Commenti disabilitati su “Gravner a Oslavia: Incredulità e Stupore” di Bruno Frisini
“Il vino è il pensiero di chi lo fa.” Josko Gravner
Molto felice di presentare in questo angolo dei Generi Elementari, un ragguaglio di viaggio per vigne condiviso insieme ai compagni d’avventure eno-gastronomiche più affini nei ragionamenti esistenziali, più prossimi nei sentimenti connaturati alla visione vinocentrica del mondo.
L’amico e compaesano Bruno Frisini (il Pozzo dell’Artista), qui, nel pezzo che segue, ha stilato un resoconto compartecipe articolandolo d’immagini e parole che riassumono l’emozione – difficilmente riassumibile – di una intensa giornata vissuta in campagna, in cantina e in casa assieme a Josko Gravner.
La mente profondamente architettonica di Josko, per quel poco che m’è dato d’intuire, progetta vigneti e vini. Costruisce habitat. Edifica ecosistemi viventi. Impianta viti con le radici nel passato più ancestrale ma i grappoli luminosamente proiettati nel futuro lontanissimo, così come un urbanista utopico può essere tanto scrupoloso nel ridisegnare gli spazi di una città situazionista a partire da zero, pianificando ogni dettaglio allo scopo di far funzionare al meglio della civiltà i volumi abitativi, i viali alberati, i parchi verdi, i percorsi ciclabili al buon uso dei cittadini che saranno per questo migliori nello spazio e sempre più – si spera – migliorabili nel tempo.
La sensazione è di quelle che ti spingono a rimandare, a cercare con te stesso una scusa, un compromesso per non trovarti a fare i conti con qualcosa che già sai essere infinitamente più grande di te. Pensi una parola e immediatamente ti accorgi che potrebbe essercene un’altra decisamente migliore per trasmettere l’emozione che in quei momenti correva lungo la tua schiena e ti permetteva di camminare a un metro da terra, sospeso in una dimensione ultraterrena, in balia di incredulità e stupore.
Il ricordo della giornata è nitido e al tempo sfumato, quasi come se il tempo, non scandito in modo canonico, avesse avvolto quei gesti e quelle parole, rendendoli un tutt’uno inscindibile che rimbalza da una parte all’altra della mia mente in cerca di una collocazione quanto più razionale possibile.
Poggiati corpo e anima per la prima volta su quella terra vengo da subito assalito dalla percezione che calpestandola non sarei mai più riuscito a togliermela da sotto i piedi. Ti si attacca e non ti molla, stringe le tue gambe come fossero radici, la polvere si solleva insieme alle parole che, con il vento a sostenerle, restano nell’aria a danzare e volteggiare davanti i tuoi occhi.Tuttavia la coscienza sa bene che, seppur tremendamente impattante, si tratta di uno sfondo, di una scenografia naturale che va a incorniciare il canovaccio di un’opera che non ha una trama preordinata, ma solo un immenso protagonista.
Josko Gravner: un’etichetta che con il tempo è divenuta vino, poi un’ombra in lontananza e infine sorriso e mani, grandi, grandissime mani che stringono le mie. Sporche di terra e impregnate di vita, tanto basta a rassicurarmi.
Da quell’attimo più nulla è stato come prima. Il giusto preludio di una giornata che ha trasformato in incendio una scintilla.Nemmeno il tempo di focalizzare quanto stesse accadendo, vengo invitato a salire in auto assieme ai miei compagni di avventure. Disorientato accetto l’invito senza domandare quale fosse la meta. La mia d’altronde era proprio lì davanti e non si trattava di un luogo ma di una mente.
Su di un fuoristrada con Josko e Pepi (suo fido amico a quattro zampe) ci dirigiamo verso il “nuovo” sito che da lì a poco sarebbe stato impiantato. Un sito al quale ha cominciato a lavorare dal 1999 dopo averlo riunito, acquistando tante piccole parcelle da contadini locali. Un terreno unico, tipico di Oslavia, prima ancora che del Collio, ricco di marne arenarie di origine eocenica, la cosiddetta “ponca”, frutto di stratificazioni millenarie ricche di sali e microelementi, impronta inconfondibile di vini che inevitabilmente richiamano al più profondo degli istinti primordiali insito in ognuno di noi.
