale è il manifesto più attivo, concreto ed efficace della speranza di cui sopra a cui non possiamo dar fiducia se non partecipandone attivamente, concretamente ed efficacemente a nostra volta. Traduco di seguito la recensione a questo evento storico a cura di Erin Blakemore su smithsonian.com
Ti piacciono le vecchie foto? E antichi testi religiosi? Eliotipie d’epoca che illustrano alghe o felci? Sei fortunato: non è più necessario spegnere il portatile e fare un viaggio per vederli da vicino. Martedì scorso la New York Public Library ha annunciato d’aver rilasciato più di 180.000 documenti ad alta risoluzione scaricabarili all’istante per chiunque sia curioso e abbia accesso a un computer.
I download sono tutti di dominio pubblico e coprono di tutto, dalla cultura popolare alla storia alla scienza, la musica. Come scrive Jennifer Schuessler per il New York Times, la notizia qui non è necessariamente il rilascio del materiale in sé, molti documenti erano già da tempo in rete.
“La differenza”, scrive la Schuessler, “è che ora i file sono di più alta qualità e definizione, disponibili per il download gratuito ed immediato.” La NYPL ha migliorato il suo motore di ricerca visivo e per contrastare gli hacker la biblioteca sta rendendo l’API (Application Programming Interface) accessibile a tutti per l’utilizzo di massa.
Troverete un sacco di tesori all’interno della nuova raccolta: sfogliare le fotografie iconiche del sociologo Lewis Hine sui lavoratori infantili ai manifesti utilizzati durante la Guerra Civile Russa. Ancora più in basso, attraversate le porte della percezione di questo universo del sapere, si possono sfogliare le oltre 35.000 vedute stereoscopiche della collezione di Robert N. Dennis che combinano fotografie leggermente “compensate” tanto da aggiungere una profondità tridimensionale a immagini provenienti da diverse regioni degli Stati Uniti. Questa visualizzazione epica aiuta a rivitalizzare propositi e fascino della collezione.La biblioteca ha anche creato un intero reparto – l’NYPL Labs – volto a studiare modi innovativi d’utilizzo delle sue enormi collezioni digitali. Dall’inserire una mappa storica bidimensionale di Fort Washington, Manhattan nel mondo tridimensionale del videogioco Minecraft per dar vita un nuovo gioco (Mansion Maniac) che consenta agli utenti d’esplorare esorbitanti planimetrie residenziali d’inizio secolo a New York, ci sono molti precisi modi per esplorare la collezione della biblioteca.
Questa mossa è parte di una tendenza assai più ampia seguita da molte biblioteche e musei che stanno rendendo le loro collezioni disponibili online. Dai documenti presidenziali alle collezioni di mappamondi o immagini del fotogiornalismo storico, c’è una corsa per digitalizzare qualsiasi cosa da rendere tutto di pubblico dominio e disponibile al maggior numero di persone possibile. Shana Kimball la direttrice dei programmi pubblici e le relazioni sociali della NYPL, riassume meglio sul blog della biblioteca: “Nessuna richiesta di permesso, nessun cerchio attraverso cui saltare; basta solo andare avanti e riutilizzare!” Erin Blakemore smithsonian.com (7 Gennaio 2016)
Commenti disabilitati su Gastroetimologie Ultra Moderne
Un divertente esercizio di stile ad esempio, è tradurre neologismi di stampo alimentare da una lingua all’altra. Certo riadattare in italiano un termine che combinasse la parola mangiare alla parola etimologia con altrettanta semplicità, eleganza e nonchalance dell’inglese “eatymology” non era non è e non sarà cosa semplice. Io ho proposto il facile facile “gastroetimologia” – e perché no gastroglossario? – dopo aver scartato i francamente terribili pappetimologia (“dacci oggi la nostra pappa quotidiana”) e cucinetimologia.Ritengo ad ogni buon conto che il libro in questione nonostante la globalizzazione disarmante dei nostri giorni sia ancora molto (troppo) condizionato da una cultura anglofona sia grammaticale che gastronomica di base quasi esclusivamente americanocentrica – giochi di parole, situazioni politico-sociali, sottintesi ed equivoci culinari forse poco “appetibili” e non così “appealing” da “stuzzicare” il divertimento e la “fame” di sapere d’un lettore medio italiano. Lascio comunque all’eventuale traduttore ed editore italiani che s’arrischiassero nell’impresa di tradurre Eatymology, di trovar per fatti propri la loro migliore soluzione al cruccio linguistico/letterario. Intanto propongo un veloce “assaggio” – se non è proprio questo il caso di parlar d’assaggi – al Dizionario della Moderna Gastronomia di Josh Friedland.
La cultura del cibo ha dato il via ad una nuova “gastroetimologia”.
Il nostro panorama mediatico ossessionato dal cibo si dimostra terreno fertile per certi giochi di parole.
Abbiamo adesso nuove parole per descrivere ogni cibo di nicchia o preferenza gastronomica.
Non sopportate proprio quelle piccole pesti che continuano sfrenate a rincorrersi trai tavoli del vostro ristorante Coreano “fusion” preferito? Potreste essere affetti da mocciosofobia. O magari siete solo dei culinosessuali se invece usate le vostre abilità culinarie per attrarre ogni volta qualcuno di “molto speciale” alla vostra tavola.
Nel suo nuovo libro, Gastroetimologia (Eatymology), l’umorista e scrittore di cibo Josh Friedland ha raccolto molti di queste neologismi in un dizionario gastronomico del 21 ° secolo.
Friedland ha recentemente parlato con Rachel Martin di NationalPublicRadio, ospite del Weekend Edition Sunday. Momenti salienti di questa loro conversazione sono stati raccolti qui di seguito.Su “Lievito Madre Hotel” (sourdough hotel)
Sai quando uno si dedica a mantenere in vita il proprio lievito madre alimentandolo ogni giorno con la farina? A Stoccolma c’è questo posto, è un panificio, che se avete bisogno di andare in vacanza potete benissimo lasciare lì in custodia la vostra pasta madre. La terranno su uno scaffale della panetteria, alimentandola giorno per giorno al posto vostro mentre voi siete fuori. È come una pensione per gl’animali.
Su “frágurt” (brogurt) yogurt per uomini
Chi ha ideato questo yogurt per tipi tosti è stata quest’azienda la Potente (Powerful) Yogurt che commercializza yogurt per soli uomini. È ora sugli scaffali dei negozi e il loro bersaglio – si sa come va il marketing – sono i maschi che prendono bevande energetiche.
Su “anacardi di sangue” (blood cashews)
Questa voce si basa su un rapporto di Human Rights Watch sul modo in cui vengono fatti gl’anacardi in Vietnam, che è uno dei maggiori esportatori al mondo di queste noccioline. Vien fuori che in Vietnam le persone condannate per reati di droga sono inviate in centri di riabilitazione nei quali poi vengono fondamentalmente costrette ai lavori forzati per la produzione e lavorazione di anacardi pronti poi per essere esportati. È un’idea ovviamente che prende spunto da Diamanti di Sangue per intenderci. Quindi sì, alla fine il libro tratta temi esilaranti ridicoli ma anche abbastanza gravi.
Commenti disabilitati su La sola luce è nel buio oltre la ribalta
La scoperta più avvincente del 2015 l’ho fatta veleggiando su Twitter ed è Maria Popova, autrice ed animatrice del sito #BrainPickings (Frutti del Cervello) un vero e proprio “Inventario della Vita Eloquente” come dal significativo sottotitolo, da cui sempre su twitter raccolgo con gratitudine svariate notifiche appassionanti, un patrimonio di notizie scientifiche e divagazioni culturali notevoli assieme ai più disparati approfondimenti editoriali oltre a tanti altri frammenti di contemporaneità archeologiche sull’epoca rovinosa e datata già sul nascere che stiamo vivendo, ipertesti e documentazioni digitali su questo relitto di civiltà multimediale sopra cui sta assai velocemente naufragando la nostra era post-tecnologica, post-industriale e post-qualchecosa ma soprattuto posteriore o postuma a se stessa.
Traduco allora come un buon auspicio tutto al femminile per il 2016 questa recensione della Popova ad un libro di Rebecca Solnit che è una intensa riflessione sulla speranza, un manifesto dell’ottimismo che motiva all’azione nonostante la tanta disperazione economica politica sociale morale antropologica in cui siamo sommersi; è un’esortazione accalorata, una scossa che possa risvegliarci almeno un po’ da questa nostra perenne inettitudine di spettatori passivi nell’acquario o parco giochi della vita moderna, mummificati nel grigiore d’un anonimato ammiccante sempre celebrativo del successo altrui e di chi agisce a commiserazione patetica da vittime auto-sacrificali nei riguardi della propria impotente sconfitta e del fallimento di chi subisce lo spettacolo del mondo senza reagire.
“La vera luce risiede nel buio dietro la ribalta! ”
Penso sia davvero dura vivere oggi di speranza e sincerità nell’era del cinismo. Non è impresa facile resistere davanti ai cancelli della speranza mentre siamo bombardati da notizie disperate e continui atti di violenza, mentre continuiamo imperterriti a fronteggiare quotidinamente quello che Marco Aurelio enumerava come: “intromissione, ingratitudine, arroganza, disonestà, gelosia, scontrosità.”Non m’è riuscito di trovare una più lucida e radiosa difesa della speranza che questa di Rebecca Solnit proposta inSperanza nel Buio: Storie Taciute, Possibilità Scatenate (Nation Books 2004 pubblicato in Italia da Fandango) – uno snello ma potente libretto racchiuso nella scia dell’amministrazione Bush durante l’invasione dell’Iraq; un libro struggente che è cresciuto in modo più rilevante solo nel decennio successivo. Perdiamo la speranza, suggerisce la Solnit, perché smarriamo il senso della prospettiva – perdiamo cioè di vista “l’accumulo dei cambiamenti impercettibili ma accrescitivi”, che costituiscono il progresso rendendo la nostra epoca radicalmente diversa dal passato, un contrasto oscurato dalla natura non imprevista delle trasformazioni graduali punteggiate da tumulti occasionali.
Ognuna delle nostre vite trabocca di testimonianze personali che evidenziano questi cambiamenti culturali collettivi. Al tempo in cui sono nata io, nessuno avrebbe potuto immaginare che la guerra fredda sarebbe finita e una ragazza cresciuta nella Bulgaria comunista si sarebbe fatta strada da sola leggendo e scrivendo di libri editi in inglese seduta di fronte lo skyline di Manhattan; già solo un decennio fa, sarebbe sembrato inconcepibile che una tribù ben distribuita d’estranei in rete avrebbe racimolato un milione di dollari per alcuni rifugiati dall’altra parte del mondo attraverso un sistema di comunicazione globale istantanea di neo-telegrammi in soli 140 caratteri; solo un paio di anni fa era difficile pure immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui ognuno sarebbe stato in grado di sposarsi con chiunque si desideri amare.
