Era il 19 febbraio scorso, sono quindi passati 8 mesi, che ci ritrovavamo alla Rimessa Roscioli assieme a Lidia Carbonetti di Rocco di Carpeneto ad Ovada & Bruna Carussin dell’omonima azienda agricola e fattoria didattica a San Marzano Oliveto nel Monferrato astigiano.
Alla vigilia di Ladri di Vino che martedì 9 ottobre cioè domani, vedrà interfacciarsi tra loro e il pubblico presente altre due produttrici luminose ovvero vignaiole illuminanti quali sono Elena Pantaloni (La Stoppa) ed Elisabetta Foradori (Foradori), ho qui di seguito il grande piacere di ospitare la cronaca dal vivo di quella serata magica riportata con la solita suggestiva sensibilità, curiosità culturale ed afflato romantico dall’amico fraterno Bruno Frisini, così tanto per ricreare con le parole e qualche immagine l’atmosfera magica d’energia positiva e fusione intellettuale tra vino, produttori e consumatori compartecipi a queste serate Ladri ovvero Ladre di Vino, ideate/costruite/imbastite con la complicità essenziale (non ho detto esiziale) di Fabio Rizzari & Accademia degli Alterati.
gae
La porta si chiude alle mie spalle, una sensazione di assoluta completezza comincia a farsi largo.
Rimessa Roscioli assume sempre più le sembianze di una mecca per chiunque professi la fede dell’autenticità.
Una premessa doverosa, stravolgimento dell’ordine temporale del racconto che appare necessario se si vuol rendere da subito l’idea di come l’esperienza di una sera sia riuscita ad imprimere un irrefrenabile bisogno di immediata condivisione con chi, ahimè, non era presente.
Ladri di vino nasce da un’idea di Fabio Rizzari & Gas Saccoccio, ispirata a Ladri di Cinema, mostra-iniziativa-rassegna-evento del comune di Roma, risalente al 1981, in cui si alternavano registi che, proponendo un loro film, spiegavano a margine quale altro regista fosse stato per la loro formazione un punto di riferimento da cui attingere quindi “derubare”.
Detto questo, va da sé che i vini prendano il posto delle pellicole e i produttori-agricoltori quello dei registi, nonostante si possa comunque ben dire che i vini altro non sono che film in cui la fitta trama viene orchestrata dal produttore-regista.
Si delinea immediatamente quella che sarà la strada percorsa. Non c’è spazio per futili tecnicismi che sembrano, dal primo istante, stonare con la perfetta intonazione di quel coro di voci umane impersonato da Bruna Ferro e Lidia Carbonetti, ospiti della serata, rappresentanti rispettivamente Carussin e Rocco di Carpeneto.
Interpreti di un territorio, veicolo e vettore attraverso il quale Astigiano, Ovadese e Monferrato camminano per il mondo, queste realtà arrivano a Roma con un bagaglio, tanto sensazionale quanto romantico, di esperienze da rivelare.
Generose, come la Barbera secondo Carducci (anch’egli la declinò al femminile), iniziano a svelare tutte le creature che da lì a poco sarebbero state accolte dalla pancia dei calici.
Barbera d’Asti, Barbera del Monferrato Superiore, Dolcetto di Ovada, poi ancora tutti i “rubati” tra cui miti assoluti come il Dolcetto “Le Olive” di Pino Ratto e il Barolo 2010 (rarissima dedica alla sorella scomparsa) del Cav. Lorenzo Accomasso.
Fatte le dovute presentazioni, si entra nel vivo toccando con mano quanta saggezza possa essere racchiusa in chi vive la terra genuinamente (“i sofi contadini”*).
I miei pensieri cominciano a vacillare in preda a visioni e parallelismi. Bevo e ascolto. Il tempo scorre, ho l’impressione che entrambe le cose diventino sempre di più un tutt’uno inscindibile.
Rifletto, predispongo i sensi all’assaggio.