Le prime viti sono state piantate solamente nel 2010, le nuove, nonostante il terreno sia tecnicamente pronto da oltre due anni, ancora sono in attesa che la terra “sia migliore grazie al sovescio”. Questo a dimostrazione di quanto siano fondamentali i tempi nella mente di un visionario in cui il profitto non trova spazio e l’autenticità rappresenta il tutto.
Provo a far mia ogni singola parola, ogni concetto, ogni dettaglio: l’irrigazione come tecnica fuori natura, male assoluto della viticoltura, dannosa e necessaria per chi sceglie terreni non adatti alla coltura della vite. L’acqua tuttavia è elemento indispensabile per garantire un ciclo di vita e quindi una comunità attorno al vigneto, ecco il perché della presenza ai margini di piccoli stagni e pozze d’acqua; la filtrazione e i lieviti selezionati, letali assassini del vino; l’acciaio inossidabile che con le cariche elettriche positive e negative irrita il liquido in esso contenuto. Informazioni che farebbero rabbrividire qualunque scuola enologica ma che in me non fanno altro che accrescere una sconfinata curiosità.
Passeggiando e “ruzzolando” lungo le ripidissime pendenze dei futuri terrazzamenti, vengo sospinto e accompagnato da un continuo e incessante sospiro: il soffio del vento di nord est che instancabile asciuga i vigneti dall’umidità atmosferica. Fattore questo fondamentale, assieme al clima mite dell’Alto Adriatico, per la sana maturazione delle uve.Josko mostra orgoglioso la sua maestosa creatura, prova a prestarci il suo sguardo per qualche minuto ed è in quel momento che sempre più intensamente i miei occhi cominciano a vedere non più la materia ma lo scorrere del tempo. È un crescendo di emozioni che trova il proprio apice nell’istante in cui il numero 7 (da sempre fattore capace di influenzare la mia vita) mi viene presentato come entità rigenerativa, testimone in chiaro scuro dello svolgersi della fragile esistenza umana.
Allontanandoci passo dopo passo provo a ristabilire un contatto più razionale… Non c’è modo migliore che salire in auto con Pepi tutto bagnato!
Arrivati a casa, visitata la cantina e pronto il pranzo, cominciano a sfilare sotto il mio naso i capolavori assoluti di Josko Gravner, il fine ultimo di ogni suo gesto:
Non starò qui a descriverli tediosamente e non parlerò di anfore né di macerazioni perché vi renderete conto che rileggendo queste poche righe probabilmente vi sembrerà già di conoscerli.
Il vino è la naturale estensione del vignaiolo.
Parlando di lui, parlerete di vino. “Il vino lo faccio per me, il di più lo vendo”, parole sacrosante di Josko Gravner.
Le bottiglie in degustazione erano 14 (una in formato magnum) di variegate annate ed etichette acquistate in blocco ad un’asta Bolaffi, l’approccio degustativo poteva quindi essere indirizzato in svariati modi ma noi assieme a Mateja abbiamo deciso di dargli questo taglio interpretativo che prevede di cominciare dal Breg, uvaggio meno imponente della Ribolla, con l’intermezzo dei bianchi fine ’80 inizi ’90. Le bottiglie sono state dunque assaggiate in tre singole batterie ognuna delle quali era così composta, dove l’ordine numerato corrisponde simmetricamente all’ordine d’assaggio:
A supporto integrativo della degustazione, che nella maggior parte dei casi è attività sempre piuttosto passiva e ridotta al senso unico sacerdotale da chi le conduce con boria monocorde accademica e serietà bacchettona escludendo al dialogo, alla compartecipazione e alla semplice libertà di “sbagliare”, voglio qui aggiungere – e mi piacerebbe fosse sempre più un modello sperimentale da approfondire in futuro come format educativo alla comunicazione del vino -, il punto di vista dell’amico Elia Zocco che era proprio seduto al banco di prova tra altri amici sulla tavolata dei degustatori proattivi nonché tutti spettatori partecipi inclini al civile scambio d’opinioni, curiosità, critiche, elogi.