Così scrive la Solnit:
“Ci sono momenti in cui non solo il futuro ma anche il presente ci pare buio: davvero pochi riconoscono in che tipo di mondo radicalmente trasformato stiamo vivendo, un mondo che è stato trasformato non solo da incubi quali il surriscaldamento planetario e il capitale globale, ma dai nostri sogni di libertà e giustizia – cioè trasformato dalle stesse cose che non avremmo potuto non sognare… Abbiamo bisogno di sperare nella realizzazione dei nostri sogni, ma anche di riconoscere un mondo che rimarrà ancora più ferocemente libero della nostra stessa immaginazione.”
Esponendo questo sentimento che mette in relazione la materia oscura alla materia ordinaria nella formazione dell’universo, la Solnit offre la metafora perfetta per rappresentare le sorgente della nostra inconsistente presa sulla speranza:
“Immaginiamo il mondo come fosse un teatro. Gli atti con i potenti e i funzionari occupano il centro della scena. Le versioni tradizionali della storia, le fonti convenzionali di notizie vi incoraggiano a fissare lo sguardo sul palco. Le luci della ribalta sono così luminose che vi abbagliano dirigendovi verso gli spazi ombrosi intorno a voi, rendendovi difficile incontrare lo sguardo delle altre persone sedute, di riuscire a scorgere la via d’uscita oltre il pubblico, nei corridoi, dietro le quinte, al di fuori nel buio, dove altre potenze sono in azione. Gran parte del destino del mondo si decide lì sul palco proprio sotto i riflettori, in quello spazio su cui gli attori presenti vi diranno che non c’è altro luogo che quello.”
Ad un brano che richiama alla mente le parole memorabili di Simone Weil:
“Quando qualcuno si espone come schiavo sul mercato, quale meraviglia se trova un padrone?”, la Solnit aggiunge:
“Quel che avviene sul palco è una tragedia, la tragedia della distribuzione iniqua del potere e del troppo comune silenzio di coloro che s’accontentano solo di essere pubblico e oltretutto pagano pure il biglietto per assistere a questo dramma. Per convenzione, dovrebbe essere il pubblico a scegliersi gl’attori e questi ultimi dovrebbero letteralmente parlare per noi, questa è l’idea alla base della democrazia rappresentativa. In pratica, sono varie le ragioni che tengono molti sull’onda partecipativa di questa decisione, altre forze invece – il denaro ad esempio – rovesciano questa scelta così che sul palco anche molti degli attori trovano altre ragioni – lobbisti, il puro interesse personale, il conformismo – tanto da far fallire il proposito di rappresentare i loro elettori.”
Come osserva ancora la Solnit la speranza muore quando scegliamo di assistere rassegnati allo svolgimento del dramma abdicando alla nostre responsabilità, puntando il dito accusatorio contro i protagonisti sotto i riflettori. (Nelle parole di Iosif Brodskij questa considerazione è espressa molto bene nel suo: “Un dito puntato è il marchio di fabbrica della vittima.”) Sempre la Solnit è così che considera la tipica propensione dei disperati:
“Parlano come se dovessero aspettarsi che un miglioramento venga loro consegnato dall’alto e non come se potessero afferrarlo con la sola forza della propria volontà. Forse la loro disperazione più vera risiede molto semplicemente nel fatto di sentirsi spettatori piuttosto che attori.”
Il nostro più radioso orizzonte di speranze, sostiene la Solnit, giace proprio lì nell’oscurità oltre le luci della ribalta:
“Le ragioni della speranza giacciono lì nell’ombra, nelle persone che stanno inventando il mondo proprio mentre nessuno le sta guardando, che neppure loro stessi sanno di riuscire a realizzare qualcosa che sortisca qualche effetto, in quelle persone di cui non si è ancora mai sentito parlare ma che potrebbero essere i nuovi Cesar Chavez, i Noam Chomsky o le Cindy Sheehan del futuro o diventare qualcosa o qualcuno che non possiamo al momento neppure immaginare cosa come o chi. In questa epica battaglia tra la luce e il buio, è la parte oscura – quella degli anonimi, degli invisibili, degli ufficialmente inermi, dei visionari e sovversivi nell’ombra – è questa la parte nella quale noi dobbiamo riporre le nostre speranze. Per quelli che sono in scena, possiamo soltanto sperare che il sipario si abbassi quanto prima e che l’atto successivo sia migliore del precedente, che provenga direttamente dalle oscurità populiste.”
Speranza nel Buio è una lettura immensamente tonificante presa nella sua interezza ad integrazione della quale c’è una lettera esaltante di E. B. White ad un uomo che ha perso la fede nell’umanità, brani di Albert Camus sulla nobiltà dello spirito in tempi bui, Viktor Frankl sul perché l’idealismo sia la migliore forma di attivismo e così ripercorrere ancora la Solnit sul come ritrovarsi nel perdersi o degli effetti dei libri e della lettura sullo spirito umano, su come la non-comunicazione moderna abbia tramutato la nostra esperienza del tempo, della solitudine e della condivisione, ripercorrendo infine quel suo bellissimo manifesto sulle gratificazioni spirituali del camminare.
Le bottiglie in degustazione erano 14 (una in formato magnum) di variegate annate ed etichette acquistate in blocco ad un’asta Bolaffi, l’approccio degustativo poteva quindi essere indirizzato in svariati modi ma noi assieme a Mateja abbiamo deciso di dargli questo taglio interpretativo che prevede di cominciare dal Breg, uvaggio meno imponente della Ribolla, con l’intermezzo dei bianchi fine ’80 inizi ’90. Le bottiglie sono state dunque assaggiate in tre singole batterie ognuna delle quali era così composta, dove l’ordine numerato corrisponde simmetricamente all’ordine d’assaggio:
A supporto integrativo della degustazione, che nella maggior parte dei casi è attività sempre piuttosto passiva e ridotta al senso unico sacerdotale da chi le conduce con boria monocorde accademica e serietà bacchettona escludendo al dialogo, alla compartecipazione e alla semplice libertà di “sbagliare”, voglio qui aggiungere – e mi piacerebbe fosse sempre più un modello sperimentale da approfondire in futuro come format educativo alla comunicazione del vino -, il punto di vista dell’amico Elia Zocco che era proprio seduto al banco di prova tra altri amici sulla tavolata dei degustatori proattivi nonché tutti spettatori partecipi inclini al civile scambio d’opinioni, curiosità, critiche, elogi.
Dagli appunti d’Elia:
Per Josko le fermentazioni devono avvenire a temperatura non controllata, da qui la scelta della anfore, in fase di macerazione e prima vinificazione. Le anfore sono georgiane, ricoperte da uno strato ci 3/4 cm di sabbia e calce, smaltate all’interno da uno strato di cera d’api. Lo scambio d’ossigeno che qui avviene è fondamentale, ma cosa ancora più importante è portare in cantina delle uve sane. Dopo il primo passaggio nelle anfore, che sono interrate nel terreno vivo della cantina, il vino completa il suo percorso d’affinamento nelle botti grandi.
I vini Breg, sono composti da un uvaggio di: Sauvignon, Chardonnay, Pinot Bianco, Riesling Italico, quest’ultimo nonostante sia contenuto solo in minima parte, il 4/5 %, è tuttavia il vitigno che cede la maggiore impronta al vino. 1. Breg 2007, primo vino uscito dopo 7 anni tra anfora e botte; ancora molto appariscente, vivissimo, nonostante sentori di frutta sciroppata, all’olfatto può ricordare grandi cognac. 2. Breg 2002 (magnum), è la seconda annata dopo il passaggio in anfora, vino molto armonico ed equilibrato, vivissimo, nonostante i 13 anni, profumi freschi ben integrati da evidenti sentori ossidativi. 3. Breg 2001 primo anno con passaggio in anfora, più spento rispetto al 2002, meno equilibrato, ma nonostante ciò sa regalare emozioni forti; pesca sciroppata, forse ha già dato il meglio di sé? Fase discendente? 4. Breg 2000, ultima annata pre anfora, 12 i giorni di macerazione. 5. Bianco 1990 nessun appunto sorry. 6. Breg 1989 Vino completamene diverso, nessuna macerazione, rimane un grande vino, bella sapidità. 7/8. Chardonnay 1991-90, vini parecchio differenti tra loro, il primo è un grandissimo bianco, fresco, sapido, di bella beva, all’olfatto perfettamente limpido, mentre il secondo è più ossidato al naso e dal colore più opaco, anche se in bocca poi si rivela tutta un’altra contrastante storia, davvero di piacevolezza sorprendente. 9. Sauvignon 89, tappo… peccato!
Passiamo alla Ribolla. Nel 2012 è stata effettuata l’ultima vendemmia dei vitigni internazionale che sono stati espiantati a favore degli autoctoni Ribolla e Pignolo. L’idea di Josko è quella di puntare su due vini, pochi ma buoni, anche se il Breg uscirà fino al 2019 a ragione dei 7 anni d’affinamento previsti. La Ribolla è un’uva dalle grandi rese, ma per farne un buon vino bisogna abbassarla e ridurne la produzione; è facilmente attaccabile dalla botrite. 10. Ribolla Gialla Anfora 2007, vino ancora molto giovane e pimpante, può e deve dire ancora molto. 11. Ribolla Anfora 2001, prima annata in anfora, imbottigliato nel 2005: affascinante, superbo, maturo. 12. Ribolla 1997, prima annata con macerazione, 4 giorni sulle bucce, vino molto diverso dai precedenti, maggiore acidità, più persistenza, grande complessità di strutttura. 13. Ribolla Gialla Oslavje 1988, clamoroso, stupisce la sua vivacità vibrante, nonostante i 27 anni suonati.
14. Breg Rosso 2004, da uve pignolo, l’avessi assaggiato alla cieca l’avrei detto un bianco per l’acuta acidità e la gioiosa freschezza, vaghi ricordi di un Terrano del Carso; tannino setoso e ben integrato al frutto, ancora un bambino, grande bella scoperta!
Grappa Ribolla capovilla. Le vinacce della Ribolla un tempo erano destinate ad un’altra distilleria, ma venivano considerate di poco valore, fin quando non avviene l’incontro ai vertici con il maestro distillatore Gianni Capovilla che trovandole meravogliose inizia una produzione di grappa dalle vinacce di Josko.
