Il migliore dei vini, nel peggiore dei mondi possibili
[Note a margine su Wine Spectator Top 100 e alcuni appunti di degustazione sul Sassicaia 2015 “miglior vino del mondo”.
Dove auspico – ad abuso e consumo di chi legge – un ritorno al vino anarchico, al vino libertario, al vino liberato dalle infernali catene dei premi, delle guide e delle classifiche.]
“Oh, migliore dei mondi possibili, dove sei adesso?”Voltaire, Candido
Antefatto
Persi come siamo nel peggior mondo possibile, ragionando di gusto – gusto estetico, gusto gastronomico, gusto morale – è un mondo sempre più omologato. Pensando poi ai vini globalizzati non abbiamo più possibilità alcuna di distinguere il meglio dal peggio, il falso dall’autentico, il buono dal cattivo, poiché quasi ogni cosa e persona è appiattita su una zona grigia, incontenibile, onnicomprensiva che tende a uniformare tutto e tutti: prodotti, produttori, rivenditori, consumatori.
Non vorrei sembrare troppo irriverente, apocalittico, caustico o altezzoso ma l’argomentazione che Wine Spectator veicoli e assicuri la qualità del vino italiano nel mondo strombettando cosa, come, dove, perché, chi o quale sia il miglior vino al mondo, francamente mi puzza di bla bla bla mediatico oltretutto rivelando un tipico senso d’inferiorità nostrano nei confronti del Fucking Dollar e dell’American Bullshit Dream.
Sarà che “il migliore del mondo… la più bella dell’universo… il primo della classe…” sono classificazioni mentali sottosviluppate, riduzionismi da trogloditi, schemi classificatori infantili che m’hanno sempre fatto cagare al cazzo fin da bambino, figuriamoci da adulto, a maggior ragione se poi è un Magazine yankee di bevande mainstream a base alcolica, a decretare urbi et orbi, il vino numero 1 al mondo.
Populismo e destra estrema spopolano ovunque. A quanto pare tuttavia (vedi le ultime elezioni di Bolsonaro in Brasile) l’era digitale grazie a Internet, catalizzatore prodigioso d’informazione, è di controcanto anche l’era dell’ignoranza abissale, l’età dell’oblio più totale che con sé fermenta odio, ottusità, razzismo, guerre tra poveri, intolleranza, chiusura mentale, imbarbarimento iper-connesso… Mala tempora currunt.
Con questo però non voglio negare la possibilità residuale, come rileva puntualmente il caro amico Fabio Pracchia (Slow Wine), che possa esserci in corso d’opera, nell’impostazione editoriale della onnipervasiva Wine Spectator: “un cambio di prospettiva che una rivista mainstream come quella americana, di una popolarità e un’incisività nel mercato americano senza paragoni, potrebbe finalmente avere raggiunto.“
Certo è pur vero però che una roba come il fitness tra le vigne con il personal wine trainer di turno, così leggevamo alcuni giorni fa su un quotidiano nazionale, è un preciso campanello d’allarme che lascia ben poco sperare sulla trumpizzazione delirante (leggi yankeezzazione) che sta avvenendo non solo nella sfera politica e sociale del mondo ma anche nel comparto vino.
Senza entrare nel merito di quale, chi, perché, dove, come, cosa, trovo sconcertante che malgrado ci ritroviamo in quanto specie umana per costituzione genetica – immeritatamente a quanto pare – un potenziale intellettivo di incredibile complessità creativa che ci ha portato l’Etica di Spinoza, la teoria della Relatività di Einstein, i Quartetti di Beethoven, la Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, la Tavola Periodica di Mendeleev… ecco, nonostante tanta intelligenza luminosa insomma, tanta profondità spirituale, tanto acume filosofico-scientifico, eppure siamo tutti o quasi, qua in balia di un’ottusità cerebrale planetaria, rappresentati da politici imbarazzanti, inondati da classifiche vergognose, dominati dalla più bieca mediocrità, prede inermi di becere bufale e fake news, ridotti a ragionare col culo acefalo invece che con l’intelletto innervato dal giusto spirito (auto)critico.
Sarà che è meno faticoso pensare in termini di “il migliore del mondo” piuttosto che chiedersi in sostanza “cos’è migliore?” Ma perché poi siamo così certi ci sia un mondo? Non ce ne saranno piuttosto innumerevoli di mondi – un mondo per ogni singolo individuo che dica: Io – e potenzialmente ognuno peggiore, migliore o diverso sia da se stesso che dagli altri? O non dovremmo piuttosto preoccuparci di divenire noi migliori rispetto a noi stessi, così che di conseguenza anche il vino, la ristorazione, l’arte, la scienza, la letteratura, la società, la politica, l’economia diventino migliori a loro volta, migliorando noi medesimi e il mondo in cui viviamo, il mondo che siamo?
