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“Borderwine e il Tao del Vino” di Bruno Frisini

26 Giugno 2019
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Ogni gioia è breve e pallido ogni raggio di sole che scivola sulle bianche montagne fino a noi.

Friedrich Nietzsche

A fine maggio ho partecipato a BorderWine, manifestazione ideata e curata da Fabrizio Mansutti & Valentina Nadin, con cui collaboro ormai già da qualche anno.

In questa edizione 2019, al quarto anno, ho avuto l’opportunità di confrontarmi assieme al pubblico con Andrea Paternoster sulle api, sul miele e l’idromiele; con Simonetta Lorigliola autrice di È un vino paesaggio, libro bellissimo su Lorenzo & Federica, Vignai da Duline, libro che dovrebbero leggere tutti gli appassionati di vino, nessuno escluso; con Carlo Nesler sull’arte del cibo fermentato a partire da un altro libro fondamentale: Il Mondo della Fermentazione di Sandor Ellix Katz; con Damijan Podversic e la sua Ribolla poderosa in 6 annate differenti; con Dario Princic, altro intransigente vignaiolo goriziano.

Il compaesano Bruno Frisini che ha già scritto altri pezzi qui su naturadellecose, era con me a Cividale. Quella che segue è la sua testimonianza “taoista” dei due giorni trascorsi allegramente assieme tra seminari, incontri, cene, bisbocce e banchi d’assaggio.

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Borderwine e il Tao del Vino

Di che luce è composta la pioggia? Quando si scorge dalla finestra un piccolo raggio di sole venir fuori oltre il grigiore del cielo e della terra bagnata su cui poggia le proprie attenzioni, la pioggia diviene di colpo color oro.

Ecco, è proprio così che rivedo BorderWine con gli occhi della mente: color oro!

Ricordi di giorni piovosi illuminanti. Giorni illuminati da un nitido riverbero fatto d’orgoglio, d’appartenenza, di coerenza.

Ma di cosa parliamo esattamente?

Esaminarlo soltanto come fenomeno rappresentativo di un movimento appare, forse, un restringimento di campo scontato e già ben sottolineato da altri.

Curiosando sul sito si nota una breve ma significativa descrizione che fa riferimento all’importanza dell’artigianalità non fine a se stessa ma strettamente collegata ad un territorio, nella fattispecie il Friuli Venezia Giulia, Austria e Slovenia comprese in quanto terre confinanti.

È palese come questo coincida alla perfezione con i ragionamenti fatti e le impressioni condivise nella intensa due giorni di Salone del Vino Naturale svoltosi il 26 e 27 maggio a Cividale del Friuli nel Tempietto Longobardo, cornice di commovente bellezza.bb349555-9035-47ce-bfb6-13497529f740

Qual è, allora, la vera identità di BorderWine? Che ruolo ricopre nei confronti di tutte le iper-frammentate correnti di pensiero che orbitano attorno al vino artigianale? Ha una reale funzione di volano all’interno di un mercato fortemente aggressivo e selvaggio come quello dell’agroalimentare?

Ritengo necessaria, al riguardo, una breve parentesi di carattere storico-paesaggistico, utile chissà, ad argomentare e dare sviluppo ad un tema che non si può certo esaurire in poche righe.

Cividale è un gioiellino urbanistico che si è impreziosito passando di mano in mano nelle varie epoche e dominazioni.  Si attestano ritrovamenti di origine Paleolitica, Neolitica e Celtica ma il nucleo pulsante della città è stato edificato in età romana (probabilmente per volontà di Giulio Cesare, considerato il posizionamento strategico). Nel VI sec. d.c. vi si sono insediati i Longobardi che negli anni ne hanno accresciuto il potere ecclesiastico/spirituale. Nell’VIII sec. d.c. i Franchi l’hanno eletta a capitale della marca orientale del Friuli per poi divenire uno stato patriarcale del Sacro Romano Impero e, diversi secoli più tardi, dominazione della Serenissima.fb9f0b73-f992-4621-a352-49c4261bd0de

Arriva ai nostri giorni dopo guerre, confini continuamente rivisti e milioni di parole pronunciate mai nella stessa lingua. Uno strato sopra l’altro fatto di tante culture e frastagliati orgogli etnici che segnano Cividale (Forum Iulii, Civitas, Civitas Austriae, Civitate, Sividàt, Zividàt, Cividàt che dir si voglia) nel bene e nel male della propria peculiarità di città “in limine” cioè di confine.

Lo scenario che si distende dinanzi gli occhi di chi vi si imbatte è da sospendere il fiato in gola. La stessa alternanza di popoli si palesa nello svolgimento urbanistico. Edifici che raccontano di un’identità fatta di strenue fatiche e lasciano il visitatore sospeso in un limbo indefinito di epoche, culture, tradizioni.