Questo invece il menù delle vivande previsto per la serata da Carlo Sichel e i suoi collaboratori:
Cocktail di gamberi, frozen di lattuga e maionese di pesce
Ravioli di baccalà e baccalà in crema con bottarga di muggine
Pappardelle cioccolattate al ragù di coniglio
Stracotto di maiale nero, prugne, patate e mele dell’Etna
32 ettari tra boschi, alberi da frutto, colline e 15 ettari di vigneto a coltivazione biologica non certificata, tanto sappiamo quanto possano essere attendibili le certificazioni.
[Che questa ultima frase fosse un po’ troppo grossolana e tagliata con l’accetta, facilmente equivocabile nella sua ambiguità avrei dovuto arrivarci da me prima di renderla di pubblico dominio con troppa leggerezza ed integrarla magari con altri ragionamenti a motivare questo (pre)giudizio tranchant assai generico per la verità che suona fastidiosamente qualunquistico soprattutto se decontestualizzato. Ma tant’è lo scopo che mi son proposto con il mio blog e con questo format di degustazione nello specifico è quello della libertà di “sbagliare”, dell’integrazione d’altri pareri oltre al mio tono di voce monocorde, un lavoro in fieri, un buon intento di far polifonia e non canti e sonate a voce sola tra me e me. Per cui sono strafelice dell’appunto che mi è stato mosso dall’amico Pierpaolo Messina il quale produce vini che sempre più identificano la sua personalità schietta, viva passione, fame di conoscenza (o sete visto che parliamo di vino) nell’omonima Società Agricola Marabino nella DOC Eloro-Noto. Pierpaolo era trai partecipanti la medesima sera di questa degustazione quindi mi ha chiesto civilmente chiarimenti legittimi e delucidazioni in merito dopo aver letto la mia spiccia frase di cui sopra. Riporto e sottoscrivo in pieno quanto da lui detto così in accordo al suo medesimo gesto di grande decorum aggiungo qui a beneficio del lettore, il ponderato punto di vista di Pierpaolo]:
Da produttore certificato Biologico, per quello che io possa dirti della mia esperienza, questa tua affermazione non la condivido affatto. Come ben sai noi siamo certificati e quindi mi hai chiamato in causa indirettamente. Ogni mese e mezzo riceviamo controlli da diversi organi oltre al certificatore: ASP, repressione frodi, IRVOS, NAS ecc. Controlli non solo burocratici, ma con analisi a campione di suoli, materiale vegetale e vino anche in vendemmia. Oggi chi si propone come produttore Naturale e quindi quantomeno biologico in vigna come in cantina e non si certifica in “bottiglia”, per quello che riguarda la mia esperienza è solo un soggetto che non vuole essere controllato e non vuole essere trasparente col consumatore. Sicuramente le grandi aziende troveranno l’escamotage per superare certi controlli, o magari siamo solo noi sotto mira. Ritengo che la certificazione non sia un male, ma un valore aggiunto che informa anche il consumatore più sensibile ad un’etica produttiva più sana e rispettosa della natura. Spero tu capisca il mio dissenso sulla tua affermazione, ti ho scritto privatamente perché non voglio far polemica ma solo per chiarire il mio punto di vista!
Un Eden della micro-biodiversità, a preservare la fauna locale, casette per gl’uccelli, gli stagni artificiali un vero e proprio ecosistema autosufficiente tanto da ridurre al minimo gli interventi dell’uomo, uso di zolfo in quantità ridotte per proteggere la salute delle viti dall’attacco di malattie.
Josko Gravner è un perenne “cercatore di verità” come l’avrebbe definito Georges Ivanovitch Gurdjieff alla continua ricerca di se stesso attraverso il modo di trattare la vigna, coltivare la terra, vinificare e macerare le uve, affinare il vino. Uno spirito inquieto che lo porta negl’anni alla confutazione empirica dei metodi convenzionali e delle omologate tecniche da scuole d’enologia che presuppongono lieviti e aromi selezionati, chiarifiche e filtrazioni impattanti con tutto il classico protocollo da piccolo o grande chimico-enologo uniformato come da prassi e che impongono al mercato vini sempre più sterilizzati, vini-sciroppo farmaceuticamente costruiti a tavolino, vini funerei. Il vino invece, a questo giungerà Josko nel suo fulgido itinerario d’opere e giorni, è materia vivente, succo organico, sostanza viva carica d’enzimi, microbi e batteri (plausibilmente benigni), lieviti propri alla buccia d’uva e necessari all’armonia cosmica dell’insieme che se setacciati da pozioni magiche, formulerete enologiche di sintesi e filtri industriali risulterebbe essere come il tentativo diabolico d’estrarre il pensiero da un cervello privandolo della sua calotta cranica d’appartenenza e quindi del corpo intero che anima, dà voce e forza a quel pensiero, dunque sarebbe come produrre e bere un vino sdoppiato, innaturale, senz’anima.
“Chi non sa bere non sa nulla.” Boileau.
[Quanto segue è stata la mia cornice introduttiva alla serata entro la quale Mateja ha poi dipinto il quadro familiare dei vini e del mondo di suo papà.]
Sono sempre un po’ sospettoso della parola-parlata, da lettore ossesso e da bibliofilo amo più quella scritta che percepisco meno frivola o improvvisata, più meditata, salda, meno teatrale, dal respiro amplio, circospetto, non affannato.
Tentando di essere quanto meno tedioso possibile con questo mio tentativo di squarcio del velo, vorrei provare a lanciare una serie di spunti di riflessione generali, spuntando cioè degl’argomenti nel particolare su cui meditare prima durante e dopo l’assaggio in verticale coi calici dovutamente alla mano all’occhio al naso alla bocca al cuore al cervello all’anima fate un po’ voi… senza intricarci però troppo in complicate o fanatiche faccende d’animismo, di religione più o meno rivelata, di filosofia o scienza chiara et occulta che sia, tanto credo di non sbagliarmi nel presumere che siamo tutti più che d’accordo con Veronelli quando su Bere Giusto sottolineava come:
“La scienza ha conquistato lo spazio e non ancora il ‘meccanismo’ delle infinite metamorfosi del vino, vi è qualcosa che sfugge, che si sottrae ad ogni analisi, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima…” e continuava ricordandoci che:
“(…) un vino lo si guarda lo si respira lo si gusta infine se ne parla..” ed io, molto umilmente, aggiungerei a ciò che se poi pure il vino è in sintonia con noi e non solo noi con lui – siamo cioè nei suoi riguardi atti a berlo, ben disposti, affinati il giusto, rispettosi, ben mantenuti, maturati per bene -, ecco che sarà anche egli di conseguenza a conversare con noi incarnandosi nella bilanciata atmosfera conviviale, nel buonumore psichico ed emotivo adeguati, atmosfera tuttavia sigillata da quella che mi pare essere – per amor di giustizia – un’eterna ed amara verità come siglava un frammento antichissimo attribuito ad Antimedonte che così declama:
Di sera siamo uomini quando beviamo. Ma quando arriva l’alba, ci risvegliamo bestie pronte a sbranarci tra di noi
epigramma se vogliamo, più incline al malumore, al verismo e alla tristezza che ben si sposa con il detto proverbiale che vuole: “l’amicizia stretta trai calici è fragile come il vetro” ovvero, ancora la saggezza popolare: “Amicizia fatta dal vino non dura dalla sera al mattino”.
Provo quindi a tracciare una cornice nella quale poi Mateja dipingerà il quadro familiare dei vini e del microcosmo di Josko.
Innanzitutto v’inviterei a visualizzare con occhio vigile la situazione di questa serata ad esempio: abbiamo questi vini di Gravner fatti nel Collio in Oslavia all’estremo confine nord-orientale d’Italia, mentre siamo qui a Catania nella quasi estremità mediorientale della penisola dove immagino sarete tutti bene o male di zona o comunque siciliani e state ascoltando ‘sto barbone dalle sembianze talebano/turcomanne che sarei io proveniente – guarda un po’? – proprio della terra di mezzo, originario cioè di un paesino dell’Italia centrale ai confini tra Lazio e Campania.
Ora, distacchiamoci per un attimo con la mente dalla semplice degustazione tecnica o dalla cena epicureo-godereccia solita come ne avrete già fatte tante come tante se ne fanno e se ne continueranno a fare, ma pensateci bene per pochi minuti, non è già questa un’elementare ma concreta, forse efficace azione quasi geografico-politica quella che stiamo mettendo in atto stasera? Cioè un mettere assieme quest’incontro di poli territoriali ed umani opposti attraverso il centro, promuovendo, – complice l’elemento fluido del piacere e dell’ebrezza cioè il vino la bevanda fermentata di Gravner, con il cibo trasformato da Carlo, – una fusione magica tra paesaggio (lo Spazio fisico ed interiore) con un tentativo di raccontarlo attraverso la gente la fatica e il vino (ovvero il Tempo delle stagioni e dell’uomo).
Ci pensate che potremmo essere quasi dei bambini anche se adulti e con accesso alle bevande alcoliche, ben disposti entusiasticamente attorno alla tavola cosmica imbastita dai sani principi pedagogici (almeno sulla carta) della Montessori? Da Ho Fame: il Cibo Cosmico di Maria Montessori:
“Prendiamo il cibo, tutto il cibo e apparecchiamo per i bambini una tavola cosmica: mettiamo in contatto gli alimenti con l’universo conosciuto, colleghiamo le pietanze con la loro storia, la loro geografia la loro economia, la loro chimica. il loro valore nutrizionale, il loro significato simbolico o religioso.” (…) “L’educazione cosmica offre al bambino una chiave per leggere l’universo dove tutto è un concatenamento: lo invita ad uscire a spalancare la porta delle aule per cogliere i particolari di ciò che lo circonda e fa sì che scopra che tutto ha un legame e che egli steso fa parte di un grande sistema di relazioni e connessioni.”
Ora non trovate che siamo tutti simbolicamente un po’ bambini anche se cresciuti in fretta in questo “grande sistema di relazioni e connessioni” appunto, davanti alla misteriosa e gigantesca complessità dell’universo?