Dagli appunti d’Elia:
Per Josko le fermentazioni devono avvenire a temperatura non controllata, da qui la scelta della anfore, in fase di macerazione e prima vinificazione. Le anfore sono georgiane, ricoperte da uno strato ci 3/4 cm di sabbia e calce, smaltate all’interno da uno strato di cera d’api. Lo scambio d’ossigeno che qui avviene è fondamentale, ma cosa ancora più importante è portare in cantina delle uve sane. Dopo il primo passaggio nelle anfore, che sono interrate nel terreno vivo della cantina, il vino completa il suo percorso d’affinamento nelle botti grandi.
I vini Breg, sono composti da un uvaggio di: Sauvignon, Chardonnay, Pinot Bianco, Riesling Italico, quest’ultimo nonostante sia contenuto solo in minima parte, il 4/5 %, è tuttavia il vitigno che cede la maggiore impronta al vino. 1. Breg 2007, primo vino uscito dopo 7 anni tra anfora e botte; ancora molto appariscente, vivissimo, nonostante sentori di frutta sciroppata, all’olfatto può ricordare grandi cognac. 2. Breg 2002 (magnum), è la seconda annata dopo il passaggio in anfora, vino molto armonico ed equilibrato, vivissimo, nonostante i 13 anni, profumi freschi ben integrati da evidenti sentori ossidativi. 3. Breg 2001 primo anno con passaggio in anfora, più spento rispetto al 2002, meno equilibrato, ma nonostante ciò sa regalare emozioni forti; pesca sciroppata, forse ha già dato il meglio di sé? Fase discendente? 4. Breg 2000, ultima annata pre anfora, 12 i giorni di macerazione. 5. Bianco 1990 nessun appunto sorry. 6. Breg 1989 Vino completamene diverso, nessuna macerazione, rimane un grande vino, bella sapidità. 7/8. Chardonnay 1991-90, vini parecchio differenti tra loro, il primo è un grandissimo bianco, fresco, sapido, di bella beva, all’olfatto perfettamente limpido, mentre il secondo è più ossidato al naso e dal colore più opaco, anche se in bocca poi si rivela tutta un’altra contrastante storia, davvero di piacevolezza sorprendente. 9. Sauvignon 89, tappo… peccato!
Passiamo alla Ribolla. Nel 2012 è stata effettuata l’ultima vendemmia dei vitigni internazionale che sono stati espiantati a favore degli autoctoni Ribolla e Pignolo. L’idea di Josko è quella di puntare su due vini, pochi ma buoni, anche se il Breg uscirà fino al 2019 a ragione dei 7 anni d’affinamento previsti. La Ribolla è un’uva dalle grandi rese, ma per farne un buon vino bisogna abbassarla e ridurne la produzione; è facilmente attaccabile dalla botrite. 10. Ribolla Gialla Anfora 2007, vino ancora molto giovane e pimpante, può e deve dire ancora molto. 11. Ribolla Anfora 2001, prima annata in anfora, imbottigliato nel 2005: affascinante, superbo, maturo. 12. Ribolla 1997, prima annata con macerazione, 4 giorni sulle bucce, vino molto diverso dai precedenti, maggiore acidità, più persistenza, grande complessità di strutttura. 13. Ribolla Gialla Oslavje 1988, clamoroso, stupisce la sua vivacità vibrante, nonostante i 27 anni suonati.
14. Breg Rosso 2004, da uve pignolo, l’avessi assaggiato alla cieca l’avrei detto un bianco per l’acuta acidità e la gioiosa freschezza, vaghi ricordi di un Terrano del Carso; tannino setoso e ben integrato al frutto, ancora un bambino, grande bella scoperta!