Svolgimento
In comparazione ad altri stramaturi e sgradevolmente ruffiani Supertuscan, devo comunque ammettere che questo Sassicaia 2015 – sempre contestualizzato per ragioni di bottega nella sua categoria dei vini iper-controllati che non suscitano affatto la mia commozione ed empatia – ha un suo ben congegnato equilibrio di forze interne: acidità balsamica in antitesi con le sovra-estrazioni tipiche della categoria (forse il frutto artatamente un po’ acerbo), sottile filigrana dei tannini in buon equilibrio, affinamenti gestiti con cognizioni di causa, aspetti questi ultimi per nulla scontati. Dunque un vino non proprio concentrato come suol immaginarsi, non troppo tostato, niente affatto denso, speziatone o marmellatoso ovvero furbescamente indulgente al fantomatico gusto internazionale. Un vino abbastanza asciutto e sobrio il giusto – purtroppo a non essere sobrie ahimè ma assai vanagloriose, autoreferenziali, patinate, kitsch, sono state le classifiche dei Top 100 wines di WS, da sempre!
Un vino di strutturata tecnica enologica infine come ce ne sono tanti altri molto ben costruiti eppure meno blasonati sul mercato provenienti da tutte le regioni d’Italia a prezzi sicuramente più accessibili, ma si sa le liste, tanto competitive quanto fatue, hanno bisogno di vincitori imbellettati e finto-chic, a maggior ragione in un mondo del gusto enoico – gusto estetico, gusto gastronomico, gusto etico – un mondo aggressivamente sciatto senz’altro peggiore più che migliore, destinato a quanto sembra, al fallimento dell’estetica, della morale, della viticoltura, della cucina, della civiltà, dell’agricoltura, dell’urbanistica… basterebbe semplicemente guardarsi attorno – guardarsi dentro – con gli occhi “candidi” di Voltaire.
Epilogo
Ritorno a bere la mia bella e buona Ribolla Gialla da macerazioni lunghe; la Vitovska lucente del Carso; il Lambrusco di Sorbara rifermentato in bottiglia; il Barbacarlo; la Barbera del Monferrato; il Grignolino sfuso; il Dolcetto d’Ovada; la Freisa mossa; il Gattinara; il Ciliegiolo maremmano; il Trebbiano Spoletino; lo Zibibbo di Pantelleria da botti scolme; il Marsala pre-British; la Vernaccia d’Oristano; la Malvasia di Bosa; il Gaglioppo degli amici di Cirò; la Malvasia di Candia Aromatica vinificata in rosso e spumantizzata; l’Ansonaco ambrato, succulento e senza tempo, il miglior vino nel microcosmo viticolo all’Isola del Giglio custodito gelosamente in pochi bottiglioni senza etichette nella cava di Scipione a Giglio Castello…
Ritorno cioè a bere quei vini nudi e crudi elegantemente genuini, popolani, anarchici, a misura umana, orgoglio d’un’Italia più sostanziosa, taciturna, libertaria e appartata. Un’Italia che restando alle copertine pacchianotte di Wine Spectator apparirebbe non esserci più, ma che a ben cercare è un’Italia che ancora esiste, persiste e resiste.
Ritorno a tracannare quei vini che non hanno bisogno di essere approvati nella grossolana Disneyland del Global Market per essere freneticamente riconosciuti migliori, pregiati o superiori da una qualche pseudo-autorevole rivista che alla fin fine si riduce a fare da messaggio pubblicitario e da sponsor mercantile per un comparto (tanto l’Ho.Re.Ca che la GDO) ormai sempre più pidocchioso e del tutto insensato oltre che schizofrenico, dissociato tra impatto ambientale, monocoltura selvaggia, insostenibilità economica, export affannoso, dumping, concorrenza sleale, grey market, tentata vendita etc. Un settore angosciante e velleitario quello del vino detto pretenziosamente “di qualità”, che così come è impostato si troverebbe alla canna del gas se non s’arrabattasse puttanescamente a cercare uno sfogo commerciale sui vari marciapiedi d’America e d’Asia… finché dura.
Ritorno quindi coscienziosamente a bere il vino solitario, al di là di ogni etichetta titolata. Il vino lontano dai riflettori della frivolezza. Il vino che possa eventualmente migliorare la mia parziale visione del mondo, di modo che con essa anche io possa in qualche modo riuscire, chissà, a migliorare un po’ assieme ad alcuni altri e in sintonia a una qualche altra parte del mondo in cui sono, del mondo che sono.