“Oggi più che mai viviamo in un mondo dove i sapori sono condizionati dai saperi” puntualizzava a ragione Ezio Santin nella premessa a un libretto prezioso di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini, Argìa Sbolenfi etc.): La Tavola e la Cucina nei secoli XIV e XVI e credo volesse intendere che l’attività di un artigiano – della cucina della vigna o di altro ambito – non può più permettersi di fare quel che fa ignorando tutta una complessa rete di esperienze, tecniche, conoscenze e saperi strettamente collegati alla sua attività principale anzi necessari al giusto svolgimento del suo lavoro se è un cuoco che ha ad es. a che fare con materie prime, fornitori, prodotti della natura etc . Ma il discorso può tranquillamente estendersi a tutte le altre arti e mestieri, soprattutto alle fatiche nobili del vignaiolo.
A proposito di queste coordinate spazio-temporali, mi piacerebbe leggervi un breve passo da Il Tempo in Una Bottiglia pubblicato da (Codice Edizioni), scritto a più mani Rob De Salle e Ian Tattersall, un biologo molecolare e un antropologo appassionati entrambi di vino che tentano – rivolgendosi innanzitutto al loro non necessariamente sofisticato pubblico americano – una spiegazione scientifica del vino, dalla terra alla tavola, senza trascurare il lato umano, facendo più chiarezza sul concetto astratto di terroir nella nostra epoca post-industriale e di (troppo?) raffinati strumenti d’analisi chimica, controllo farmaceutico e condizionamenti climatici indotti. Dunque riferendosi alla globalizzazione del vino con l’esempio di una celebre degustazione parigina del 1976 (the Judgement of Paris) in cui i vini della Napa Valley sia rossi che bianchi – degustati alla cicca – quasi non si distinguevano da quelli francesi anzi ne superavano la “bontà” per emulazione tecnologica e sforzi di internazionalizzazione e standardizzazione del gusto, così continuano i nostri autori:
“Ci sono comunque ‘cani sciolti’ che vanno in controtendenza. Josko Gravner produce, tra il Friuli e la Slovenia, i suoi vini – che godono di eccellente reputazione – in enormi anfore di argilla seppellite nel terreno come si faceva nei tempi antichi. Il suo vicino Stanko Radikon, che usa le stesse attrezzature e procedure di suo nonno, lascia macerare i suoi bianchi per molti mesi in enormi tini tronco-conici in rovere. Tutto questo accade nella sola città di Gorizia. Sono persone come Gravner e Radikon, nelle regioni viticole di tutto il mondo, a produrre oggi vini davvero degni di nota, sebbene non sempre si tratti di vini che incontrano il gusto di tutti o che neanche i loro sostenitori più accesi vorrebbero bere ad ogni pasto. (…) le loro ‘opere’ hanno dimostrato che la perfezione tecnica nella produzione vinicola permette al terroir di esprimersi al meglio.”
Noi questa sera berremo i vini di Gravner dai classici calici a stelo, ma è giocoforza qui ricordare che da una sua idea Josko ha fatto creare a Massimo Lunardon delle coppe o vasi in vetro che riportano il vino in una prospettiva più antropologica, nella quale si torna a riassaggiare la bevanda in un recipiente essenziale che riassembla la forma austera di due mani congiunte ricordandoci così il gesto millenario quanto l’origine dell’uomo, del bere con le mani “a coppa”. È lo stesso Gravner a parlarne con emozione quasi mistica:
“L’idea di creare un bicchiere a forma di coppa, mi è venuta per la prima volta nel 2000 quando andai nel Caucaso. Durante quel viaggio, organizzato per vedere le anfore che stavano realizzando per la mia cantina, visitai un monastero sulle colline di Tbilisi. In quella occasione i monaci, oltre a darmi il benvenuto con dei canti religiosi, mi servirono il loro Vino nelle coppe di terracotta. Quel gesto mi rimase impresso, bere del Vino in una coppa senza stelo è molto diverso che da un bicchiere, non vorrei essere frainteso, ma il gesto che la coppa ti impone verso il Vino è più intimo più rispettoso… più umile”.
Ecco in quel “non vorrei essere frainteso” c’è già tutto Josko Gravner nella sua umiltà di produttore e discrezione d’uomo d’altri spazi-tempi.
E ancora in tema di calici e vasi da mescita, finisco allora con un antichissimo richiamo al bestiale Dio della natura attribuito ad Apollonio di Smirne; a pronunciare l’epigramma è proprio il Dio Pan legato al mondo pastorale che preferisce bere mosto in una semplice coppa:
Sono il dio della gente di campagna: perché libate
a me con tazze d’oro? perché versate
vino puro d’Italia? perché legate a questa pietra tori
dai muscoli rotondi? Risparmiatevi
tutta questa fatica: a me non piacciono
simili sacrifici. Sono Pan,
il montanaro, scolpito dentro al tronco
d’un solo albero: mi piacciono i banchetti
dove si mangia carne di montone,
e bevo mosto in una coppa semplice.
Aggiungo il videoclip della serata girato con particolare acume cinefilo e montato con efficace sagacia dalle bravissime Angela e Sara di Inneres Auge. Chi legge da pc può con tranquillità guardarsi il video da youtube direttamente qua sotto, chi legge invece con ipad, iphone ed altro dispositivo mobile può cliccare al seguente link sulla pagina di Bevitori Indipendenti.
Commenti disabilitati su Sapori Eoliani a Salina Terra di Mare Dolce Salata
Agricola il padre della mineralogia moderna nel De Re Metallica(1530) annotava: “Uomini saggi hanno osservato che le acque di taluni mari contengono per loro natura diversi elementi in esse disciolti i quali sotto l’influsso essiccante del calore solare venivano eliminati in stato condensato e che a questo modo ne risultavano poi corpi solidi.” Lo stesso scienziato definì questi corpi solidi quali “succi concreti” per indicare il dono dell’acqua ovvero i sali e ancora più specifico il sale da cucina. Nell’antichità gli abitanti sulle poco piovose ed assolate coste del Mediterraneo avevano già ingegnato vari metodi per estrarre il sale.
Setaccio da La Filosofia della Natura di Albert Bettex, un bellissimo, assai utile e vecchio librone Longanesi arricchito di preziose illustrazioni:
“Una chiusa (C) regola su costa bassa l’afflusso dell’acqua marina. Essa si incanala in un sistema di fossati interecantisi ad angolo retto, tocca bacini poco profondi (E). A saracinesche levate, l’acqua vi affluisce e lentamente evapora; il sale cristallizza e aumenta man mano che altra acqua marina apporta nuovo contenuto salino da far essiccare. Finalmente si ammassa con rastrelli il sale e con pale (G) se ne riempiono barili che poi si caricano su navi mercantili che esportano il prezioso elemento in tutto il mondo. Questa la pratica antichissima dell’estrazione del sale marino, soltanto la chimica scientifica scoprì in seguito che il sale era il risultato di una combinazione prodigiosa: dall’unione di due elementi venefici, il cloro e il sodio, s’accumulava qui ciò che costituisce per tutti gli uomini il quotidiano e più comune condimento e elemento di conservazione degl’alimenti.”
Questa è l’estrazione manuale e preindustriale del sale, che ancora in alcune zone viene adottata come tecnica superstite di fatiche immani per la produzione del “succo concreto” di maggior qualità e pregio, quando non si tratti di pura attività commercial-folcloristica di facciata e vuoto marketing primitivista d’arrembaggio.
A Salina, nonostante il nome, non ci sono più saline attive, ce ne sarebbe qualcuna abbandonata da poter ripristinare ma costa troppi sacrifici, soldi e giri di boa burocratici il rimetterla in piedi, e comunque pur non essendoci più saline c’è ancora qualche eroe che produce capperi, frutto della terra dal profumo e dal gusto di mediterraneo, che vanno salati e dissalati, un’arte antica questa pari solo al dosaggio filosofale d’acqua e sale che ci vuole per la salamoia delle olive.
M’arrampico allora su una motoretta noleggiata a Malfa e vado a trovare Roberto che a Pollara ha rimesso in piedi la nobile attività del nonno con eroica forza d’animo, energia vitale e pratica consapevolezza: Sapori Eoliani questo il nome dell’azienda, produce capperi di cui scopro solo ora e grazie proprio a Roberto, che esistono centinaia di diverse cultivar ognuna con la propria caratteristica e forma specifica. Lui, Roberto, irradia una gioia che immediato mi coinvolge nel suo mondo odoroso spiegandomi la cura maniacale che ci vuole a mantenere la pianta del cappero, a coltivarla, mostrandomene lì per lì alcuni esemplari proprio fuori al suo giardino. Quando m’accoglie è intento ad aiutare una signora che lavora per lui, stanno imbarattolando in vasetti di vetro i pomodorini secchi, le olive, i cucunci e ovvviamente i capperi che oltre a produrre nella classica versione al sale in tre diverse dimensioni (piccola media e grande) selezionate su una vecchia macchina di cernita a nastro, lui produce anche capperi sottolio ed una squisita salsa…
A questo punto ero giunto a scrivere la mia ricognizione postdatata a distanza di neppure un paio di mesi quando ricevo tipo seduta d’elettroshock telefonica, la notizia tragica della scomparsa di Roberto avvenuta per un incidente in moto sulla stessa strada che avevo percorso io in motoretta presa a nolo per andare a trovarlo quel giorno spensierato di fine settembre inghiottito di sole di pace e d’azzurro, un giorno incantato di quelli assai rari nei quali incontri qualcuno per la prima volta ma che senti fraterno e amico fin da subito come vi conosceste da sempre e ubriachi d’entusiasmo cominciate a pianificare su idee turistiche, progetti di lavoro comuni, ragionamenti sui massimi sistemi del turismo, dell’artigianato, sulla valorizzazione delle risorse del territorio, di un viaggio in Giappone dove avrei appunto portato a far assaggiare i suoi prodotti in abbinamento al sake e alla cucina nipponica per cui ci saremmo sentiti spesso al telefono… ma ecco, è già passato ancora un altro mese, eppure non ho più volontà di continuare oltre, ci tornerò in altra meno infelice occasione a parlare e scrivere di questa isola mistica, degl’amici Luca e Martina Caruso della loro meritatissima prima stella Michelin all’Hotel Signum della Malvasia delle Lipari di Hauner, della luce sovrumana che stringe le Eolie nel suo abbraccio di cielomare, anche se in questo momento è più che altro una luce luttuosa come avrebbe suggerito Gesualdo Bufalino.Aggiungo solo qualche foto di quella giornata radiosa e un ultimo quesito amareggiato a corollario di una delle foto che documenta d’un cartello che dichiara categorico: “Qui la natura è protetta”, che a dispetto di alcuna possibile o nessunissima sensata risposta circa la morte brusca di Roberto, amico di un giorno lungo una vita intera, mi lascia solo sconforto nella mente e una domanda angosciosa come un groppo in gola che non trova altra soluzione se non nel continuare a lottare, vivere, sorridere disillusi in faccia al destino funesto eppure noncuranti alle quotidiane avversità del caso: “Ma chi ci proteggerà invece dalla natura?”