Custodi di un sapere antico, di un’esperienza rustica, unico, immutabile baricentro delle loro esistenze. Coscienza e memoria storica, come lo erano le donne all’interno degli antichi nuclei contadini e pastorali. Dinnanzi ai miei occhi appaiono le naturali prosecutrici di coloro che venivano elette (secondo superstizione), con mani che non potevano essere immonde, come uniche manipolatrici di latte e formaggio
(…) cosa tenera bisognosa di cure e calde attenzioni, creatura uscita da mani di donna, quasi un’altra forma di parto […] Il “cascio” neonato doveva esser custodito, mentre si rassodava e maturava.*
Un’operosità, una destrezza, una sensibilità da sempre legata ai saperi delle donne. Impressionante il parallelismo con le:
(…) vicende che accompagnano la vita-morte del vino che nella putredine dell’uva calpestata, ridotta a mosto fermentante, scende nella tomba-cantina chiuso in una bara di legno, apparentemente estinto ma in realtà solo dolcemente assopito, assorto in un lungo, indecifrabile dialogo col sole, in contatto col tempo, le stagioni, i venti, i pianeti. Nelle tenebre del cellarium il vino continua a vivere una seconda vita cosmica, in un inafferrabile rapporto-comunicazione col globo luminoso, col “grand’occhio del ciel.*
Sangue coagulato cotto due volte il formaggio, sangue della terra e sugo della vita* il vino.
Le mie elucubrazioni vengono alimentate dallo svolgersi della serata, trovano nutrimento in coloro che desiderano raccontare se stesse affinché ci sia dato comprendere i loro vini.
Si parla di antichi ritmi lavorativi. Per il contadino (che è spesso contadino-pastore) conoscere, capire, prevedere significa sopravvivere. Tutto viene ricondotto al linguaggio dell’esperienza, talvolta pericolosa, di chi di terra impastato* scruta l’orizzonte, osservando il cielo, i venti, i rumori* della terra e i segnali offerti dagli animali. Una semiotica mantica*, in cui sono individuabili i segni dell’abbondanza* e i segni della carestia*, una cultura del prevedere, della precognizione, la praecognitio temporum*. Un sistema che coinvolge tutti i sensi: il naso vigile alle alterazioni degli odori; l’occhio attento a captare i segnali provenienti dalle direzioni più disparate; l’orecchio teso all’ascolto di insolite modulazioni. Un
(…) sapere frenato, non accelerato. La sua circolarità, la sostanziale omogeneità delle sue esperienze sono tutte riconducibili allo spazio del vissuto e del praticato nella casa e nel campo. La sua stessa trasmissione è domestica e genealogica […] (riproducente) paradigmi di lunga durata tendenti a riprodursi e a prolungarsi indefinitamente.*
Sento come d’essere avvolto da un inspiegabile torpore in una sfera che muove verso qualcosa di assoluto e definitivo. Da un vino all’altro, tra racconti e suggestione tutto sembra fermarsi di colpo quando Bruna Ferro mi ricorda indirettamente quanto la vita sia incredibilmente capace di auto-programmarsi*. Avevo pochi giorni addietro ascoltato in radio una dissertazione di Stefano Mancuso (botanico) sull’intelligenza inclusiva di piante e organismi vegetali, nell’ambito di un progetto denominato La Frontiera. Ora, il tutto veniva nuovamente riproposto alla mia attenzione partendo proprio dal fenomeno del cambiamento climatico e della desertificazione (non intesa come aumento della superficie legata al deserto, ma come decremento della sostanza organica presente nel terreno oltre una certa soglia, non solo in zone prospicienti i veri e propri deserti, ma in tantissime zone del mondo e dell’Italia) trattata da Mancuso come una delle cause motrici dei flussi migratori di esseri viventi, animali e vegetali.
Negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno amplificato questo fenomeno in una maniera che è completamente sconosciuta alla storia raccontata. Ogni volta che si ha una piccolissima variazione nelle temperature medie, in alcune zone del mondo c’è un corrispondente cambiamento, talvolta enorme, della possibilità di coltivare la terra e/o lo spostamento delle colture di centinaia di chilometri verso nord o duecento metri verso l’alto. Zone particolarmente sensibili potrebbero addirittura diventare inadatte alla vita, stimolando la migrazione di intere popolazioni, facendo acquisire al fenomeno connotazioni drammatiche se si pensa come quest’ultimo sia legato anche, in qualche modo, al mondo vegetale. L’essere umano è assolutamente dipendente dalle piante (che producono ossigeno, nutrimento, medicinali, materiali necessari), per questo motivo le migrazioni hanno portato spesso a movimenti di piante, espiantate dal territorio d’origine per essere poi introdotte in una nuova dimora, modificando habitat, culture, tradizioni e abitudini alimentari preesistenti (vedasi quello che è successo con i pomodori, le melanzane, le patate, i peperoni portati con sé da Colombo dalle Americhe o nel caso della zucca, di origine americana, poi selezionata, incrociata e modificata in Italia dando vita alla zucchina poi ritornata in America con la migrazione italiana ai primi del novecento).
Migrazioni umane e migrazioni vegetali sono da sempre simbiotiche. Il riso, il mais e il grano rappresentano le specie da cui l’uomo trae più del 70% delle calorie per il proprio fabbisogno. Questo da’ l’idea di come sia stretto e vitale questo rapporto anche a parti invertite, in cui le piante coltivate, modificando nel tempo il loro carattere silvestre, sono ormai ineludibilmente legate alle cure umane.
Il concetto di identità, di individuo (non divisibile) non trova spazio. La divisione rappresenta addirittura un metodo di propagazione. L’essere inamovibile che per noi animali (che fondiamo la nostra esistenza sul movimento e sulla risoluzione dei problemi, come ad esempio la fame, il caldo, il freddo, mediante il suddetto) rappresenterebbe una limitazione, per le piante è tutt’altra cosa. Il radicamento impone la risoluzione delle criticità attraverso una sensibilità maggiore verso ciò che le circonda.
Vi è una sottovalutata intelligenza inclusiva nelle piante. Creano simbiosi, collaborazioni (con batteri azoto-fissatori; con funghi; con insetti impollinatori; con l’uomo). Tutte le piante unite in una comunità eterogenea, andrebbero viste come un unico organismo connesso in ogni sua componente radicale attraverso legami fungini e, perché no, spirituali.
Gli stessi legami profondi che uniscono Bruna & Lidia alle loro vigne e alla loro terra, impensabili ormai le une senza le altre. Una sensibilità spessa, densa di significati.
Provo a tornare con i piedi per terra (ancora terra e radici per restare in ambito vegetale), godendo di un gusto puro, agro, schietto. Nonostante le profondità scure toccate a tratti da alcuni Ovada, resta in fondo di una luminosità accecante.
Interiorizzato il movimento vorticoso, passo in rassegna un vino dopo l’altro, ma risulta davvero difficile mantenere un profilo distaccato prestando attenzione ai vari aneddoti.
Penso a ciò che è stato raccontato a proposito dello sciacallaggio tentato nei confronti del Cav. Lorenzo Accomasso, sfruttando un momento di possibile debolezza affinché si convincesse a cedere la propria terra, non coscienti di come ormai sia in tutto e per tutto lui stesso quel luogo. O di come sia stato incompreso un uomo coraggioso come Pino Ratto.
Guardo nel bicchiere e piombo in una struggente commozione. Mi domando come sia possibile essere arrivati a scorgere così nitidamente anima, corpo, pieghe e rughe di uomini che non corrispondono ad altro se non a quelle delle loro tanto amate vigne.
Non si tratta più di bere e degustare. La dimensione è cambiata. Faccio fatica. Il sorso diventa più raccolto, rispettoso. Una lacrima.
Scriveva Torquato Tasso ne Il Mondo creato:
Ma quel che maraviglia in vero apporta,
È che ritrovi in lor ,se ben riguardo,
I diversi accidenti, e i vari esempi
Di gioventude e di vecchiezza umana,
Perché le piante ancor novelle e verdi
Han polita scorza e quasi estesa;
Ma s’adivien che per molti anni invecchi,
S’empie di rughe, ed increspata inaspra.
Il vegetale e l’umano, l’uno specchio dell’altro. Così naturalmente. Così dovrebbe essere. Così lo è stato per una sera.
Bruno Frisini, Itri, Febbraio 2018
* [Le citazioni sono tratte da Piero Camporesi, Le Officine dei Sensi, Garzanti, 1985]