Il tempietto Longobardo, incastonato all’interno del monastero di Santa Maria in Valle, è il più fulgido esempio di questa meravigliosa stratigrafia umana, prima ancora che diamante architettonico a sé.

Non è quindi più un caso, fatte tali premesse, che sia stato proprio questo il luogo prescelto per mettere in atto la rappresentazione di uno spettacolo vinocentrico che appare, ad occhi meno distratti, come paradigma centrale di secoli di storia.

Ora, da una prospettiva grandangolare, ad uno sguardo più circostanziato e voyeuristico, immaginiamo di spiare dal buco di una serratura l’attività che ha preso forma all’interno del monastero nei due giorni del Salone. La prima sensazione, quella più istintiva, è l’immediato desiderio di conversione (tanto per restare in tema ecclesiastico) verso lo spirito artigianale che satura l’atmosfera, lasciando impressa nella memoria come un ideale di purezza perduta.

Caleidoscopio di immagini e figure strettamente connesse all’artigianalità del cibo, del vino, di svariate arti e mestieri, BorderWine oggi lo immagino come una specie di Tao che rappresenta pienezza e vuoto al tempo stesso.463px-Tao_symbol.svg

Passeggiando e meditando sotto il chiostro tra i vari banchi dei produttori, si fa sempre più nitida la logica di fondo sottesa all’evento che racchiude una congruenza di pensieri e gesti, di idea e d’azione. Sembra passare in secondo piano se nel bicchiere viene versato Zibibbo pantesco o Blaufränkisch dell’Austria. Ciò che emerge è pura spontaneità. Abituato tuttavia a considerarla come elemento marginale, non per forza sinonimo di artigianalità e autenticità, proseguo nella mia analisi certo di aver dato quantomeno uno sfondo a quella che sarà la questione nodale da cui mi auguro si sbroglieranno diversi spunti di riflessione.

Non possiamo accontentarci di una visione superficiale se vogliamo comprendere come questo movimento dei “vini naturali” possa inserirsi in complesse dinamiche commerciali, differenziando una proposta di vino artigianale troppo spesso confusa e talvolta ingannevole.

Basti pensare, in un’ottica globale di appiattimento del gusto, al discorso del “naturale” come comunicazione distorta in partenza. Da una parte il vignaiolo tacciato di poca consapevolezza enologica, genitore di vini poco raffinati, dall’altra l’industria del vino, creatrice di vuoti slogan pubblicitari nel tentativo di dispensare rassicuranti messaggi narcolettici.

Da qualsiasi punto di vista lo si osservi, il concetto di “naturale” induce in errore se non sviscerato con la dovuta attenzione.

A tal proposito le nostre argomentazioni spostano nuovamente la loro messa a fuoco su BorderWine e sull’importanza che al suo interno assumono i seminari.

Tra un sorso e l’altro, infatti, si assiste al ben riuscito tentativo di cristallizzare concetti, temi e idee attraverso incontri calibrati con ospiti e produttori, intenti all’approfondimento di questioni centrali, altrimenti irrisolte con il solo assaggio o il solito pretesto per ubriacarsi che fa gola a molti.

L’approccio è di quelli che rapiscono l’attenzione per poi stringerla in una morsa fatta di stimoli e provocazioni che si allenta solo con il palesarsi di maggior coscienza e consapevolezza in chi ascolta.

Ciò che colpisce di più è l’assoluta corrispondenza dei temi trattati nonostante possano sembrare a una prima vista, lontani e sconnessi tra loro.

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In quest’edizione ho trovato riscontro di quanto appena espresso in tutti i seminari a cui ho partecipato. Ho notato un po’ a malincuore una divulgazione disomogenea dei suddetti all’interno del salone. Eventi di tale portata meritano probabilmente una più mirata pianificazione pubblicitaria affinché ogni presente ne venga messo a conoscenza, coinvolgendo pubblico, operatori e produttori. Un cartellone dedicato ad ogni singolo seminario, magari affisso all’ingresso delle sale degustazione, e una comunicazione cadenzata da parte delle hostess riguardo il programma del giorno, avrebbe reso senza dubbio più completo l’ottimo lavoro iniziato sui social.

La chiave di lettura in cui ho potuto osservare dal buco della serratura lo svolgersi interno ed esterno di BorderWine, riportava tutto ancora una volta, a un senso orientale di “pienezza del vuoto”.

Andando nel dettaglio, questa logica di pensiero assolutamente esotica/asiatica, crea dei legami fortissimi tra BorderWine e i produttori, tra relatori e pubblico.

L’agire senza agire è alla base di tutto ciò che è accaduto e accadrà all’interno del tempietto Longobardo durante i due giorni di salone.