Commenti disabilitati su La Diagnosi Medica come Letteratura
Sarà che ho qualche frequentazione con i sacri testi di Paracelso, di Galeno, d’Ippocrite, de Il Regimen Sanitatis Salernitanum, del Thomas Browne, di Oliver Sacks. Sarà che mi son ritrovato con mia mamma ricoverata in un letto d’ospedale per una decina di giorni ed ho avuto quindi modo di rapportarmi all’approccio linguistico assai sterile, impiegatizio ed uniformato su parametri squallidamente “aziendali” di alcuni medici ed infermieri che ti riallineano d’ufficio e senza speranza all’amara, ministeriale verità di quanto siamo sempre più oggettivati in qualità/quantità di: cittadini-numero, pazienti, spettatori, contribuenti, acquirenti/consumatori; sarà che proprio in quei momenti vorticosi misti ad angoscia, confusione mentale e umore nero, leggevo a morsi e bocconi un prezioso libretto di memorie del fine letterato Ezio Raimondi:
“Una riflessione sentita è la storia segreta del nostro rapporto personale con il libro. Quando leggiamo ci portiamo dietro le nostre origini: queste origini danno un valore, una cadenza, aggiungono un significato. Un libro non è soltanto i significati che comunica, ma i significati che vi aggiungiamo, garantiti, se non dalla correttezza intellettuale, dall’intensità del sentimento, dell’emozione, dell’affetto. (…) il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui il momento giusto…”
Fatto sta che nel Maelström di notifiche inarrestabili sui social mi ritrovo grazie a Twitter, catturato da questa recensione pubblicata dalla Los Angeles Review of Books che tratta un tema che mi pare quantomeno avvincente: l’uso della narrazione in contesti apparentemente estranei alla letteratura, in questo caso specifico storie di medici di diagnosi e d’ospedali. Così, rapito dall’emotività di circostanza e dal vissuto personale del momento, ho tradotto all’istante l’articolo di Brian Gittis che sottopongo subito all’attenzione di qualche sparuto ma fedelissimo trai miei lettori, sempre più pochi epperò sempre più giusti.
Su Medicina Interna. Storie come Diagnosi
Lo scorso anno Harper’sha pubblicato un saggio molto brillante nel quale la narratrice e giornalista Heidi Julavits conduceva una sorta di investigazione medico-letteraria.
Convinta di aver subito una diagnosi errata dal proprio dottore, la Julavits decide di accollarsi tutto il materiale medico che la riguarda applicando ad esso la più flessibile abilità interpretativa da critico e da scrittore per affrontare i misteri dei malanni corporei.
Alla fine della fiera, in una sorta di spettacolo di magia, è stata in grado di venirne a capo, sciogliendo i nodi di quel che il suo dottore non era stato in grado di capire, rivelandoci così la sua convincente diagnosi di un mondo medico troppo sclerotico, di un pensiero medico fossilizzato su una monocorde visione in bianco e nero.
Durante lo svolgimento di questa sua investigazione la Julavits ha frequentato i corsi alla Columbia University Medical School tenuti dalla professoressa Rita Charon la quale pretende dai suoi studenti di affrontare letteratura, storia dell’arte, filosofia parallelamente ai loro specifici corsi di medicina. La Charon insegna ai dottori a non guardare esclusivamente ai sintomi ma a ragionare per racconti. I dottori, stando alle argomentazioni della Charon, sono degli interpreti e sviluppare le proprie “competenze narrative” potrebbe aiutarli a praticare la medicina con maggiore penetrazione ed empatia.
L’autore e medico Terrence Holt l’ha messa sullo stesso piano in un’intervista radiofonica del 2005 con Lynn Neary alla National Public Radio: “La prima cosa che succede quando entra un paziente nuovo è che comincia a raccontare una storia, e tu cerchi di rappresentarti cosa questa storia significhi.”
Holt è approdato alla medicina relativamente tardi, dopo cioè aver insegnato scrittura creativa per oltre un decennio. Le storie venate di fantascienza ed horror del suo primo libro, una raccolta di racconti intitolata: Nella Valle dei Re – nonostante sia stato pubblicato mentre Holt era già medico alla University of North Carolina – non ha quasi niente a che vedere con la medicina; piuttosto questi racconti mostrano uno scrupoloso interesse su questioni di filosofia della narrazione. Sia se ambientate in un paesino del New England o in una navicella spaziale che sta approdando su Giove, queste storie esplorano tutte dei temi molto simili: le strane e più mistiche proprietà del linguaggio, il modo in cui usiamo la scrittura sia per creare senso che per trascendere il nostro mondo, i limiti della conoscenza umana. Holt è particolarmente bravo a drammatizzare l’inquietante maniera in cui il linguaggio scappa al controllo dei suoi autori, assumendo tutta una misteriosa vita per conto proprio. Nel racconto intitolato “O Logos” una parola che uccide i suoi lettori si diffonde come un microbo da una persona all’altra comparendo dalla fronte dei moribondi. Invece nel racconto che dà il titolo alla collezione un professore ricerca un’inafferrabile, antica “parola di potere” che crede possa concedergli l’immortalità. Velati di un’elegante ed austera prosa che richiama H. P. Lovecraft, Holt con i suoi astronauti, fantasmi ed egittologi maledetti dalle mummie, guida il lettore attraverso tali cerebrali quanto borgesiani labirinti.
Nel suo ultimo libro Medicina Interna, Holt continua a esplorare simili questioni d’ordine narrativo specialmente situazioni nelle quali il paziente si sforza d’approcciarsi al dottore. Appena ripubblicato in una collana tascabile economica della Liveright, Medicina Interna ci appare subito per quel che è, un memoriale dell’esperienza ospedaliera del dottor Holt il quale tuttavia chiarisce nella sua introduzione che si tratta anche di qualcosa di molto più complicato. L’obiettivo dichiarato di Holt è di rappresentare un “resoconto veritiero” di “quel che resta misterioso e molto spesso problematico circa il processo attraverso il quale si diventa medici” – eppure allo stesso tempo Holt dichiara ci sia anche qualcosa di non propriamente etico nel pubblicare storie di pazienti reali per quanto travestite da narrazione. Lasciando solo alla finzione narrativa il compito di rendere questo suo “resoconto veritiero” la soluzione di Holt è stata quella di crearsi un avatar, il Dr. Harper, lasciando agire lui, attraverso casi romanzati che cristallizzassero quali potevano essere, per lo stesso Holt, i dilemmi essenziali della sua professione di medico interno. Queste esperienze sono organizzate “secondo la logica non tanto del giornalismo quanto della parabola.” Il risultato è un libro esplicitamente etichettato come “autobiografia” che, cosa assai curiosa, dichiara nel colophon la familiare clausola editoriale: “I personaggi e le istituzioni in queste storie sono immaginari. Ogni somiglianza tra loro ed altre persone viventi o decedute, è pura coincidenza.”
Quel che segue all’introduzione è abbastanza inequivocabilmente fin dalla prima lettura una raccolta di studi di casi medici. Molti racconti cominciano nella media come episodi di Dr. House: una paziente che il Dr. Harper ha preso in carica dal turno di notte ad esempio, con un’inesplicabile, elevata produzione di latte materno oppure mentre sta consumando una pizza che gli è appena stata consegnata, una giovane ricoverata nel reparto di psichiatria denuncia un misterioso malessere addominale che lascia nel dr. Harper un preoccupante presentimento.
Harper è un dottore alacre e compassionevole con l’animo di un ufficiale inglese. Vede lampi di Dostoevsky e dell’Olandese Volante nelle difficili situazioni mediche e talvolta riflette sui suoi pazienti così come farebbe un critico letterario su un testo (“Era eccezionalmente ben pettinata, I suoi capelli puliti, la pelle liscia […] Tutto ciò era solo una messa-in-scena a favore di quella cosa disturbante che baluginava nelle profondità.”) Circostanze feroci sono a volte rese con intuizioni poetiche che hanno del sorprendente – un malato di cuore allo stadio terminale sta: “accerchiando lo scarico in anelli che sembravano, a quel punto, ancora così ampi che il vortice centrale era soltanto una fossetta all’orizzonte”.
Eppure a dispetto di queste occasionali immagini poetiche, Medicina Interna, va letto più come una raccolta di saggi personali che di racconti, niente a che vedere con la prosa stilizzata e oscuramente intossicata di Nella Valle dei Re; qui la prosa è talmente più sobria e giudiziosa che è quasi facile dimenticarsi che Medicina Interna di fatto è un libro di “finzione” il che indica una certa responsabilità in questa specifica forma di libri. Il pericolo piuttosto in questo tipo di storie verosimili è che potrebbero terminare senza avere né l’astuzia della finzione né tantomeno il controllato trauma (o intrigo voyeuristico) dei fatti-più-strani-delle-stesse-finzioni. Parte di quel che generalmente rende queste storie mediche così interessanti, è quel fremito che ci da lo scrutare attraverso la tendina. Quando leggiamo di una storia medica che sfida ogni convinzione – come quando la donna al reparto psichiatrico che stava soffrendo di un misterioso dolore addominale si scopre all’analisi dei raggi X che s’era intenzionalmente punta con dozzine di siringhe attraverso le costole – siamo portati a riconciliare questi strani avvenimenti con il mondo nel quale viviamo e che può essere tanto elettrizzante, quanto può destabilizzarci o illuminarci. Proprio perché Medicina Interna sembra un libro di “saggistica”, evoca in noi questo tipo di sentimenti i quali perdono subito d’immediatezza quando però ricordiamo che niente per davvero in questo libro è mai avvenuto. Holt sembra offrirci con una mano uno stuzzicante accesso privilegiato a qualcosa che subito tende ad oscurare con l’altra. Siamo accompagnati dietro una tenda è vero, ma solo per trovare un’ulteriore tendina.
