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Ladri di Vino: Rocco di Carpeneto & Carussin

8 Ottobre 2018
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Era il 19 febbraio scorso, sono quindi passati 8 mesi, che ci ritrovavamo alla Rimessa Roscioli assieme a Lidia Carbonetti di Rocco di Carpeneto ad Ovada & Bruna Carussin dell’omonima azienda agricola e fattoria didattica a San Marzano Oliveto nel Monferrato astigiano.

Alla vigilia di Ladri di Vino che martedì 9 ottobre cioè domani, vedrà interfacciarsi tra loro e il pubblico presente altre due produttrici luminose ovvero vignaiole illuminanti quali sono Elena Pantaloni (La Stoppa)  ed Elisabetta Foradori (Foradori), ho qui di seguito il grande piacere di ospitare la cronaca dal vivo di quella serata magica riportata con la solita suggestiva sensibilità, curiosità culturale ed afflato romantico dall’amico fraterno Bruno Frisini, così tanto per ricreare con le parole e qualche immagine l’atmosfera magica d’energia positiva e fusione intellettuale tra vino, produttori e consumatori compartecipi a queste serate Ladri ovvero Ladre di Vino, ideate/costruite/imbastite con la complicità essenziale (non ho detto esiziale) di Fabio Rizzari & Accademia degli Alterati.

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La porta si chiude alle mie spalle, una sensazione di assoluta completezza comincia a farsi largo.

Rimessa Roscioli assume sempre più le sembianze di una mecca per chiunque professi la fede dell’autenticità.

Una premessa doverosa, stravolgimento dell’ordine temporale del racconto che appare necessario se si vuol rendere da subito l’idea di come l’esperienza di una sera sia riuscita ad imprimere un irrefrenabile bisogno di immediata condivisione con chi, ahimè, non era presente.IMG_1255

Ladri di vino nasce da un’idea di Fabio Rizzari & Gas Saccoccio, ispirata a Ladri di Cinema, mostra-iniziativa-rassegna-evento del comune di Roma, risalente al 1981, in cui si alternavano registi che, proponendo un loro film, spiegavano a margine quale altro regista fosse stato per la loro formazione un punto di riferimento da cui attingere quindi “derubare”.

Detto questo, va da sé che i vini prendano il posto delle pellicole e i produttori-agricoltori quello dei registi, nonostante si possa comunque ben dire che i vini altro non sono che film in cui la fitta trama viene orchestrata dal produttore-regista.

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Si delinea immediatamente quella che sarà la strada percorsa. Non c’è spazio per futili tecnicismi che sembrano, dal primo istante, stonare con la perfetta intonazione di quel coro di voci umane impersonato da Bruna Ferro e Lidia Carbonetti, ospiti della serata, rappresentanti rispettivamente Carussin e Rocco di Carpeneto.

Interpreti di un territorio, veicolo e vettore attraverso il quale Astigiano, Ovadese e Monferrato camminano per il mondo, queste realtà arrivano a Roma con un bagaglio, tanto sensazionale quanto romantico, di esperienze da rivelare.

Generose, come la Barbera secondo Carducci (anch’egli la declinò al femminile), iniziano a svelare tutte le creature che da lì a poco sarebbero state accolte dalla pancia dei calici.

Barbera d’Asti, Barbera del Monferrato Superiore, Dolcetto di Ovada, poi ancora tutti i “rubati” tra cui miti assoluti come il Dolcetto “Le Olive” di Pino Ratto e il Barolo 2010 (rarissima dedica alla sorella scomparsa) del Cav. Lorenzo Accomasso.

Fatte le dovute presentazioni, si entra nel vivo toccando con mano quanta saggezza possa essere racchiusa in chi vive la terra genuinamente (“i sofi contadini”*).

Le-officine-dei-sensi

I miei pensieri cominciano a vacillare in preda a visioni e parallelismi. Bevo e ascolto. Il tempo scorre, ho l’impressione che entrambe le cose diventino sempre di più un tutt’uno inscindibile.

Rifletto, predispongo i sensi all’assaggio.

