Us (us, us, us, us) and them (them, them, them, them)
And after all we’re only ordinary menPink Floyd
Contro il viaggio. Lamentazione in lutto dell’identità
Più viaggio, più ritrovo città e paesi sempre più indistinti. Uguali a se stessi. Azzerati nelle differenze umane. Immiseriti delle identità comunali. Derubati delle tipicità civiche. Azzerati, immiseriti, derubati, da chi altri se non da noi stessi in carne ed ossa? Esattamente NOI, i barbari di noi stessi, i vandali del degrado in casa nostra come diceva qualcun’altro. L’esatto opposto del genius loci che equivale all’ottusità dappertutto. Cioè l’idiozia dovunque che non siamo diventati altro.
Tempo fa, sempre vagabondo in Sicilia, ingozzato da un arancino (arancina) tra il teatro greco-romano antico e un crocevia di palazzine semi-abusive, mi ero posto una domanda agonizzante a bruciapelo… sullo stomaco.
Qual è la ragione, perché c’è una ragione, che nei posti più belli d’Italia: Taormina, Capri, Venezia, Firenze, Siena, Sorrento… è tutto un tripudio terrificante di ristorantini pacchianissimi, caffetterie kitsch, bistrot improbabili, pizzerie fosforescenti, prodotti tipici fasulli, alberghi 5 Stelle naif vista fogna-mare?
Risposte quali: “la legge del mercato” e “il turismo in massa”, erano già implicite nella domanda. Quindi?
Gli stessi caffè atroci ovunque. Le solite gelaterie dai semilavorati di polistirolo. I forni col pane al cellophane. I gruppi bancari grigi. Le agenzie immobiliari inquietanti, agenzie funeree senza dubbio più inquietanti ancora di quelle funebri o delle compagnie d’assicurazioni. Piazze pubbliche, palazzi storici, corsi principali tramutati in pisciatoi d’uomini, donne e bambini che entrano ed escono da mutanderie a schiera. Giocattolifici assortiti. Raccapriccianti Burger King della minchia. Profummerderie senza fine.
Paesi e strapaesi che sono sempre meno autentici. Borghi che sempre più assumono le sembianze mostruose di monocordi centri commerciali. Città e stracittà le cui strade non si differenziano in niente dai corridoi coi negozi alla moda e i duty-free – free un pezzo di cazzo – dentro ai Terminal negli aereoporti che poi è un unico Aeroporto-Monolito mentre azzanna, ingloba, fagocita, scagazza tutto il mondo. Aereoporto-mondo senza scappatoia da cui ognuno di noi viaggia triste e solitario anche se a gruppi, con destinazione di sola andata verso l’imbecillità elefantiaca irreversibile della specie d’appartenenza.
Più viaggio per il mondo più mi convinco dell’inutilità di viaggiare. Meglio restarsene ognuno alle fottute case proprie. La TV possibilmente scaraventata di sotto dal piano più alto di un palazzaccio di quartiere della vostra cittadina inautentica o dal vostro paesino merdoso; una vale l’altro tanto oramai paesi, periferie e città sono talmente irriconoscibili eppure identici tra loro essendo diventati tutti la copia squallida sputata di un Mall asiatico. Ma sì, restarsene tranquilli a casa in silenzio dentro al letto. Casomai rapiti in un perenne viaggio spirituale. Sperduti con gioia allucinata in un volo immaginario lontano. Avventurarsi nella lettura inesauribile della vita. Lettura non di evasione sia chiaro, ma lettura di ritorno a casa nella fuga incessante dentro di sé. Lettura d’infinite vertigini, smarrendosi in un viaggio senza meta o senza scopo, ma senz’altro un viaggio più elettrizzante di qualsiasi altro viaggio fatto in treno o in aereo. Una peregrinazione della fantasia più reale e proficua della stessa realtà. Un fuggifuggi dal tedio dell’ovvietà, intrecciato sulle trame, sui personaggi, sui contesti storici, sulle atmosfere di un romanziere russo o sui libri di qualche grande mente illuminata le cui pagine ci trasportano nello spazio e nel tempo in piena libertà fuori di noi, al di là dei nostri simili per farci comprendere – forse chissà – qualcosa in meglio o in peggio di noi stessi e degli altri.
Omologazione sociale a badilate. Cattivo gusto predominante notte-giorno per tutte e quattro le stagioni, a ciclo continuo. Perbenismo della fattura più bieca. Società dello spettacolo grottesco in cui applaudiamo al Vuoto Universale. Intrattenimento per le palle al cinema, a teatro, in libreria, al ristorante. Futilità urbanistica a perdita d’occhio. Piattume alimentare a spron battuto. Menu turistici a prezzi fissi. Mediocrità architettonica a trecentosessanta gradi. Vuotezza culturale cosmica. Cialtroneria di massa. Falsificazioni industriali con la pala. Zero spaccato d’identità. Il niente assoluto d’autentico, di sostanzioso o quantomeno di verace da nessun orizzonte. E poi pretendiamo pure ritrovare ancora il vino genuino alle radici della sua autenticità contadina? Ci gonfiamo i polmoni con il terroir, con la mineralità, con la geologia, con la toponomastica dei vigneti? Con l’ampelografia. Il vino vero. La vigna incontaminata. Il cibo di una volta. Le fermentazioni spontanee. Puah! Il pane a lievitazione naturale e pasta madre. Il pane con le farine da grani antichi. Il pane cotto al forno a legna. Stronzate da tromboni sfiatati. Automenzogne. Patetiche illusioni. Cazzatacce senza speranza.
Quando ormai viaggiare è solo un miserabile schifo. Altro che Quando viaggiare era un piacere. Scriveva il grande Evelyn Waugh:
A volte sento il passato e il futuro premere implacabili da entrambi i lati che non trovo più spazio per il presente.
Più viaggiamo nel dozzinale presente e meno ci arricchiamo d’esperienze, d’incontri esaltanti, di paesaggi luminosi. Di dignità.
Più si procede sulle rotte dell’ordinarietà, più si viaggia nell’odierna bruttura umana e ambientale, più si constata sulla propria pelle – è un’equazione matematica quasi infallibile – che tutto quanto ci viene incontro in viaggio o quello a cui siamo costretti a scontrarci viaggiando, non è altro se non una gigantesca, omologante, illusionistica cagata pazzesca. Un’offensiva giostra dell’orrore (una baraonda dell’errore). Un maldestro, deludente circo delle vanità. Una sagra di maledetti luoghi comuni che più comuni e maledetti non si può. Un teatrino osceno che ci ha reso tutti più asettici, funesti e coglioni. Una disumana farsa fatta di andate/ritorni da e per nessun luogo. Un’altalena spezzata in cui siamo al contempo la parte oltraggiata e quella che oltraggia.
Palermo, 12 gennaio 2019