Grappa Ribolla capovilla. Le vinacce della Ribolla un tempo erano destinate ad un’altra distilleria, ma venivano considerate di poco valore, fin quando non avviene l’incontro ai vertici con il maestro distillatore Gianni Capovilla che trovandole meravogliose inizia una produzione di grappa dalle vinacce di Josko.
Questo invece il menù delle vivande previsto per la serata da Carlo Sichel e i suoi collaboratori:
Cocktail di gamberi, frozen di lattuga e maionese di pesce
Ravioli di baccalà e baccalà in crema con bottarga di muggine
Pappardelle cioccolattate al ragù di coniglio
Stracotto di maiale nero, prugne, patate e mele dell’Etna
32 ettari tra boschi, alberi da frutto, colline e 15 ettari di vigneto a coltivazione biologica non certificata, tanto sappiamo quanto possano essere attendibili le certificazioni.
[Che questa ultima frase fosse un po’ troppo grossolana e tagliata con l’accetta, facilmente equivocabile nella sua ambiguità avrei dovuto arrivarci da me prima di renderla di pubblico dominio con troppa leggerezza ed integrarla magari con altri ragionamenti a motivare questo (pre)giudizio tranchant assai generico per la verità che suona fastidiosamente qualunquistico soprattutto se decontestualizzato. Ma tant’è lo scopo che mi son proposto con il mio blog e con questo format di degustazione nello specifico è quello della libertà di “sbagliare”, dell’integrazione d’altri pareri oltre al mio tono di voce monocorde, un lavoro in fieri, un buon intento di far polifonia e non canti e sonate a voce sola tra me e me. Per cui sono strafelice dell’appunto che mi è stato mosso dall’amico Pierpaolo Messina il quale produce vini che sempre più identificano la sua personalità schietta, viva passione, fame di conoscenza (o sete visto che parliamo di vino) nell’omonima Società Agricola Marabino nella DOC Eloro-Noto. Pierpaolo era trai partecipanti la medesima sera di questa degustazione quindi mi ha chiesto civilmente chiarimenti legittimi e delucidazioni in merito dopo aver letto la mia spiccia frase di cui sopra. Riporto e sottoscrivo in pieno quanto da lui detto così in accordo al suo medesimo gesto di grande decorum aggiungo qui a beneficio del lettore, il ponderato punto di vista di Pierpaolo]:
Da produttore certificato Biologico, per quello che io possa dirti della mia esperienza, questa tua affermazione non la condivido affatto. Come ben sai noi siamo certificati e quindi mi hai chiamato in causa indirettamente. Ogni mese e mezzo riceviamo controlli da diversi organi oltre al certificatore: ASP, repressione frodi, IRVOS, NAS ecc. Controlli non solo burocratici, ma con analisi a campione di suoli, materiale vegetale e vino anche in vendemmia. Oggi chi si propone come produttore Naturale e quindi quantomeno biologico in vigna come in cantina e non si certifica in “bottiglia”, per quello che riguarda la mia esperienza è solo un soggetto che non vuole essere controllato e non vuole essere trasparente col consumatore. Sicuramente le grandi aziende troveranno l’escamotage per superare certi controlli, o magari siamo solo noi sotto mira. Ritengo che la certificazione non sia un male, ma un valore aggiunto che informa anche il consumatore più sensibile ad un’etica produttiva più sana e rispettosa della natura. Spero tu capisca il mio dissenso sulla tua affermazione, ti ho scritto privatamente perché non voglio far polemica ma solo per chiarire il mio punto di vista!
Un Eden della micro-biodiversità, a preservare la fauna locale, casette per gl’uccelli, gli stagni artificiali un vero e proprio ecosistema autosufficiente tanto da ridurre al minimo gli interventi dell’uomo, uso di zolfo in quantità ridotte per proteggere la salute delle viti dall’attacco di malattie.