Custodi di un sapere antico, di un’esperienza rustica, unico, immutabile baricentro delle loro esistenze. Coscienza e memoria storica, come lo erano le donne all’interno degli antichi nuclei contadini e pastorali. Dinnanzi ai miei occhi appaiono le naturali prosecutrici di coloro che venivano elette (secondo superstizione), con mani che non potevano essere immonde, come uniche manipolatrici di latte e formaggio

 (…) cosa tenera bisognosa di cure e calde attenzioni, creatura uscita da mani di donna, quasi un’altra forma di parto […] Il “cascio” neonato doveva esser custodito, mentre si rassodava e maturava.*

Un’operosità, una destrezza, una sensibilità da sempre legata ai saperi delle donne. Impressionante il parallelismo con le: 

(…) vicende che accompagnano la vita-morte del vino che nella putredine dell’uva calpestata, ridotta a mosto fermentante, scende nella tomba-cantina chiuso in una bara di legno, apparentemente estinto ma in realtà solo dolcemente assopito, assorto in un lungo, indecifrabile dialogo col sole, in contatto col tempo, le stagioni, i venti, i pianeti. Nelle tenebre del cellarium il vino continua a vivere una seconda vita cosmica, in un inafferrabile rapporto-comunicazione col globo luminoso, col “grand’occhio del ciel.*

Sangue coagulato cotto due volte il formaggio, sangue della terra e sugo della vita* il vino. 

Le mie elucubrazioni vengono alimentate dallo svolgersi della serata, trovano nutrimento in coloro che desiderano raccontare se stesse affinché ci sia dato comprendere i loro vini. generale

Si parla di antichi ritmi lavorativi. Per il contadino (che è spesso contadino-pastore) conoscere, capire, prevedere significa sopravvivere. Tutto viene ricondotto al linguaggio dell’esperienza, talvolta pericolosa, di chi di terra impastato* scruta l’orizzonte, osservando il cielo, i venti, i rumori* della terra e i segnali offerti dagli animali. Una semiotica mantica*, in cui sono individuabili i segni dell’abbondanza* e i segni della carestia*, una cultura del prevedere, della precognizione, la praecognitio temporum*. Un sistema che coinvolge tutti i sensi: il naso vigile alle alterazioni degli odori; l’occhio attento a captare i segnali provenienti dalle direzioni più disparate; l’orecchio teso all’ascolto di insolite modulazioni. Un 

(…) sapere frenato, non accelerato. La sua circolarità, la sostanziale omogeneità delle sue esperienze sono tutte riconducibili allo spazio del vissuto e del praticato nella casa e nel campo. La sua stessa trasmissione è domestica e genealogica […] (riproducente) paradigmi di lunga durata tendenti a riprodursi e a prolungarsi indefinitamente.*

Sento come d’essere avvolto da un inspiegabile torpore in una sfera che muove verso qualcosa di assoluto e definitivo. Da un vino all’altro, tra racconti e suggestione tutto sembra fermarsi di colpo quando Bruna Ferro mi ricorda indirettamente quanto la vita sia incredibilmente capace di auto-programmarsi*. Avevo pochi giorni addietro ascoltato in radio una dissertazione di Stefano Mancuso (botanico) sull’intelligenza inclusiva di piante e organismi vegetali, nell’ambito di un progetto denominato La Frontiera. Ora, il tutto veniva nuovamente riproposto alla mia attenzione partendo proprio dal fenomeno del cambiamento climatico e della desertificazione (non intesa come aumento della superficie legata al deserto, ma come decremento della sostanza organica presente nel terreno oltre una certa soglia, non solo in zone prospicienti i veri e propri deserti, ma in tantissime zone del mondo e dell’Italia) trattata da Mancuso come una delle cause motrici dei flussi migratori di esseri viventi, animali e vegetali. 

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Negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno amplificato questo fenomeno in una maniera che è completamente sconosciuta alla storia raccontata. Ogni volta che si ha una piccolissima variazione nelle temperature medie, in alcune zone del mondo c’è un corrispondente cambiamento, talvolta enorme, della possibilità di coltivare la terra e/o lo spostamento delle colture di centinaia di chilometri verso nord o duecento metri verso l’alto. Zone particolarmente sensibili potrebbero addirittura diventare inadatte alla vita, stimolando la migrazione di intere popolazioni, facendo acquisire al fenomeno connotazioni drammatiche se si pensa come quest’ultimo sia legato anche, in qualche modo, al mondo vegetale. L’essere umano è assolutamente dipendente dalle piante (che producono ossigeno, nutrimento, medicinali, materiali necessari), per questo motivo le migrazioni hanno portato spesso a movimenti di piante, espiantate dal territorio d’origine per essere poi introdotte in una nuova dimora, modificando habitat, culture, tradizioni e abitudini alimentari preesistenti (vedasi quello che è successo con i pomodori, le melanzane, le patate, i peperoni portati con sé da Colombo dalle Americhe o nel caso della zucca, di origine americana, poi selezionata, incrociata e modificata in Italia dando vita alla zucchina poi ritornata in America con la migrazione italiana ai primi del novecento).casse

Migrazioni umane e migrazioni vegetali sono da sempre simbiotiche. Il riso, il mais e il grano rappresentano le specie da cui l’uomo trae più del 70% delle calorie per il proprio fabbisogno. Questo da’ l’idea di come sia stretto e vitale questo rapporto anche a parti invertite, in cui le piante coltivate, modificando nel tempo il loro carattere silvestre, sono ormai ineludibilmente legate alle cure umane. 

