Qualche considerazione sui difetti del vino bevendo un Riesling ossidato di Pierre Frick
Riesling Rot Murlè 2011 di Pierre Frick aperto già da qualche giorno. Pure da ossidato questo vino dal vigneto di Krottenfues-Rouffach non cede a banali considerazioni sulla fragilità degli imbottigliamenti senza solforosa aggiunta né filtrazioni o altri stabilizzanti invasivi. È molto didattico bere un vino così, ossidato eppure ancora teso ed energico, con una sua vibrazione minerale all’assaggio e tutta una sua integrità che travalica facili ma anche tendenziosi incasellamenti scolastici: difetto/irregolarità/imperfezione. È utile soprattutto per comprendere al palato la struggente fusione di ossigeno e fermentazione spontanea. Cioè una bevuta così aiuta ad afferrare con i sensi e l’intelligenza sempre all’erta che oggi non è più una questione di perseguire la perfezione assoluta verso cui l’enologia moderna ha esasperato la ricerca svendendo la propria anima al diavolo della tecno-farmaceutica. È piuttosto il fatto concreto di non cedere alla chimera del “vino rifinito” per le masse e all’ossessione del vino depurato a tutti i costi col rischio di renderlo sterile a furia di chiarifiche impattanti, processi meccanici edulcoranti e trattamenti enologici. L’ossigeno è la bestia nera dell’enologia fin da sempre, ma quando entra nella visione di chi fa il vino come elemento essenziale che definisce la multidimensionalità di un vino, non è più un difetto incondizionato così come lo ostracizza la casta degli enologi universitari, ma può divenire anzi fattore essenziale che costituisce la complessità, la stratificazione, la profondità di un vino.
Già vi vedo eh, migliaia di sommerdièr gongolanti, degustatori scorreggioni coi papillon cuciti di finta seta, le bocche strette a culo di topo, strombettanti: “Ah ah ah ma lo senti ‘sto scemo bevitore d’aceto? Cose da pazzi, sta dicendo che l’ossidazione non è un difetto ma una virtù!”
È chiaro che non sto affermando nella maniera più assoluta che l’ossidazione in sé sia da prediligere all’integrità. Tantomeno sto esortando ai “difetti” a rimpiazzo della pulizia. Stavo semplicemente considerando a ragion veduta che per il mondo dei bevitori consapevoli, avere produttori scrupolosi come Pierre Frick può rappresentare un esempio virtuoso di rigore artigianale. Produttori cioè invasi da una grande cognizione di causa che elaborano vinificazioni meticolose pur essendo non interventiste né processate al massimo come ahimè la gran parte delle produzioni standard le quali annullano qualsiasi sbavatura o irregolarità necessaria a donare al vino bellezza e singolarità. Dico insomma che l’ossessione antisettica della tecno-enologia moderna ha reso il vino un prodotto piatto e asettico, normalizzato così da far bella mostra di sé sugli scaffali o nelle carte dei vini del pianeta: etichette di pregio, contenitori di lusso ad alto contenuto di monotonia e piattume. Un prodotto perfettamente disinfettato dunque privo di umanità e mistero cioè soppresso di deviazioni, infrazioni alla regola, incrinature le quali invece – come la volatile – se armonizzate alla sostanza finita originata dall’uva e alla visione d’insieme del vignaiolo non possono che essere un valore aggiunto impagabile proteso all’arricchimento gustativo, alla singolarità indomabile del vino, di chi lo fa, di chi lo vende, di chi lo beve.