Finanziare quale ricerca?
Angelo Gaja su Millevigne (pubblicazione del
A pensarci bene questa retorica sciropposa del sovvenzionare la ricerca con i contributi della Comunità Europea la percepisco un po’ ambivalente e per niente disinteressata visto che un paio di precetti sono sollecitazioni spinte, suggerimenti alquanto espliciti al business redditizio del vivaismo e alle new frontiers/new deal dei vitigni resistenti su cui già da un po’ di tempo stanno calcando la mano in tanti degli “addetti ai lavori” cioè i professoroni ex cathedra, gli enologi più o meno di fama, i tecnici di cantina e i consulenti agricoli vari ed eventuali con l’attenuazione di colpa del “cambiamento climatico.”
Non entro nel merito delle “migliori intenzioni” di Angelo Gaja sull’utilizzo dei finanziamenti pubblici al settore vinicolo ma mi fa molto riflettere in negativo sul fatto che i punti salienti da lui riportati siano tutti condizionati da un fattore comune preoccupante che definisce un paradosso bello e buono cioè l’uso di metodologie agronomiche ed enologiche per “combattere” le stesse metodologie agronomiche ed enologiche così da innescare un effetto domino dove la terapia d’urto fa più danni dello stesso male.
Come leggere altrimenti:
– Individuazione di lieviti dal minore potere alcoligeno.
– Metodi “puliti” di contrasto dei batteri inquinanti che possono alterare la qualità organolettica del vino.
Come leggerli se non quali ammaestramenti politici, imperativi categorici, indirizzi di sistema rivolti non tanto alla Ricerca in sé quanto alla programmazione omogenea dell’Industria farmaco-enologica? Un’industria agguerrita che addomestica la Ricerca ai propri fini cioè agli interessi economici più redditizi. Un’industria lanciata sul mercato come uno Shinkansen senza freni a cui non basta aver scatenato la malattia dell’appiattimento del gusto, lo tsunami dell’omologazione del palato, ma pretende anche d’imporre la cura della “qualità organolettica”. Qualità organolettica stabilita secondo parametri e protocolli ferocemente normalizzanti. Qualità organolettica standard da laboratorio che non è più qualità ma è piattume sterile, è grigiore alimentare, è azzeramento delle differenze, è massificazione delle singolarità anche “sporche”, “anomale”, “indisciplinate”, “difettose” le quali non si fanno “pulire” o “raffinare” a comando per regime d’impresa. Per come la vedo io poi, lo ”sporco”, l’ “indisciplinato”, il “difettoso” l’ “anomalia” sono un male necessario attraverso cui dovrà pur passare la rivoluzione del gusto. Il ribaltamento del “giudizio estetico” è proprio questo passaggio obbligato che deve attraversare per non farsi imbottigliare dall’ingegneria enologica, per non farsi banalizzare dalle nanotecnologie applicate alla scomposizione e alla ricomposizione molecolare degli ingredienti alimentari tra cui anche il vino. È l’applicazione diabolica di queste sofisticate tecnologie d’ultima generazione il vero focus su cui concentrerei oggi tutte le nostre energie intellettuali volte ad arginarle, su cui punterei tutti i nostri sforzi d’approfondimento culturale, scientifico, economico per non farci algoritmizzare la psiche e uniformare il palato.
“La ricerca deve essere sostenuta, non va temuta. I risultati che sarà in grado di fornire dovranno essere disponibili per tutti, alle stesse condizioni.”
Continua così perentorio verso il finale del suo ragionamento Angelo Gaja. Eppure per me non si tratta di temere o stigmatizzare la ricerca, anche perché senza la ricerca noi oggi non eravamo certo qua a spippolare su questi marchingegni d’inferno ma stavamo ancora a giocare a ping-pong con le clave e i sassi o a soffiare nel culo delle rane (ah, bei tempi quelli, che nostalgia!)
La ricerca però andrebbe sostenuta e incentivata a parer mio, contro il logorio della monocoltura moderna, a deterrenza dell’omologazione delle coscienze perché parlare solo di vino senza approfondire/studiare/ricercare la biodiversità, il contesto agricolo da cui genera anche il vino, rischia di diventare sterile esercizio di stile dai produttori ai degustatori autoriferiti della domenica al circolo dell’uncinetto sotto casa. È tempo che i fondi pubblici per la ricerca in viticoltura/enologia siano destinati alla permacultura, all’agricoltura rigenerativa, alla coltura promiscua in policoltura, alla fitosociologia, allo studio dell’intelligenza delle piante, alla vitalità dei suoli, alla gestione delle acque piovane in difesa dell’erosione del suolo, alla cura dei boschi e dei muretti a secco, alla costruzione dei forni in terra cruda, all’architettura ambientale e alle abitazioni umane con materiali naturali di riciclo etc. Altrimenti intesa, cioè come la intende il signor Gaja, la ricerca resta uno specchietto per le allodole, una fonte ormai prosciugata che fornirà i soliti quattro dati preconfezionati e risultati inermi se non irreali, sconnessi. Risultati utili solo al tornaconto d’immagine autocelebrativo di chi foraggia e di chi è foraggiato con l’illusione imprenditoriale delle “stesse condizioni” che sono uguali solo per quei pochi eletti che già ce l’hanno per privilegio di nascita o di reddito, quelle “stesse condizioni” di cui si vaneggia. Gli happy few cioè che se prima andavano a vendere il loro marchio in Cina a spese dell’Europa oggi si dedicano agli “stress climatici” o alla selezione in vitro di “varietà atte a produrre vini DOP ed IGP che possano essere coltivate con zero-bassissimo impiego di fitofarmaci.” Dico io, ma i fitofarmaci a loro tempo quando non rappresentavano un problema, non sono sempre stati sovvenzionati da una ricerca più o meno seria, rigorosa, approssimativa, falsata? L’autore dell’articolo questo lo sa o dissimula di non saperlo?In chiusa, all’improvviso, Gaja si concede anche questa virata acidula tra il sornione snob e il tagliente :
“Ai produttori, che non intenderanno attingervi, resteranno maggiori possibilità di differenziazione dei propri vini”,
che pare suggerire tra le righe, alla sua avvantaggiata community dei dritti, di quelli che sanno, quelli cioè del “grande vino italiano nel mondo”:
<<Noi (plurale maiestatis?) così come prima abbiamo venduto il vino all’estero consolidando il nostro brand attraverso il marketing, adesso facciamo studi e ricerche sempre sovvenzionati dalla Comunità Europea, se poi alcuni scemi tra voi non aderiscono peggio eehm meglio per loro visto che i loro vini saranno differenti dai nostri ovvero saranno “non puliti” e meno ricercati, meno ricercati in tutti i sensi, dei nostri (sempre plurale maiestatis!).>>
Aggiungo in coda una citazione che trovo appropriata da un testo classico di filosofia della scienza cioè La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas S. Kuhn:
<<La scoperta comincia con la presa di coscienza di una anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale; continua poi con una esplorazione, più o meno estesa, dell’area dell’anomalia, e termina solo quando la teoria paradigmatica è stata riadattata, in modo che ciò che appariva anomalo diventi ciò che ci si aspetta.>>