Il concetto di identità, di individuo (non divisibile) non trova spazio. La divisione rappresenta addirittura un metodo di propagazione. L’essere inamovibile che per noi animali (che fondiamo la nostra esistenza sul movimento e sulla risoluzione dei problemi, come ad esempio la fame, il caldo, il freddo, mediante il suddetto) rappresenterebbe una limitazione, per le piante è tutt’altra cosa. Il radicamento impone la risoluzione delle criticità attraverso una sensibilità maggiore verso ciò che le circonda. barolo

Vi è una sottovalutata intelligenza inclusiva nelle piante. Creano simbiosi, collaborazioni (con batteri azoto-fissatori; con funghi; con insetti impollinatori; con l’uomo). Tutte le piante unite in una comunità eterogenea, andrebbero viste come un unico organismo connesso in ogni sua componente radicale attraverso legami fungini e, perché no, spirituali. 

Gli stessi legami profondi che uniscono Bruna & Lidia alle loro vigne e alla loro terra, impensabili ormai le une senza le altre. Una sensibilità spessa, densa di significati.

Provo a tornare con i piedi per terra (ancora terra e radici per restare in ambito vegetale), godendo di un gusto puro, agro, schietto. Nonostante le profondità scure toccate a tratti da alcuni Ovada, resta in fondo di una luminosità accecante. 

Interiorizzato il movimento vorticoso, passo in rassegna un vino dopo l’altro, ma risulta davvero difficile mantenere un profilo distaccato prestando attenzione ai vari aneddoti.  IMG_1253

Penso a ciò che è stato raccontato a proposito dello sciacallaggio tentato nei confronti del Cav. Lorenzo Accomasso, sfruttando un momento di possibile debolezza affinché si convincesse a cedere la propria terra, non coscienti di come ormai sia in tutto e per tutto lui stesso quel luogo. O di come sia stato incompreso un uomo coraggioso come Pino Ratto.

Guardo nel bicchiere e piombo in una struggente commozione. Mi domando come sia possibile essere arrivati a scorgere così nitidamente anima, corpo, pieghe e rughe di uomini che non corrispondono ad altro se non a quelle delle loro tanto amate vigne.Pino Ratto

Non si tratta più di bere e degustare. La dimensione è cambiata. Faccio fatica. Il sorso diventa più raccolto, rispettoso. Una lacrima.

Scriveva Torquato Tasso ne Il Mondo creato:

Ma quel che maraviglia in vero apporta,

È che ritrovi in lor ,se ben riguardo,

I diversi accidenti, e i vari esempi

Di gioventude e di vecchiezza umana,

Perché le piante ancor novelle e verdi

Han polita scorza e quasi estesa;

Ma s’adivien che per molti anni invecchi,

S’empie di rughe, ed increspata inaspra.

Il vegetale e l’umano, l’uno specchio dell’altro. Così naturalmente. Così dovrebbe essere. Così lo è stato per una sera.

Bruno Frisini, Itri, Febbraio 2018

* [Le citazioni sono tratte da Piero Camporesi, Le Officine dei Sensi, Garzanti, 1985]

Biosfera Carussin. La Fattoria Didattica il Vino la Birra la Biodiversità l’Amore Cosmico

8 Dicembre 2016
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Biosfera Carussin

La Fattoria Didattica il Vino la Birra la Biodiversità l’Amore Cosmico

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Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone!