Josko Gravner è un perenne “cercatore di verità” come l’avrebbe definito Georges Ivanovitch Gurdjieff alla continua ricerca di se stesso attraverso il modo di trattare la vigna, coltivare la terra, vinificare e macerare le uve, affinare il vino. Uno spirito inquieto che lo porta negl’anni alla confutazione empirica dei metodi convenzionali e delle omologate tecniche da scuole d’enologia che presuppongono lieviti e aromi selezionati, chiarifiche e filtrazioni impattanti con tutto il classico protocollo da piccolo o grande chimico-enologo uniformato come da prassi e che impongono al mercato vini sempre più sterilizzati, vini-sciroppo farmaceuticamente costruiti a tavolino, vini funerei. Il vino invece, a questo giungerà Josko nel suo fulgido itinerario d’opere e giorni, è materia vivente, succo organico, sostanza viva carica d’enzimi, microbi e batteri (plausibilmente benigni), lieviti propri alla buccia d’uva e necessari all’armonia cosmica dell’insieme che se setacciati da pozioni magiche, formulerete enologiche di sintesi e filtri industriali risulterebbe essere come il tentativo diabolico d’estrarre il pensiero da un cervello privandolo della sua calotta cranica d’appartenenza e quindi del corpo intero che anima, dà voce e forza a quel pensiero, dunque sarebbe come produrre e bere un vino sdoppiato, innaturale, senz’anima.
“Chi non sa bere non sa nulla.” Boileau.
[Quanto segue è stata la mia cornice introduttiva alla serata entro la quale Mateja ha poi dipinto il quadro familiare dei vini e del mondo di suo papà.]
Sono sempre un po’ sospettoso della parola-parlata, da lettore ossesso e da bibliofilo amo più quella scritta che percepisco meno frivola o improvvisata, più meditata, salda, meno teatrale, dal respiro amplio, circospetto, non affannato.
Tentando di essere quanto meno tedioso possibile con questo mio tentativo di squarcio del velo, vorrei provare a lanciare una serie di spunti di riflessione generali, spuntando cioè degl’argomenti nel particolare su cui meditare prima durante e dopo l’assaggio in verticale coi calici dovutamente alla mano all’occhio al naso alla bocca al cuore al cervello all’anima fate un po’ voi… senza intricarci però troppo in complicate o fanatiche faccende d’animismo, di religione più o meno rivelata, di filosofia o scienza chiara et occulta che sia, tanto credo di non sbagliarmi nel presumere che siamo tutti più che d’accordo con Veronelli quando su Bere Giusto sottolineava come:
“La scienza ha conquistato lo spazio e non ancora il ‘meccanismo’ delle infinite metamorfosi del vino, vi è qualcosa che sfugge, che si sottrae ad ogni analisi, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima…” e continuava ricordandoci che:
“(…) un vino lo si guarda lo si respira lo si gusta infine se ne parla..” ed io, molto umilmente, aggiungerei a ciò che se poi pure il vino è in sintonia con noi e non solo noi con lui – siamo cioè nei suoi riguardi atti a berlo, ben disposti, affinati il giusto, rispettosi, ben mantenuti, maturati per bene -, ecco che sarà anche egli di conseguenza a conversare con noi incarnandosi nella bilanciata atmosfera conviviale, nel buonumore psichico ed emotivo adeguati, atmosfera tuttavia sigillata da quella che mi pare essere – per amor di giustizia – un’eterna ed amara verità come siglava un frammento antichissimo attribuito ad Antimedonte che così declama:
Di sera siamo uomini quando beviamo. Ma quando arriva l’alba, ci risvegliamo bestie pronte a sbranarci tra di noi
epigramma se vogliamo, più incline al malumore, al verismo e alla tristezza che ben si sposa con il detto proverbiale che vuole: “l’amicizia stretta trai calici è fragile come il vetro” ovvero, ancora la saggezza popolare: “Amicizia fatta dal vino non dura dalla sera al mattino”.
Provo quindi a tracciare una cornice nella quale poi Mateja dipingerà il quadro familiare dei vini e del microcosmo di Josko.