Ad ogni modo Holt non sta qui solo a soddisfare la nostra curiosità voyeuristica riguardante gl’ospedali. Su Medicina Interna ci vuole offrire barlumi di cose attraverso il regno della medicina o addirittura della stessa realtà, quei momenti quando estreme situazioni mediche sembrano intersecarsi su un terreno più divino e spirituale. Mentre le storie mediche in genere seguono una traccia di ragionamenti portandoli a soluzione, Medicina Interna assai spesso lascia invece molto il lettore con più domande che risposte. Nel “Codice Perfetto” una rianimazione di routine appare improvvisamente come una faccenda ultraterrena quando Harper all’improvviso è fulmianato dal senso di sublime perfezione di quell’attimo – “l’inquietante” calma della stanza, la surreale “economia di gesti” delle infermiere, l’impeccabile incastro delle semplici e discrete mansioni d’ognuno. In “”Vergine di Ferro” due esami di routine nel reparto psichiatrico trasportano Harper verso un irrisolvibile paradosso nella relazione tra il corpo e la mente. In “Orfano” l’analisi di Harper sui dolori allo stomaco di una giovane produce in lui una sensazione nella quale la paziente le appare: “sospesa tra la vita e la morte […] sembrava occupasse entrambi gli stadi in una volta sola”.
Nella storia finale che chiude il libro, “Il Grande Inquisitore” Holt affronta il mistero nell’atto stesso del raccontarlo. Una notte che si trova bloccato dalla neve in ospedale, il Dr. Hawley, un medico veterano noto a tutti per ammorbare il personale più giovane con storielle vecchie e noiose, racconta una storia d’ospedale intensamente toccante che poi alla fine risultata essere del tutto inventata. In altre parole il Dr. Hawley sta al Dr. Harper (o Holt) così come quest’ultimo sta a noi lettori per tutto lo svolgimento di Medicina Interna. Harper a questo punto si ritrova a chiedersi stupefatto circa i motivi di fondo ed il perché della storia raccontata da Hawley, la sua funzionalita non solo per l’edificazione dei giovani sottoposti del Dr. Hawley ma anche e soprattutto per lui stesso. Tutto questo porta Harper a singolari conclusioni che riguardano proprio la sua attitudine a raccontare storie la quale piuttosto che essere uno strumento di lavoro a sua disposizione risulta invece essere più un “errore” che si sente “condannato a ripetere ora e per sempre.” Così dopo aver esordito Medicina interna con una certa convinzione che le storie raccontate avrebbero potuto aiutarlo nel definire un senso positivo alla sua professione ospedaliera, Holt chiude la raccolta suggerendo che questa sua predisposizione a raccontare storie sia trascinata da una qualche strana ed oscura forza. È un’annotazione alquanto inquietante questa sulla quale terminare un libro che era tuttavia cominciato con propositi tanto più positivi e limpidi.Ed eccoci allora riapprodare ancora una volta sui territori di Nella Valle dei Re. Il nostro narratore crede di essere lui a controllare le sue narrazioni fino a che queste non sfuggono al suo comando. In questa sua raccolta c’è un’eccezionale storia di fantasmi “Eurydike“, un uomo si risveglia dopo un’amnesia in una navicella spaziale reduce da un trauma sconosciuto. Sforzandosi di riacquistare un punto d’appoggio nella realtà, si siede di fronte a un computer e comincia a scrivere. Man mano che riordina le sue scombinate impressioni di chi possa essere e del perché si trovi lì, la storia che sta raccontando sembra assumere una vita propria, rivelando le circostanze del narratore a se stesso in una maniera quasi soprannaturale. Harper/Holt dunque a svariati milioni di miglia distante, lontano nel suo ospedale non è poi tanto diverso perche entrambi iniziano a far narrativa con lo scopo di dar senso ai propri mondi ma nel procedere su questa direzione si ritornavo condotti da forze più grandi che trattengono molto più di quanto sia possibile loro afferrare.
Presumibilmente l’idea dietro tutto ciò è di aiutare gli studenti di medicina a coltivare “competenza narrativa” è che le storie possano risultare utili ai medici come strumenti razionali, analitici e organizzativi. Le storie cioè ci aiutano a dare un senso alle cose. Ma per quanto possa assomigliare ad altre, è la grande sensibilità di Holt, la curiosità sui nostri tempi assai poco curiosi — e più in generale di questi tempi per cui la ragione sembra fallire il suo compito — a dare a Medicina Interna un sapore più insolito che altre memorie mediche più convenzionali non hanno. Come molte altre pubblicazioni dello stesso genere, anche questo è un libro avvincente, compassionevole, attraversato da una vera energia emotiva che muove a commozione. Ma, cosa assai meno comune — e forse nonostante le intenzioni iniziali del suo autore — è un libro anche molto inquietante. (Traduzione mia gae saccoccio)
Commenti disabilitati su Morte a Credito del Traduttore
“Tradurre già in sé è un atto di amicizia, un movimento verso l’altro che si risolve nel porre la propria voce accanto a quella dello scrittore, in una specie di confronto di fedeltà.” Ezio Raimondi
La oramai mitica traduzione curata da Giuseppe Guglielmi di Morte a Credito, capolavoro indiscusso di Céline, resta ancora inspiegabilmente inedita per una qualche stronza questione di diritti editoriali.
Mi accodo spassionatamente a quanto riferisce il prof. Ezio Raimondi in un suo bel libretto di ricordi Le Voci dei Libri: “Il romanzo era già stato pubblicato in una versione di Giorgio Caproni, che aveva tuttavia inserito una tonalità toscana poco adatta a rendere Céline, che vernacolare non è mai. L’Equivoco di Caproni fu quella di risolvere la lingua sulfurea del francese, il suo grottesco da tragedia, in linguaggio comico, senza poter dare conto degli elementi apocalittici di cui quella comicità si sostanzia, portando alla fine in tutt’altra dimensione, quella semmai del Dante infernale… Céline è tra i primi che cerca di tradurre la dissonanza in linguaggio poetico, là dove la nudità dell’essere si lega a un mondo di suoni, al cozzo dei metalli, in una lingua che gareggia con i bombardamenti. In alcuni tratti si ha la sensazione di essere dentro la terra che trema. La parola oscilla quasi in un sisma grandioso dove le granate producono il ribaltamento del suolo e sovvertono le leggi della gravità. Tutto questo riesce a conservare in un prodigio di sensibilità acustica, la versione di Guglielmi.”
Sensibilità acustica mi pare dote fondamentale a uno scrittore, vedi l’implacabile ascoltatore Elias Canetti del Testimone Auricolare, figuriamoci quanto sia talento imprescindibile a un traduttore operante nella solitudine e nell’ombra, eroico minatore intento all’estrazione di sensi suoni significati, cercatore d’oro tra fiumi, mari e montagne di parole color carbone.
Anche sull’intenso Viaggio al Termine della Notte, amaro prontuario di profezie tutt’altro che smentite ai giorni nostri, bibbia della disperazione Occidentale vissuta e manoscritta sull’abisso delle guerre mondiali, alle frontiere del fordismo yankees, ai margini dell’alienazione urbana e dei vorticosi deliri della Tecnica, delle inesorabili contraddizioni del progresso, dei soprusi del post-colonialismo, c’è un interessante confronto intellettuale fra traduttori che Ernesto Ferrero racconta assai bene in questa sua nota sulla rivista Tradurre.
In aggiunta finale, le illustrazioni di Jacques Tardi “traducono” in immagini con minuziosa congenialità d’intenti l’atmosfera d’impotenza, l’umornero di disfatta e la schiuma avvelenata d’apocalisse che sovrasta questi due pilastri della letteratura mondiale
Commenti disabilitati su Fotobiografia di Oliver Sacks
Ad integrazione fotografica di un mio precedente contributo, propongo con emozione e gioia questa antologia d’immagini di Bill Hayes che ritraggono con un discreto senso della distanza fissando con calorosa adesione umana sulle lastre vischiose del tempospazio il dottor Oliver Sacks negli ultimi suoi mesi di vita, ed emerge fin da subito un profilo in carne-ossa molto intimo ma non esibito. Partecipiamo cioè con questi scatti al quotidiano niente affatto rassegnato ma assai laborioso, vivace e vivo dell’uomo di studi sempre curioso come un ragazzino dei suoi oggetti di ricerca pur se d’uomo morente si tratta e questo lo percepiamo noi che osserviamo e lo sa bene lui che si sente inavvertitamente scrutato cosi proprio come fa anch’egli in una delle foto seguenti dove è immortalato mentre sta esaminando alcune farfalle alla lente d’ingrandimento.
Parallelamente al lucido diario della malattia che va man mano redigendo e che ho tradotto sempre in Generi Elementari, questa che segue è una vera e propria “foto-biografia” del poco tempo che resta al grande neurologo colto con sensibilità notevole dovuta senza dubbio ad una profonda intesa confidenziale ad un delicato quanto tacito patto d’amichevole complicità tra il soggetto fotografante e il soggetto fotografato.
Un Giardino di Farfalle
La Mia Tavola Periodica
Al Lavoro
A Casa
La Mia Vita
Gennaio
Oliver
Copia e Incolla
Al Lavoro
Colazione all’Inglese
Studiando Bach
Oliver
Londra, Ore 18
Islanda
La Gioia di Scrivere
“Ho visto il cielo intero polverizzato di stelle…”
Commenti disabilitati su Il Cibo Il Vino e lo Spirito Sesso
Breve ma veridica storia portatile della pornografia, perché non di solo cibo e vino si campa! Per il piacere compulsivo di amici e amiche pornomani/pornofile o ancora meglio, per il loro godimento scopofilo – prima di leggere alla lettera e fare del facile sarcasmo andate a controllarvi il significato della parola, maligni! – , traduco questo pruriginoso articolo di Carrie Weisman da AlterNet.. e, buone “scopofilate” a tutti!
Oltre alla traduzione anche la ricerca iconografica e il setacciamento d’archivio digitale-cartaceo è sempre a cura del sottoscritto/mentecatto/scrivente.. medesimo.
Breve ma assai fascinosa Storia del Porno. “Il sesso è sempre stata una storia degna di essere condivisa.”
I rapporti della società con il sesso non sono proprio quello che si direbbe una relazione sana. Certo ci piace, ma ci piace anche mantenere dal sesso una certa distanza di sicurezza. Godiamo nell’osservare altre persone che lo fanno, ma altre volte non ci piace proprio per niente. Il porno ci ha sempre concesso una sorta di misura di controllo su quando vediamo far sesso e quando no.
Nel 2009 uno studioso di Montreal Simon Louis Lajeunesse s’è trovato costretto ad abbandonare una ricerca sugl’effetti della pornografia negl’uomini perché incapace di individuare un gruppo di comando, vale a dire che non è stato in grado di trovare un singolo individuo sui 20 anni che non avesse mai visto del materiale pornografico. Dunque il porno è ovunque, sempre popolare, è stato ed è incredibilmente così già da lungo tempo.