L’onnipotenza della fragilità. Una contraddizione in termini perché quel che è fragile non suggerisce certamente l’idea d’onnipotenza eppure del rebus di questa apparente incoerenza terminologica so che esiste una risoluzione non tanto immediata né cervellotica ma è una spiegazione di pancia. Lo scioglimento d’un nodo mentale che avviene attraverso il sentimento della terra profondo. La conduzione di precisi gesti quotidiani, lo sforzo autentico d’una comunità di persone-animali-cose che impiega l’energia fisica del proprio intelletto e delle proprie mani al fabbisogno del bene di se stessi ma a buon uso di tutti.000001L’onnipotenza della fragilità. Non saprei spiegarlo altrimenti ma questa stonatura stridente di concetti, già al rientro in treno dalla visita di alcuni giorni nell’embrione Carussin, mi si è pian piano risolta dentro. Mi si è armonizzata interiormente non tanto a ragionamenti astrusi, a monologhi senza fine, ma sub specie aeternitatis di fatti, d’incontri con le persone, d’osservazioni dal vero delle attività in vigna in cantina a tavola, di conversazioni a più voci, d’assaggi, d’abbracci, di sguardi, di sorrisi, d’attitudini condivise al ben fare o meglio al fare il bene.00002Ecco, io ora non ricordo più tanto bene con esattezza dalla bocca di chi è uscita questa saggia sentenza: “Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone“. Se dai discorsi intorno alla tavola con qualcuno dei canuti sapienti che orbitano l’emisfera mistica di Casa Carussin; se nella cantinetta accogliente di Nonno Gino che ci stappa una bottiglia d’uva Cortese pressata col cuore, un bianco genuino che sa tanto di continuità, di semplici e buone maniere, sa di mura protettive della casa degl’avi.

Insomma non ricordo più chi ha pronunciato la frase: “Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone” ad ogni modo è un verdetto decisivo che rende conto perfettamente della tempra etica e dell’humus naturale che ritroviamo in questo angolino dell’astigiano a San Marzano Oliveto. Una parcella di compiuta umanità integrata alla vita dura ma sana di campagna, che s’affaccia sui traffici superflui delle città oltre le quali s’intravede la corona di spine d’oro delle alpi.fullsizerender-copy-5Nei miei progetti futuri c’è un bosco. Un isolotto di piante nascosto tra i colli del nostro Monferrato. Sarà quel bosco là, il mio buen retiro.” Questo Bruna – lo sguardo vivo d’eterna sognatrice focalizzata alla meta – mentre mi mostra la sacra, la verde lontananza del suo paradiso silvestre realizzato o in via di realizzazione. E allora ripenso alle riflessioni dello storico dell’ambiente Piero Bevilacqua su La Terra è finita, quando in merito all’insostituibilità della Natura e delle sue risorse, alla domanda:

“Come si fa a calcolare il valore economico di un bosco?”0000000

Questo è quanto  risponde il Bevilacqua:

“Esso [il bosco] infatti non è soltanto una massa di legname vendibile, ma un paesaggio da ammirare, è il manto che protegge le montagne dall’erosione e dalle frane, è il serbatoio che raccoglie le acque piovane e le trasforma in sorgenti, è il produttore di ossigeno per le popolazioni, è il moderatore locale del clima, è la sede degli uccelli, degli animali selvatici, di tante piante che custodiscono la biodiversità della Terra.”

0Sono mesi che mi giro e rigiro tra le dita impacciate il cubo di Rubik del microcosmo Carussin, senza giungere mai a una risoluzione soddisfacente. Quando completo un lato del cubo, se ne disfa subito un altro. Non è mai semplice dare conto della complessità di un ambiente umano e di un contesto territoriale soprattutto quando le due cose sono così inscindibili, fuse sulla fiamma in un sistema frattale al fuoco dei sentimenti, che assorbe variabili molteplici d’elementi originari quali l’aria la terra l’acqua.frattale1Insomma parto subito col dire che Carussin è un’isola di libertà campestre, ma anche una nave scuola d’enologia empirica dove tutti a turno insegnano ed imparano a navigare sui flutti in tempesta della vita.