Innanzitutto v’inviterei a visualizzare con occhio vigile la situazione di questa serata ad esempio: abbiamo questi vini di Gravner fatti nel Collio in Oslavia all’estremo confine nord-orientale d’Italia, mentre siamo qui a Catania nella quasi estremità mediorientale della penisola dove immagino sarete tutti bene o male di zona o comunque siciliani e state ascoltando ‘sto barbone dalle sembianze talebano/turcomanne che sarei io proveniente – guarda un po’? – proprio della terra di mezzo, originario cioè di un paesino dell’Italia centrale ai confini tra Lazio e Campania.
Ora, distacchiamoci per un attimo con la mente dalla semplice degustazione tecnica o dalla cena epicureo-godereccia solita come ne avrete già fatte tante come tante se ne fanno e se ne continueranno a fare, ma pensateci bene per pochi minuti, non è già questa un’elementare ma concreta, forse efficace azione quasi geografico-politica quella che stiamo mettendo in atto stasera? Cioè un mettere assieme quest’incontro di poli territoriali ed umani opposti attraverso il centro, promuovendo, – complice l’elemento fluido del piacere e dell’ebrezza cioè il vino la bevanda fermentata di Gravner, con il cibo trasformato da Carlo, – una fusione magica tra paesaggio (lo Spazio fisico ed interiore) con un tentativo di raccontarlo attraverso la gente la fatica e il vino (ovvero il Tempo delle stagioni e dell’uomo).
Ci pensate che potremmo essere quasi dei bambini anche se adulti e con accesso alle bevande alcoliche, ben disposti entusiasticamente attorno alla tavola cosmica imbastita dai sani principi pedagogici (almeno sulla carta) della Montessori? Da Ho Fame: il Cibo Cosmico di Maria Montessori:
“Prendiamo il cibo, tutto il cibo e apparecchiamo per i bambini una tavola cosmica: mettiamo in contatto gli alimenti con l’universo conosciuto, colleghiamo le pietanze con la loro storia, la loro geografia la loro economia, la loro chimica. il loro valore nutrizionale, il loro significato simbolico o religioso.” (…) “L’educazione cosmica offre al bambino una chiave per leggere l’universo dove tutto è un concatenamento: lo invita ad uscire a spalancare la porta delle aule per cogliere i particolari di ciò che lo circonda e fa sì che scopra che tutto ha un legame e che egli steso fa parte di un grande sistema di relazioni e connessioni.”
Ora non trovate che siamo tutti simbolicamente un po’ bambini anche se cresciuti in fretta in questo “grande sistema di relazioni e connessioni” appunto, davanti alla misteriosa e gigantesca complessità dell’universo?
“Oggi più che mai viviamo in un mondo dove i sapori sono condizionati dai saperi” puntualizzava a ragione Ezio Santin nella premessa a un libretto prezioso di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini, Argìa Sbolenfi etc.): La Tavola e la Cucina nei secoli XIV e XVI e credo volesse intendere che l’attività di un artigiano – della cucina della vigna o di altro ambito – non può più permettersi di fare quel che fa ignorando tutta una complessa rete di esperienze, tecniche, conoscenze e saperi strettamente collegati alla sua attività principale anzi necessari al giusto svolgimento del suo lavoro se è un cuoco che ha ad es. a che fare con materie prime, fornitori, prodotti della natura etc . Ma il discorso può tranquillamente estendersi a tutte le altre arti e mestieri, soprattutto alle fatiche nobili del vignaiolo.