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Il primo seminario a cui ho preso parte racconta di un legame straordinario: quello dell’uomo con le api.
Andrea Paternoster, mel magister. Impensabile per molti l’idea di poter ottenere qualcosa da un insetto, figuriamoci da un’intera colonia.
L’essere umano che segue l’istinto animale, assecondandolo e divenendo parte di un complesso meccanismo è qualcosa di comprensibile probabilmente solo attraverso le intense parole di chi vive ogni giorno affinando tecniche ed esperienze antichissime per produrre con sapienza il miele e i suoi derivati.
Andrea Paternoster porta infatti in degustazione, oltre ai suoi mieli che definisce “nomadi e futuristi”, anche i suoi aceti di miele e il suo incredibile idromiele, bevanda senza tempo che conduce i sensi in altre epoche, al gusto dell’agro, dell’acido e dell’autentico. Emozionante, direi inevitabile mi sovviene un raffronto con il Vin Jeaune del Jura: vino struggente, anch’esso dispensatore di un sapere genuino che sembra allontanarsi – ahimè – sempre più dalla coscienza collettiva, minacciato da una globalizzazione al glucosio che stritola il gusto, appiattisce culture arcaiche, tradizioni vere e sapori forti.
Il concetto di api “nomadi” sorge proprio dall’idea di raccogliere il nettare in luoghi diversi (almeno 60 diverse postazioni) affinché ogni territorio possa essere raccontato attraverso i propri fiori e quindi il proprio miele.
“L’ape è elemento singolo, comunità e paesaggio al tempo stesso”, espressione lucida e lungimirante che introduce con una certa spontanea naturalezza, alle affascinanti teorie dei Vignai da Duline in occasione della presentazione del libro “È un vino paesaggio”, in cui il concetto di “chioma integrale” permette di arrivare senza forzature alla perfetta maturazione del frutto, sottolineando il cruciale ruolo di un’attenzione in vigna non invasiva.225fd186-1751-4596-87c7-539c32404072
Lorenzo Mocchiutti, il produttore di vino e Simonetta Lorigliola, l’autrice del libro, si avvicinano confidenziali al nostro banco quasi a volerci svelare dei segreti.
Ovviamente si tratta di precetti ben conosciuti nonostante mi piaccia pensare che quell’atmosfera così magica e raccolta sia tutta rivolta a sanare i miei dubbi e soddisfare le mille curiosità.
Sorseggiando beatamente e approfondendo i diversi temi, appare chiaro come l’individuo-agricoltore ricopra un ruolo cruciale nella costruzione del paesaggio innanzitutto e quindi, di conseguenza, del vino.
Tali premesse farebbero pensare ad una figura di vignaiolo onnipresente, ubiquo, con “le mani in pasta” ovunque. Niente di più sbagliato! Lorenzo spiega con brillantezza come si possa sostenere con umiltà il paesaggio nel compito che la natura gli ha assegnato senza dover necessariamente essere protagonisti egocentrici.
Nessun misticismo astruso nel concetto di “chioma integrale”, cioè quel metodo che, evitando di cimare la vigna, permette di arrivare senza forzature alla perfetta maturazione del frutto, sottolineando la necessità di un’attenzione in vigna non invasiva.
Si può ben dire in questo caso che l’essere umano, proprio come le api, diventi un tutt’uno con il territorio, intuendone tempi e ritmo. Il ritmo, parola tanto cara a Damijan Podversic che, adoperandola come fulcro per presentare i suoi vini, la associa al rispetto dell’andamento delle diverse annate. Saper mantenere questo ritmo fa si che non si debba mai rincorrere pianta, uva e vino. L’evoluzione è data da fattori naturali che sta al vignaiolo vigile, saper cogliere e guidare nel loro sviluppo.
Damijan difatti con la sua fede nel “seme maturo” ci ha illustrato con intensità, come la pratica misteriosa di trasformazione del frutto da parte del vignaiolo possa iniziare solo quando quella nutrice della pianta è lì per terminare. 22b27ffe-3685-4f1a-a082-8d7ac66976f1Carlo Nesler che ha tradotto Il Mondo della Fermentazione di Sandor Katz (Slow Food Editore), ha parlato dell’importanza del non agire nell’ambito delle fermentazioni, incanalando al meglio e rendendo positive per l’uomo le trasformazioni operate nel cibo dalla vita microbica già presente nel suo corpo per natura: “La vita che alimenta la vita”.
Questo ciclone di sapere assennato, di cognizioni antiche e di profondo rispetto verso ciò che ci circonda, trova in Nesler un rappresentante ideale con doti da grande intrattenitore.
La sala è gremita, siamo di lunedì, al secondo giorno di salone.
Avverto nell’aria e negli sguardi affascinati dei presenti un’atmosfera prospera di nozioni fondamentali, basilari per ognuno di noi affamato di conoscenza.
Ogni nitida parola, ogni gesto coerente vengono tradotti mirabilmente in sostanza dagli assaggi di cibo “vivo” che ci vengono proposti nel finale: Miso, Kombucha, Sale di nocchia.
Con fare impacciato decido di assaggiare tutto e dal primo istante ne resto folgorato. C’è un che di miracoloso in questi fermentati. Una sensazione di benessere pervade nell’immediato il mio corpo, la mente genera sensazioni positive, l’istinto mi attrae verso qualcosa di relativamente nuovo del quale sono certo non potrò mai più fare a meno.
L’idea di una bontà così vera e genuina che presuppone un oculato non interventismo da parte dell’uomo nei confronti del cibo, la dice lunga sui contenuti sviscerati in questa interessantissima parentesi (sempre aperta e in evoluzione) friulana.