Carussin è un dodecaedro della mente e del cuore. È una Fattoria Didattica dove si prova a ricucire la conoscenza imbarbarita del cittadino, riconnettendola al suo tessuto culturale di fondo che ha origine nel mondo agreste, negl’usi e costumi contadini del nostro Bel Paese. Usi e costumi intesi in un’ottica d’impegno civico, con un’attitudine di vera passione educativa e non quale tristanzuola trovata di certo marketing che fa folklore e colore depauperato di storia, senza più sostanza né radici. Un falansterio utopico dove si realizza all’atto pratico il sogno di Fourier preso nei suoi elementi idealmente migliori. Una fucina dove si attuano sogni in pura spontaneità, alla mano e senza troppe chiacchiere fumose.Processed with Snapseed.
Carussin è di fatto un laboratorio educativo sempre in fermento – oltre al vino e alla birra nella doppia cantina – è un indotto d’idee realizzate sul campo. Come Grappolo contro Luppolo ad esempio, l’Argibar interno alla fattoria gestito con rara competenza e sorridente joie de vivre da Valentina Cucchiaro, emigrata da Roma in Monferrato. Carussin è sì una famiglia tradizionale molto radicata nel territorio ma è altresì un crocevia di partenze e d’arrivi, una rete virtuosa eppure virtuale le cui maglie sono strette alla comunità d’appartenenza che sono altresì tanto allargate al mondo. L’emisfero Carussin è perennemente aperto alle innovazioni della comunicazione tecnologica. È sempre qui difatti che si applica a meraviglia il sistema del woofing che porta direttamente dentro la casa-azienda-universo Carussin un flusso d’energia giovanile davvero notevole – elettricità mentale e ardore di braccia provenienti da ogni angolo del pianeta – uno slancio di vitalità creativa, di forza lavoro, di collaborazione intellettuale e di contributo manuale che non credo abbia eguali al mondo.

Sarebbe troppo lunga, ma avrò modo in una prossima occasione d’approfondire il legame professionale che da solo fa terroir. Quella costellazione di relazioni cioè che intessono e danno il senso ultimo di una comunità assieme a tanti altri produttori di zona, amici d’avventura e colleghi vignaioli, formaggiai, fornai, pastai (il mitico Mauro Musso della Casa dei Tajarin), allevatori, salumai e tanti altri artigiani d’assoluta sostanza e pregio.

fullsizerender-copy-2Il Cosmo Carussin, – che è anche un Caos programmato nei minimi dettagli – è composto di tanti pianeti, asteroidi, galassie in movimento che ruotano attorno alle stelle fisse che risplendono lampi d’amabilità, tatto, competenza e una cortesia antica, un’accoglienza all’avanguardia. Queste stelle d’uomini e donne sono: Bruna Ferro, Luigi, Luca, Matteo e Nonno Gino Garberoglio, Donna Irma, Mamma Vanda, Zio Angelo, Valentina…00000000E poi ci sono le 10 stelle mobili degl’asinelli, ognuno con una propria attitudine psichica, una propria impronta caratteriale: Brunella cioè Nella è il capobranco, regalo di Luigi a Bruna di qualche San Valentino fa. Sileno come il Dio degl’alberi figlio di Pan. Diavolo Rosso detto Dindo (Diavolo Rosso in omaggio al grande Gerbi ciclista d’Asti di cui si racconta portasse Barbera in borraccia altroché acqua). E ancora Amedea, Valeria, Eifù (nato il 5 Maggio), Sciuri (d’origini sicule), Rodolfo Valentino (il cui nonno era uno stallone bellissimo di stampo della razza Ragusana), Cerere, Elettra (quest’ultima,  come nella mito greco, è il frutto di un incesto tra fratello e sorella).

00000000000È molto difficile comprendere se e quando un asino si sente poco bene. Hanno talmente radicata nel patrimonio genetico la sopportazione alle fatiche e al dolore, che non si lamentano neppure per manifestare la loro sofferenza. Certo, se non è per gioco o riposo, è sospettoso vederli stesi a pancia in giù, ma è proprio così che fanno restando immobili, ottimizzando al massimo le loro forze e, come aggiunge Bruna con amorevole cognizione di causa: “mettendosi in ascolto di se stessi.”

[Clicca qui per approfondimenti sull’onoterapia, un link all’associazione abruzzese del dr. Eugenio Milonis: Asinomania di Introdaqua nei pressi di Sulmona]hero_eb20040319reviews08403190305ar fullsizerender-copy-6A proposito di tessuto culturale, ricordo a tal proposito uno straordinario capolavoro della cinematografia occidentale il cui protagonista è proprio un asino: Au Hasard Balthazar film del 1966 di Robert Bresson che racconta essenzialmente per immagini la crudele parabola “dell’asino che assiste alla tragedia umana attraverso una rassegna esemplare dei vizi capitali, destinato ad essere testimone di ogni peccato e che espierà, incolpevole, ogni colpa.fullsizerender-copy-4Oppure, per rimanere in tema di grande letteratura universale pur restando sempre in Piemonte, rimando a pagine altrettanto strazianti quanto il film di Bresson. Sono pagine ricavate dall’Antologia Personale di Primo Levi, La Ricerca delle Radici, che nel paragrafo intitolato: La pietà nascosta sotto il riso, rivolge ai lettori parole cariche d’un tormentoso significato. Sono parole amare quelle di Levi che vanno lette in retrospettiva, coscienti dei travagli subiti da lui in prima persona sulla sua pelle di sopravvissuto. Parole-sferzate che esprimono una lacerante esperienza di sopruso, di lotta e resistenza a quel tritacarne d’uomini e donne che fu Auschwitz. È una mezza, densissima paginetta dedicata all’architettura poetica dei sonetti del Belli, in special modo al sonetto Se more che tratta proprio di un asino, poveretto anche lui come Balthazar, da cui “(…) si ricava una severa lezione morale da un capovolgimento: l’uomo, qui è crudele e stupido «come le bestie», è un balbuziente mentale, incoerente e feroce; l’asino muore una morte da martire.”uch09-lg