A proposito di queste coordinate spazio-temporali, mi piacerebbe leggervi un breve passo da Il Tempo in Una Bottiglia pubblicato da (Codice Edizioni), scritto a più mani Rob De Salle e Ian Tattersall, un biologo molecolare e un antropologo appassionati entrambi di vino che tentano – rivolgendosi innanzitutto al loro non necessariamente sofisticato pubblico americano – una spiegazione scientifica del vino, dalla terra alla tavola, senza trascurare il lato umano, facendo più chiarezza sul concetto astratto di terroir nella nostra epoca post-industriale e di (troppo?) raffinati strumenti d’analisi chimica, controllo farmaceutico e condizionamenti climatici indotti. Dunque riferendosi alla globalizzazione del vino con l’esempio di una celebre degustazione parigina del 1976 (the Judgement of Paris) in cui i vini della Napa Valley sia rossi che bianchi – degustati alla cicca – quasi non si distinguevano da quelli francesi anzi ne superavano la “bontà” per emulazione tecnologica e sforzi di internazionalizzazione e standardizzazione del gusto, così continuano i nostri autori:
“Ci sono comunque ‘cani sciolti’ che vanno in controtendenza. Josko Gravner produce, tra il Friuli e la Slovenia, i suoi vini – che godono di eccellente reputazione – in enormi anfore di argilla seppellite nel terreno come si faceva nei tempi antichi. Il suo vicino Stanko Radikon, che usa le stesse attrezzature e procedure di suo nonno, lascia macerare i suoi bianchi per molti mesi in enormi tini tronco-conici in rovere. Tutto questo accade nella sola città di Gorizia. Sono persone come Gravner e Radikon, nelle regioni viticole di tutto il mondo, a produrre oggi vini davvero degni di nota, sebbene non sempre si tratti di vini che incontrano il gusto di tutti o che neanche i loro sostenitori più accesi vorrebbero bere ad ogni pasto. (…) le loro ‘opere’ hanno dimostrato che la perfezione tecnica nella produzione vinicola permette al terroir di esprimersi al meglio.”
Noi questa sera berremo i vini di Gravner dai classici calici a stelo, ma è giocoforza qui ricordare che da una sua idea Josko ha fatto creare a Massimo Lunardon delle coppe o vasi in vetro che riportano il vino in una prospettiva più antropologica, nella quale si torna a riassaggiare la bevanda in un recipiente essenziale che riassembla la forma austera di due mani congiunte ricordandoci così il gesto millenario quanto l’origine dell’uomo, del bere con le mani “a coppa”. È lo stesso Gravner a parlarne con emozione quasi mistica:
“L’idea di creare un bicchiere a forma di coppa, mi è venuta per la prima volta nel 2000 quando andai nel Caucaso. Durante quel viaggio, organizzato per vedere le anfore che stavano realizzando per la mia cantina, visitai un monastero sulle colline di Tbilisi. In quella occasione i monaci, oltre a darmi il benvenuto con dei canti religiosi, mi servirono il loro Vino nelle coppe di terracotta. Quel gesto mi rimase impresso, bere del Vino in una coppa senza stelo è molto diverso che da un bicchiere, non vorrei essere frainteso, ma il gesto che la coppa ti impone verso il Vino è più intimo più rispettoso… più umile”.
Ecco in quel “non vorrei essere frainteso” c’è già tutto Josko Gravner nella sua umiltà di produttore e discrezione d’uomo d’altri spazi-tempi.
E ancora in tema di calici e vasi da mescita, finisco allora con un antichissimo richiamo al bestiale Dio della natura attribuito ad Apollonio di Smirne; a pronunciare l’epigramma è proprio il Dio Pan legato al mondo pastorale che preferisce bere mosto in una semplice coppa:
Sono il dio della gente di campagna: perché libate
a me con tazze d’oro? perché versate
vino puro d’Italia? perché legate a questa pietra tori
dai muscoli rotondi? Risparmiatevi
tutta questa fatica: a me non piacciono
simili sacrifici. Sono Pan,
il montanaro, scolpito dentro al tronco
d’un solo albero: mi piacciono i banchetti
dove si mangia carne di montone,
e bevo mosto in una coppa semplice.
Aggiungo il videoclip della serata girato con particolare acume cinefilo e montato con efficace sagacia dalle bravissime Angela e Sara di Inneres Auge. Chi legge da pc può con tranquillità guardarsi il video da youtube direttamente qua sotto, chi legge invece con ipad, iphone ed altro dispositivo mobile può cliccare al seguente link sulla pagina di Bevitori Indipendenti.