La Venere di Willenford è una delle prime descrizioni maschili di un corpo nudo, questa statuetta grande poco più di 10 centimetri ritorvata lungo gl’argini del Danubio in Austria, è stata datata ad oltre 25.000 anni fa. I Greci e i Romani ci hanno lasciato innumerevoli racconti di sesso etero e omosessuale, sesso orale, orge e molto altro ancora. Il Kama Sutra, un testo del II sec. DC. (NdT. stando alle datazioni di John Keay, correggo l’autrice che data invece al III sec) è a tutt’oggi ancora riconosciuto come pietra di paragone culturale di ogni attitudine sensuale alla vita; la traduzione del titolo suona più o meno come: “Trattato sul Piacere”.
Ma forse la più grande collezione di arte erotica antica è stata scoperta dagli scavi di Pompei. Gli archeologi hanno trovato centinaia di immagini sessualmente esplicite, sculture, affreschi che decoravano bordelli, bagni pubblici e case comuni. Uno degl’oggetti più famosi ritrovati nell’antica città di Pompei è una scultura del dio Pan mentre sta copulando con una capra. Se l’atto sessuale rende certa gente schizzinosa la bestialità provoca addirittura un intenso attacco di nervi. Questa di Pan assieme a centinaia tra altri affreschi e sculture fu da subito messa in mostra al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ma dopo che Francesco I delle Due Sicilie l’ebbe visitato ordinò immediatamente che il materiale più esplicito fosse messo in un altro posto che infine sarebbe stato denominato il Gabinetto Segreto. I reperti sono così rimasti nascosti per oltre un secolo.
Le nuove tecnologie introducono nuovi strumenti per raccontare le storie e il sesso è sempre stata una storia degna di essere condivisa. Come ha scritto una volta Damon Brown su Playboy: “se inventiamo una macchina, la prima cosa che faremo – dopo averci guadagnato su – è tentare di utilizzarla per guardare dei filmini porno.”
Sin da quando Gutemberg ha inventato la stampa nel 1440, il porno ha velocemente trovato la sua dimora ideale nella letteratura. Nel 1524 fu pubblicato il primo libro di incisioni erotiche. Nel 1749 John Cleland ha scritto il romanzo erotico Fanny Hill: Memorie di una Donna di Piacere. Ma riuscire a far girare e diffondere il materiale non era così semplice. Cleland ed il suo editore originario furono arrestati ed immediatamente incarcerati subito dopo la pubblicazione del libro. Il Boston Globe del tempo racconta che un vescovo denunciava il libro come: “la cosa più disgustosa che abbia mai visto”. Il romanzo tratta di temi quali bisessualità, voyeurismo, sesso di gruppo e masochismo. Il libro fu giudicato “osceno” e rimase clandestino negli Stati Uniti fino al 1966.
Nel 1839 ci furono i dagherrotipi (una versione primitiva della fotografia). Ovviamente, qualche individuo piuttosto intraprendente trovò subito il modo di usare la tecnologia a servizio di intenti pornografici. Il professor Joseph Slade in un suo saggio del 2006 suggerisce che il primo dagherrotipo pornografico sia emerso nel 1846. L’immagine ritraeva: “un uomo piuttosto solenne che con cautela estrema inserisce il suo pene nella vagina di un’altrettanto solenne donna di mezza-età.” Undici anni dopo questa foto, la parola “pornografia” fu aggiunta ufficialmente nella lingua Inglese. Al tempo, però la definizione era questa: “scrivere di prostitute”.Alla fine eccoci nell’era del cinema. Il Bacio di Thomas Edison fu commercialmente disponibile sul mercato nel 1896. Come insinua il titolo, il film descrive il primo bacio cinematografico. Potrebbe risuonare un po’ troppo convenzionale ai giorni nostri, ma al tempo provocò un certo scandalo. Dunque anche in questo caso, non è dovuto passare molto tempo prima che altri registi cominciassero a produrre materiale più spinto.
I primi del ‘900 hanno segnato un’epoca con i cosiddetti “stag film“. Questo tipo di filmati erano del tutto girati consumati e distribuiti illegalmente, ed erano rappresentativi della cruda, – sebbene sempre in rapida crescita – industria del porno americana. I registi di questi “stag” generalmente facevano affidamento su narrazioni disconnesse a favore di più vivide descrizioni di nuda e cruda sessualità. Il professor Slade suggerisce che: “il raffinato dilettantismo” di questi film “riafferma l’autenticità della sessualità umana.”Questi filmini il più dell volte contrabbandati da commessi viaggiatori, erano generalmente consumati durante festicciole tra celibi, eventi di gruppo ed altri esclusivi raduni tra confraternite maschili. Ricercatori del Kinsey Institute credono che tra il 1915 ed il 1968 sono stati prodotti approssimativamente 2000 di questi film “stag” .A dispetto delle complicazioni dovute alla difficile produzione e distribuzione dai contenuti pornografici, il materiale è rimasto sempre popolare e talmente diffuso, che a partire dal 1951 è stato formalmente introdotto il Divieto ai Minori. Due anni dopo Hugh Hefner che al tempo aveva 27 anni, fonda Playboy.
Ma le cose non sono certo continuate senza incidenti. Nel 1957 Samuel Roth a New York fu accusato di spedire materiale osceno attraverso la sua libreria. Il caso alla fine arrivò alla Corte Suprema dove 6 giudici su 9 decretarono che l’oscenità era un linguaggio non ai sensi di Legge ed il Congresso poteva così bandire quel materiale che fosse: “totalmente senza alcun riscatto di rilevanza sociale”. Così facendo la legge mise a maggior rischio anche la pornografia più convenzionale. Roth fu accusato di oscenità in diverse occasioni, uno di questi casi coinvolse proprio il romanzo proibito Fanny Hill.
Nel 1966 Lasse Braunribaltò la scena e sarebbe alla fine diventato uno dei più celebrati nomi nel mondo del porno. Cominciò girando filmini muti clandestini da 8mm con titoli quali: Golden Butterfly, Blow-Up ’70 e Sex on the Motorway. Dal 1968 Braun, (ufficialmente noto come AGF) aveva accumulato diversi casi criminali a suo carico come editore, produttore e distributore di materiale “osceno” o materiale “contro il comune senso del pudore”. (La Danimarca sarebbe diventata la prima nazione europea a legalizzare tutte le forme di pornografia già dal 1969).
Qualcuno ritiene l’originale Braun un vero e proprio “militante del porno” e una guida nella lotta alla legalizzazione del materiale per adulti. La sua società, AB Beta Film, è stata la prima a produrre film hard a colori. Braun è stato anche il primo regista europeo ad essere inserito nella Hall of Fame degli AVN (Adult Video News), suo figlio Axel Braun è stato il secondo.Il socio in affari di Braun, Reuben Sturman, controllava invece le cose sul fronte americano. Per rendere i film ancora più accessibili Sturman comincia a proiettare i lavori di Braun nelle sue cabinette “peep show”. Le macchine a gettoni proiettavano i film a circuito chiuso in queste cabinette chiuse. Quando il tempo misurato a gettoni si esauriva il film s’interrompeva. Se gli spettatori bramavano vedere più materiale tutto quello che avrebbero dovuto fare era inserire un altro quarto di dollaro. Sturman fece in modo di dotare ogni singola cabinetta con una scatola di salviette di carta. Queste cabinette furono successivamente chiamate “paga e spruzza”. Tra il 1971 e il 1974, Sturman aveva già aperto 60,000 di questi peep-show per tutta l’America e il Canada. Fu proprio in questi anni che il porno cominciò a diventare commerciale. Gli anni ’70 sono spesso definiti “L’Epoca d’Oro del Porno“, e questo soprattutto grazie ad un’epocale decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti. Nel caso di Miller contro lo stato della California la Corte sentenziò una ridefinizione della propria visione di “oscenità”. La sentenza comportò dunque un drammatico calo di persecuzioni contro l’oscenità per tutta la nazione.In questi anni, Ron Jeremy, Nina Hartley, Peter North ed altri volti familiari apparvero sulla scena. Nel 1972 esce il primo filmetto porno internalzionale: Dietro la Porta Verde. In quello stesso anno anche Gola Profonda fu un enorme successo nei cinema di tutto il mondo, con Linda Lovelace che interpreta una donna frigida e frustrata che impara a suo giovamento di avere il clitoride infilzato in fondo alla trachea.
Ma per quanto popolari e di successo questi film potessero essere, gli spettatori lamentavano la difficoltà di goderne in un contesto sessuale più solitario, e questo avvenne solo con l’arrivo della tecnologia del video. Nel 1976 la JVC introdusse le videocassette (VHS Video Home System), un formato che avrebbe reso la “tecnologia in video” qualcosa di molto famigliare.
Gli analisti di PornHub hanno stabilito che nel 1978 meno dell’1% possedeva un videoregistratore, ma “un incredibile 75 % delle videocassette vendute sul mercato” consistevano in materiale pornografico. Ora noi lo diamo per scontato, ma la possibilità di metter pausa, accelerare in avanti o indietro il video e riguardare le scene a piacere ha completamente cambiato l’esperienza della visione. I fanatici del porno su internet possono senz’altro immedesimarsi, quando si persegue la ricerca del piacere un’esperienza personalizzata spesso è la cosa migliore e l’home video ha consentito agl’individui un ulteriore passo in avanti in questo senso permettendogli addirittura di registrare le proprie esperienze sessuali (da qui intuiamo perché l’espressione “home-made/fatto-in-casa” può suonare anche così sconcia). Questo tipo di intrattenimento sarebbe diventato un affare gigantesco solo pochi anni dopo. La registrazione porno di Kim Kardashian realizzata nel 2007 è il video più visualizzato di tutti i tempi con più di 93 milioni di visualizzazioni.
Quindi nel 1991 con internet il mondo del porno cambia per sempre volto. Il primo sito porno risale al 1994. Dal 2012 Xvideos diventa il più grande sito porno nella rete con 4.4 miliardi di pagine visualizzate ogni mese. Allo stesso tempo Extreme Tech ha fatto notare che Xvideos era tre volte più vasto del sito della CNN o di ESPN (Entertainment and Sports Programming Network) e due volte Reddit, aggiungendo che “LiveJasmin non è tanto più piccolo. YouPorn, Tube8 e PornHub – sono tutti dei siti enormi, degl’immensi meccanismi per far soldi che sovrastano qualsiasi altro sito internet eccetto Google e Facebook.” Oggi Xvideos è classificato al 43esimo posto tra i siti più popolari della rete.