Se more1

Nun zapete2 chi è mmorto stammatina?
È mmorto Repisscitto,3 er mi’ somaro.
Povera bbestia, ch’era tanto caro
da potecce4 annà in groppa una reggina.

L’ariportavo via dar mulinaro
co ttre sacchi-da-rubbio de farina,
e ggià mm’aveva fatte una diescina
de cascate, perch’era scipollaro.5

J’avevo detto: nun me fa6 la sesta;
ma llui la vorze fà,7 pporco futtuto;
e io je diede8 una stangata in testa.

Lui fesce allora come uno stranuto,9
stirò le scianche,10 e tterminò la festa.
Poverello! m’è ppropio dispiasciuto.

20 aprile 1834

Note
1 Si muore.
2 Non sapete.
3 Repiscitto, o ripiscitto, è l’ordinario soprannome che si dà ai villanelli.
4 Da poterci.
5 Cipollaro: aggiunto di cavallo o di asino che abbia vizio d’inciampare.
6 Non mi fare.
7 La volle fare.
8 Gli diedi.
9 Starnuto.
10 Le gambe.

biBruna ci tiene moltissimo a sottolineare che, senza nuocere a nessuno, l’onesto lavoro di campagna per l’autoproduzione d’una sana economia agricola familiare indirizzata ad un bene comune e non soltanto ad un interesse privato, vuol dire innanzitutto “una continua ed instancabile evoluzione mantenendo però, ben presente e tangibile, l’obiettivo del benessere dell’uomo, un benessere fisico, empirico ed emozionale (…) perché il territorio va’ vissuto non usato!” 0003Processed with Snapseed.Così mi dice ancora Bruna con cui sono pienamente d’accordo, mentre discutiamo in merito alla feticizzazione inautentica del vino e all’ideologia imperante della monocoltura intensiva della vite che causa uno scollegamento totale con la produzione agricola e con la vitalità campestre che invece andrebbero intese quali organismo vivente delicato e a misura quanto più umana possibile. Il vino è solo una piccola parte dell’espressione inestimabile di una policoltura di sussistenza in armonia con se stessa, che sia – nel rispetto del buon senso di tutti – quanto più responsabilmente sostenibile, autosufficiente, consapevole. “Perché, la consapevolezza del bene comune, è la parte di un tutto e passa attraverso il lavoro di ognuno, qualsiasi esso sia.” 

Non per niente Bruna – con spirito critico ma sempre con rispettosa simpatia – quando gira per fiere o per degustazioni, ci tiene quasi più a mostrare le schede tecniche dei suoi asini che le schede dei vini. “È una forma di divertita protesta soprattutto nei confronti del mondo dei vini naturali dove vige fin troppa confusione, lotte intestine, disaccordo tra produttori, rivenditori e consumatori finali.

000000000

Che dolore quando ho fame, che gioia quando mangio.

Fede incondizionata, affinità assoluta allora per Carussin Bruna Ferro, per  suo marito Luigi Garberoglio, per i suoi figli Luca e Matteo e la loro silenziosa, pacifica rivoluzione agricola.
Le loro Barbere, il loro Moscato d’Asti – versione secca e dolce – sono poemi epici consacrati alla civiltà contadina: vini buoni, accoglienti e sinceri proprio come chi li fa. Qui in fattoria dove sono stato mesi fa e dove non vedo l’ora di ritornare. Qui, in ogni loro calice di vino bianco e rosso, scopro e riscopro ogni volta il ruolo centrale della relazione tra persone, piante e bestie connessi all’infinitamente perfezionabile sistema nervoso della natura che è pur sempre un flusso evolutivo di T-R-A-N-S-I-Z-I-O-N-E abbracciato all’essenzialità del mondo minerale-animale-vegetale.

