Ma qui resplende e luce onne natura,
Che a chi intende fa la mente leta.Cecco d’Ascoli, L’Acerba
Il Tiglio, un giorno qualsiasi di fine luglio. Sommergersi sulle cime dei Sibillini svettanti come boe verdastre che paiono galleggiare tra i nuvoloni. Il corpo e l’apparato digerente sono il solo dato di percezione, meglio sarebbe dire d’appercezione, abbastanza certo almeno circa la propria presenza fisica nel tempo e nello spazio – questo alla fin fine l’unica controverifica a un eventuale sogno ad occhi aperti – che pare bucare la nebbiolina fantasma delle alture oltre Montemonaco per poi alla fine ritrovarsi in questa località da schizzo preparatorio ai quaderni di lavoro d’un macchiaiolo minore: Isola di San Biagio. Un’isola che non è tale e che in effetti pare proprio un’isolotto trai monti presumibilmente felice contornato com’è da radici, boschi, terra, emersi dal cielo mentre al di sotto delle nuvole è gioco facile immaginarsi il groviglio carnale delle città d’inferno strabordanti d’uomini, donne e bambini sempre più dannatamente soffocati con le proprie mani, i tubi di scappamento, le acque infette, i fumi venefici: vite percolanti, cibi precotti, vini reflui.
Il tiglio secondo i greci antichi è albero sacro ad Afrodite dea della Bellezza e dell’Amore; andrei dunque a snocciolare i menù degustazione saggiati proprio al centro di questo vero e proprio genius loci, comprensivi d’antipasti, primi e secondi piatti con incluse le foto emotive a supporto che riporto quali frammenti ritrovati d’un poemetto epico in digitale ad illustrazione delle portate coscienziose e le bellezze culinarie tanto amorevolmente meditate, cucinate ed impiattate da Enrico Mazzaroni sostenuto in sala con la dovuta grazia ed affabilità nelle fatiche e furie di cucina, dal suo assai ben coordinato e confidenziale staff.
In abbinamento per tutta la durata della cena in una rispettosa armonia di sapori, timbriche e tonalità regionali, i vini fusi a splendore con le vivande, della sempre più enologicamente felice, modulata e sinfonica Maria Pia Castelli.
Il benvenuto: l’arrampicata trai boschi
Cozze con polvere di cacao su sasso
La patata cotta sotto la cenere
La foglia di lattuga spolverata di foie gras… straordinaria fusione ilozoica dell’umile e “freddo” ortaggio con la nobiltà del “caldo” fegato grasso!
La sfera liquida di parmigiano
Il gamberetto di fiume da leccare eccome se l’abbiamo leccato!
La tagliatella col guanciale
Fusilloni trafilati in oro Verrigni con essenza di castagne verdi
Il cannellone del giorno dopo
Il baccalà
Preziosa e determinante al pieno apprezzamento dei cibi si è rivelata l’uva naturalmente fermentata dei vini assaggiati lungo l’arcobaleno di profumi e sapori della serata: il bianco, il rosato, il rosso prettamente territoriali dall’Azienda Agricola di Monte Urano della sempre più brava, determinata ed “uranica” Maria Pia Castelli:
Stella Flora 2010
Sant’Isidoro 2013
Erasmo Castelli 2007 su cosciotto di cervo di cui non conservo alcuna memoria fotografica, ma resterà impressa come stampo di tenerissima carne spellicolata fibra a fibra che conserverò per sempre sulla lastra delle connessioni nervose invisibili che intessono il palato al cuore.
Elettrizzato e contento come un bimbo trai giocattoli, di trovare dall’Etna ai Sibillini l’Amara, l’amaro bilanciatissimo negli zuccheri agl’agrumi spremuti d’essenza d’arance rosse di Sicilia del caro amico Giuseppe Fabio Leebrizzi per finire in bellezza questa cena che è stata piuttosto un’immersione da palombari/montanari del gusto nei cieli oltre che i mari e le cime pacificanti delle Marche.