Molte società di intrattenimento per adulti hanno trovato una propria collocazione nella rete, ma allo stesso modo anche siti amatoriali, feticisti, siti in streaming e molto altro ancora. Ora che le piattaforme interattive stanno pompando a tutto gas, il porno sta già entrando in un’altra nuova fase ed è più accessibile che mai. Ovviamente la pornografia non avrebbe avuto alcun senso d’esistere senza la controspinta di quanti vorrebbero debellarla. Gruppi quali NoFap e Fight the New Drug argomentano che la pornografia su internet sta cominciando a sovraeccitare all’eccesso il cervello della persone portandole ad un’inevitabile dipendenza.L’attivista dell’Anti-porno Robert Jensen autore di Godere: la Pornografia e la Fine della Mascolinità propone delle articolate discussioni che meritano tutta la nostra attenzione, non tutti concordano però. Le nostre relazioni con la pornografia sono sempre un ammasso di opinioni contraddittorie e contrastanti. Alcuni la criticano aspramente altri sceglieranno di farne largo uso e consumo, ma quello su cui tutti noi siamo senz’altro d’accordo concerne i profitti alti relativi al mercato del sesso, specialmente la vendita di quella varietà di sesso esercitata a mero scopo non procreativo.
Qualche approfondimento bibliografico
Sigmund Freud, Tre Saggi sulla Teoria Sessuale (BUR)
Luca Canali, Vita, Sesso, Morte nella Letteratura Latina (Il Saggiatore)
Alexandre Dupouy, Le premier pornographe. Photographies clandestines de la fin du XIXème siècle (Astarte)
Gilles Néret, Erotica Univcersalis (Taschen)
Georges Bataille, L’Erotismo (Mondadori) – La Letteratura e il Male (SE) – Le Lacrime di Eros (Bollati e Borignhieri)
Ando Gilardi, Storia della Fotografia Pornografica (Bruno Mondadori)
John Holmes, Re del Porno. L’Autobiografia del Piu Grande Attore Hard (DeriveApprodi)
Roberto Curti, Visioni proibite. I film vietati dalla censura italiana (1947-1968) (Lindau, 2014) con Alessio Di Rocco Visioni proibite. I film vietati dalla censura italiana (dal 1969 ad oggi) (Lindau, 2015) con Alessio Di Rocco
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La battaglia m’infuriava nel capo (Luciano Bianciardi)
Settembre ormai inoltrato, mi preparo per la cinque/sei giorni al Sud da Fiumicino aereoporto approdo Sicilia Orientale. M’andavo fischiettando malamente al bandoneon della memoria Vuelvo al Sur di Piazzolla già in treno dalle ore appiccicate agl’occhi del primo mattino tanto per auto-suggestionarmi nell’apnea del sonno compromesso che la vida es sueño, cantilenandomi stonato: ma sono desto o son scemo? Con un ben largo anticipo di 3 ore attracco al gate dove ho tutto l’agio di meditare i sempre verdi mala tempora currunt ed ingozzarmi il mezzo filoncino di pane ripieno di frittata della sera in bianco passata da poco: agonizzante stratificazione mesozoica di carboidrati su carboidrati.
In fila pronto all’imbarco, questi i rottinculo di pensierini che mi traballavano sciancati in testa sempre al ritmo tanguero di cui sopra… “Altri tempi altri sogni. Garibaldi con l’aiuto dei Mille conquistò gloria perenne e Regno delle 2 Sicilie.. oggi invece posso tuttalpiù felicitarmi di sti 2 mezzi culi di panasciutto con frittata di trofie avanzate del giorno innanzi e miserabilmente confidare nella conquista a furor di spintoni e gomitate d’un posto-finestrino infame su sto bieco volo low cost..”
Neanche approdato al Fontanarossa di Catania, appena il tempo d’una pisciatina apotropaica a segnalare nell’immediato l’appropriazione territoriale psico-mammifera del Dasein e del mio esserci-per-la-morte che mi ritrovo sulla parete altrimenti immacolata del cesso aereoportuale faccia a faccia col beffardo genius loci isolano, prendere-o-lasciare, e ne deduco immantinente che siam tutti ma proprio tutti nessuno escluso, dei gran figli di bravissima madre!Fuori gl’amici cari Carlo e Paola ad attendermi, ospiti deliziosi pieni d’ogni minima premura genitoriale quasi, il più privilegiato degl’oblò – fossero una nave – da/e attraverso cui scrutare in questa densa crociera di pochi giorni che m’aspetta: cielo terra mare genti modi abiti e vezzi di Sicilia e sicilianità (avrei osato anche “sicilianezza” perché no?)
In effetti si comincia da subito a battagliare a colpi di menù a scudisciate gastrologiche sottilissime sul de falso et vero bono fin dal primo pomeriggio accucciati ai seggioloni disagevoli della più osannata e sciovinistica delle pasticcerie in città, in disparte dall’indolente traffico afoso post-prandiale a meditare su un casus belli catanese-palermitano tra l’ondeggiare di poppe fresche allo scirocco, ancheggiamenti pan-africani di fanciulle e fanciullone in fiore d’arancio intrecciato alle chiome sfrontate vaporose di canicola umidiccia ed altrettanti afrori testosteronici a girotondo a giramento di capo e quant’altro.. L’approccio alla materia mangesca è dei più pensosi, serissima la querelle di filologia campanilistico-romanzata, trattandosi qui in Sicilia di questioni di vita o morte imprescindibili alla sacra tradizione culinaria nella maniera scolastico-medioevale di sanguinose diatribe bizantine sul sesso degl’angeli: “Certo che siamo a Catania, ma perché allora qua è declinato le Arancine come appunto le si nomina ad indicare quelle apocrife e poco saporite di Palermo e non affatto gl’Arancini unici originali genuini catanesi?”
Intanto che uno schiaccianoci metafisico m’andava sempre più comprimendo il cervelletto a forzare il già malandato di suo per natura guscio cranico – sicuramente causa della levataccia all’alba così almeno mi ripetevo bisbetico in silenzio – un’altra faccenda ha comunque avuto la forza centripeta e la sfrontatezza d’assurgere a tema del giorno ormai inoltrato sbavando presuntuosa dalla mia boccuccia mascherata d’una selvatica barba lunga d’appena appena un paio d’anni: “..ma che il Terzavia Metodo Classico di De Bartoli voi l’avete assaggiato ultimamente? Quale sboccatura, vendemmia, tiraggio? Avete notato delle differenze rispetto al passato recente? Non v’è parso un po’ diciamo, ‘diverso’? Ossidativo in eccesso o chessò, faticosetto di mosto non così tanto crusco al palato e d’assai meno fragranza a onor del vero? È sicuramente solo una mia impressione suppongo? o sarà stata chissà la bottiglia sbagliata bevuta qualche giorno fa a un banco d’assaggio pomeridiano in Piemonte sotto un sole da Valle della Morte e sotto i tendoni a trenta e più gradi?” Insomma lasciato il patio all’ombra libidinosa degl’arancini o arancine in fiore, si fa un salto a Il Carato covo d’eccellenza gastronomica dei miei anfitrionici Lari per sottrarre a se stessi una di queste bocce di tanto per rinfrescarci memoria e gargarozzo, dunque rinfrescarla in ghiaccio una volta subito giunti a casa sulle colline meridionali dell’Etna a controverificare tutti e tre assime sulla via, bicchieri-bisturi alla mano, la gravità o meno di quelle mie loquaci pur se col mal di testa a merda, perplessità palloso-degustative.
Quel che posso qui dire fin da subito è che l’Oki sciolto nel bicchiere d’acqua non ha fatto che ampliare ancor più il trauma cranico a doppia-merda, ma neppure stappato il Terzavia Metodo Classico di cui si contestava e contestualizzava l’integrità – almeno fui io a diciamo contestare poi a contestualizzare insomma, fummo tutt’e tre -, che nel calice già al naso si sprigiona una freschezza marina, una mareggiata salmastra di iodio sulla battigia, una spremuta d’agrumi spumeggianti tanto che il cranio s’innalza e schizza via in terza di scatto alla velocità della luce sulla vetta del vulcano fuori al balcone planando sul cratere, sul ribollire di lava furiosa e i pennacchi di fumo scacazzando finalmente via da sé quel peso e stritolamento che m’assediava così come un improbabile falco peregrinus che si lascia sfuggir via la preda contorta, riassestandosi poi alla fine in un attimo sul collo d’appartenenza più sano di quanto l’abbia mai potuto avere o immaginare d’aver avuto. Aggiungo solo a posteriori, che in quel volteggiamento etneo della capoccia grazie alle meraviglie pirotecniche del Grillo spumantizzato di De Bartoli ho felicemente sperimentato dal vivo la teoria di Xuan-Ye che apparve in Cina attorno al 220 e il 202 Avanti Cristo una visione cosmologica che vuole l’universo informe e senza limiti entro il cui vuoto sostanziale i corpi celesti vi fluttuano, planano e galleggiano come in sospesione.
Pronti quindi per la serata a Sant’Agata li Battiati dove i nostri implacabili eroi gestiscono in trasferta estiva una patriarcale villa gattopardiana tra ulivi, lecci, aranceti e dove Carlo Sichel cesella da orafo della cucina, da intagliatore di legni rari, da tessitore di tappeti persiani edibili ed imperla quasi fosse una collana alimentare di coralli per i pochi fortunati presenti, il menù della cena settembrina che riporto tale-quale come segue – perdonerete mi auguro, le foto digital-casual che non rendono certo giustizia ai piatti a cui ho sicuramente cercato di supplire più a parole (scrivendone) e a fatti (impanzandomi).
Insalatina tiepida di Lenticchie, polpo e spuma di mortadella;
Il Cannolo scomposto di Baccalà mantecato senza uova con Marsala;
I Cannelloni di grano duro siciliano antico Bidì ripieno al ragù bianco di vitello, maiale, battuto di cipolla, alloro porcini dell’Etna trifolati e crema di Cosacavaddu;
Il Petto d’Anatra marinato in sale e zucchero in salsa al Vin Santo, patate fumo lesse e schiacciate affumicate con lavanda ed altre erbe aromatiche, Tenerumi “li taddi cucuzza” e Fiori di Zucca ripieni di Foie gras de Canard;
Il Tortino di Mandorle, gelatina di fichi d’India e Mandorle atturrate
Uno scatto d’iphone rubato a Carlo Sigaro-Extravecchio-Toscano fumante, durante un riflessivo momento di vitae meditatio ed istruzione dello staff di sala sulla giusta sequenza degl’ingredienti nei piatti e la presentazione più idonea d’ogni portata in programma.