[Qui il link ad una ispirata pagina di Fabio Rizzari sull’entaglement quantistico della biosfera Carussin].00214462796_1847902695437955_6952374076966534372_n

[Invece, rimando qui di seguito ad una precedente recensione sempre su queste pagine, alla categoria: Il mio goccio quotidiano. Il vino come volontà etica e rappresentazione estetica del mondo]

IV. La libertà di fare e disfare

Carussin è il nome della cantina, c’è dal 1927 a San Marzano Oliveto (tra Nizza Monferrato e Canelli). Devo ammettere che la prima cioè l’ultima volta che ho bevuto questa bottiglia ero un pizzico sospettoso e forse anche un po’ svagatamente impreparato.
Prima “scorrettezza” di questo vino è il tappo a corona;

seconda è un Nebbiolo da cui assai spesso in Langa si derivano costosetti, ingessatelli e talvolta alquanto datati pur se fin troppo modernoni: Barolo e Barbaresco;

terza è che, nonostante la potenza e il potenziale del vitigno – amichevolmente stappato come fosse una boccia di birra dozzinale – ci ritroviamo fin da subito nel bicchiere un felice vino già schiuso alla bevuta, pieno di vigore, ricco in polpa di pesca matura al punto, schietto di corpo e colore molto ben predisposto nella struttura. Di piacevolezza sana, buona frutta succosa in odor d’albicocca spaccata in due sul ramo e questo – al di là dei privilegi del terroir – forse anche soprattutto a ragione delle assennate tecniche/pratiche d’agricoltura atte alla “umana” vinificazione: fermentazioni naturali, non filtrazione, nessuna solforosa aggiunta.
Avevo pensato tre titoli per questa recensione, ma ne ho usato un quarto:
I. Nobilmente semplice/Semplicemente nobile
II. Elogio dell’imperfezione
III. Disarmonia prestabilita

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Due o Tre Cose Che So Sul Sidro

27 Settembre 2016
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Sidro d’Irlanda e di Svezia, vino di Borgogna a cena su pizza sempre troppo buona di Carlo & Francesca.

Il pianeta sidro, l’asteroide della fermentazione alcolica delle mele, sono mondi ancora tutti da esplorare, almeno dalle nostre parti. Tempo fa, dopo averne assaggiati in loco di clamorosi, ho riportato da Burlington (Vermont) un sidro crudo, non pastorizzato/non filtrato davvero eccellente e succulento di cui a parte la bontà effettiva del prodotto, non mi resta memoria né fotografica né tantomeno nominativa. Non ricordo insomma più il nome del prodotto e del produttore.

heady-topper-labelOltretutto vicino Burlington a Waterbury, in volumi molto limitati si produce una IPA non pastorizzata/non filtrata anch’essa ricercata come fosse un Sacro Graal nell’ambiente dei fanatici birrofili: la leggendaria Heady Topper del birrificio The Alchemist prodotta un paio di volte la settimana. Mi raccontava più di qualche autoctono essere la HT una birra-feticcio che scatena veri e propri deliri d’accaparramento tra maniaci ossessivi in fila già dalla mattina a giorni alterni nei vari punti di smistamento della provincia. Detto fra le righe, gran parte del montagnoso Vermont è uno dei pochi posti resistenziali di tutta l’America, – da Oriente a Occidente da Nord a Sud -, dove ancora riescono consapevolmente a non farsi travolgere del tutto dall’oceano di merda liquidosolida dispensata da McDonald’s o Starbucks a cui a quanto sembra hanno permesso concessioni limitate nello stato federato.
14379674_1066627903451758_318080909169283687_oTempo fa ad una serata di degustazione alla cieca sull’Etna, avevamo anche disposto in batteria un sidro in versione Brut del grande Eric Bordelet tra le varie bottiglie di vino coperte previste. Quello che ho assaggiato sere fa invece, in abbinamento ad una classica quattro formaggi, era un sidro artigianale irlandese il Cockagee e sulla 4 formaggi ci stava una bellezza! img_3877Il sidro nello specifico è ricavato da un’antica qualità di mele utilizzando una tecnica naturale denominata keeving. Un sidro keeved è realizzato cioè attraverso questo metodo tradizionale di estrazione della dolcezza dalle mele in fase di fermentazione con i lieviti indigeni, senza aggiunta di acqua o altri zuccheri assicurando al prodotto finale una lieve filigrana frizzante che riesce a mantenenere la fragranza genuina della polpa del frutto, bilanciando tra dolcezza sottile e delicata trama amarognola.14359147_1282479485126057_8981669385534936758_nLa bevanda di mele sta sollecitando il nostro desiderio – già folgorato di suo – d’approfondire meglio l’argomento. Stuzzica la mia curiosità e quella di alcuni altri amici più fulminati di me. Dopo questo curioso aperitivo è quindi seguita un’eccellente pizza della settimana sempre in quel di Farinè: patate rosse al pesto trapanese con soppressata di polpo. A questa suprema bontà abbiamo affiancato – ed è stato l’abbinamento della serata – un Beune Premier cru Les Aigrots di Sébastien Magnien, giovane produttore a Meursault che fa vini perfettamente misurati sia nelle maturazioni dell’uva che negl’affinamenti col legno. Sébastien – che sono andato a trovare in cantina qualche settimana fa di rientro da un viaggio di lavoro a Parigi – difatti produce vini calibratissimi ricolmi di personalità ma sottili, senza fronzoli tecnici o eccessi d’ego e nonostante sia situato in una felice zona vitivinicola a preponderanza bianchi, la gran maggioranza dei suoi vini sono rossi, pinot noir ovviamente, da vari villages e appellàtions quali: 

  • Beaune (Premier cru Les Aigrots);
  • Bourgogne Hautes-Côtes de Beaune (Clos de la Perrière);
  • Bourgogne Hautes-Côtes de Beaune (Vieilles Vignes);
  • Bourgogne-Hautes-Côtes de Beaune (Clos de la Perrières)
  • Pommard (Les Petits Noizos e Les Perrières):
  • Volnay (Les Echards),  .

Processed with Snapseed.Ritornando al sidro, sere fa in quel meraviglioso luogo utopico, laboratorio d’idee, officina di braccia/pensiero, crocevia internazionale di giovani entusiasti, centrale d’energia positiva che è Grappolo contro Luppolo da Carussin a San Marzano Oliveto, ho assaggiato grazie a Luca, un sidro svedese Häxan, che gli avevano appena portato in dono dalla galassia scandinava. Meno succoso dell’irlandese, più asciutto, secco, agretto, un po’ corto al palato, paragonabile sia al naso che in bocca all’acidità citrica di una lambic che aprendoti lo stomaco con la chiave inglese, istiga i succhi gastrici e ti ben dispone alla cena. Freschezza acidula di un pompelmo rosa spremuto al momento, succulenti sentori fermentativi di yogurt. Aperitivo perfetto ad accompagnare una Robiola di Roccaverano autentica a latte crudo di capra, quadratini di pane integrale buonissimo intinti nell’olio evo e fette di un salame astigiano alle nocciole, cremoso, ancora fresco in fase di stagionatura ma comunque buono in termini accrescitivi, da mangiarne a badilate.

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Nos Dos Sisto NA12 Nebbiolo

29 Dicembre 2015
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Nos Dos Carussin

4. La libertà di fare e disfare

Carussin è il nome della cantina, c’è dal 1927 a San Marzano Oliveto (tra Nizza Monferrato e Canelli). Devo ammettere che la prima cioè l’ultima volta ho bevuto questa bottiglia ero un pizzico sospettoso e forse anche un po’ svagatamente impreparato.

Prima “scorrettezza” di questo vino è il tappo a corona; seconda è un Nebbiolo da cui assai spesso in Langa si derivano costosetti, ingessatelli e talvolta alquanto datati pur se fin troppo modernoni: Barolo e Barbaresco; terza è che, nonostante la potenza e il potenziale del vitigno – amichevolmente stappato come una boccia di birra dozzinale – ci ritroviamo fin da subito nel bicchiere un felice vino già schiuso al bere pieno di vigore, ricco in polpa di pesca matura al punto, schietto di corpo e colore molto ben predisposto nella struttura, di piacevolezza sana, buona frutta succosa in odor d’albicocca spaccata in due sul ramo e questo – al di là dei privilegi del terroir – forse anche a ragione delle assennate tecniche/pratiche d’agricoltura atte alla “umana” vinificazione: fermentazioni naturali, non filtrazione, nessuna solforosa aggiunta.

Avevo pensato tre titoli per questa recensione, ma ne ho usato un quarto:
Carussin1. Nobilmente semplice
2. Elogio dell’imperfezione
3. Disarmonia prestabilita

ps.

Suggerisco schiarimenti ulteriori e rimando al sempre ponderato Rizzo Fabiari su Accademia degli Alterati