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Dario Princic esprime con fare deciso l’estrema facilità con cui una grande uva possa divenire un pessimo vino se l’azione di cantina superi per visione, peso e rilevanza l’azione-non azione svolta nei campi.

Princic sedimenta quindi questi pensieri molto Zen, chiarendoli con asciuttezza in forma di manifesto, utile senz’altro a sostenere idealmente anche le prossime edizioni di BorderWine:
“Il vino lo facciamo sulla pianta e qualche volta lo roviniamo in cantina!”

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Con queste parole (e che parole!) di un vignaiolo burbero, austero e autentico come i suoi vini, chiudo, anzi socchiudo la mia esperienza a BorderWine.

C’è una forte simmetria. Una struttura invisibile, capillarmente organizzata, costruita su basi solide, che guarda con metodo ad una viticoltura sostenibile e quindi durevole e redditizia.

La preservazione del terroir (come spesso mi capita di rilevare), che si traduce in tipicità e qualità, è l’unica vera prospettiva che mette in relazione le società umane con il proprio habitat naturale che ha modellato il paesaggio, conservato biodiversità, custodito differenze sociali e culturali fondamentali.

In concreto per le società umane e le aggregazioni di individui – eventi come BorderWine in questo possono assumere un ruolo davvero cruciale – il fine ultimo è quello di individuare e perseguire un’insieme di pratiche comuni in grado di preservare i terroir e la loro produttività.

Non basta solo l’etica ecologista in quanto tale per spingere un prodotto o un produttore sul mercato e di conseguenza nei complessi meandri della cultura umana.

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Da qui si potrebbero aprire numerosissime finestre che ipotizzano una viticoltura ragionata che andrebbe a toccare ogni livello della filiera. Ciò nonostante il nostro fine iniziale era quello di focalizzare in maniera più attenta la fenomenologia di un movimento che sente, a mio avviso, troppo stretta la veste assegnatali di salone del vino “naturale”.

BorderWine è sostenibilità, competitività economica, preservazione e salvaguardia del patrimonio ambientale, salute umana, qualità globale.

Il vino artigianale ha bisogno di tanti BorderWine e non il contrario come si tende semplicisticamente a credere.

Bisogna certe volte invertire i fattori e osservare la realtà al contrario, dalle proprie ombre, sfidandola, se si vuol raggiungere la meno illusoria possibile… natura delle cose.

Bruno Frisini

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Alla cieca per vederci meglio. Contributo a una fenomenologia del sorseggio in sé

3 Aprile 2016
Commenti disabilitati su Alla cieca per vederci meglio. Contributo a una fenomenologia del sorseggio in sé

Alla cieca per vederci meglioHouse of the Amphitheater in Mérida SpainPoetica, etica, estetica e prassi della degustazione a bottiglie bendate. Contributo minimo a una fenomenologia del sorseggio in sé.

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“La vite se ne sbatte le palle del vino perché la sua natura profonda, il suo temperamento botanico è solo quello di gettare a terra il seme per rigenerarsi.”

Damijan Podversic

Assaggiare il vino senza sapere cos’è che si sta bevendo. Se non ci si fossilizza allo sterile esercizio masturbatorio-intellettualistico tra feticisti, bere alla cieca può invece assumere profondi connotati teorici di conoscenza molto pratica applicata alla materia così complessa solida/fluida che proprio il vino rappresenta.

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La liseuse (La lettrice) di Henri Fantin-latour (1861)

Bere a bottiglie bendate può approssimarsi per prassi a una sana dimensione d’obiettività organolettica in cui il testo da leggere è finalmente soltanto il vino in sé nel calice del tutto liberato da inquinamenti propagandistici, pregiudizi sociali e inquietanti condizionamenti del marketing. Siamo cioè ignari del titolo di copertina quindi non pregiudicati nel giudizio critico finale dall’immagine commerciale, dall’ideologia mercantile di fondo o dal brand d’un prodotto noto riconoscibile in etichetta e perciò condizionante il nostro reticolato nervoso d’impressioni intuitive, filamenti emotivi e pulsioni affettive attraverso il cui filtro valutiamo e giudichiamo  fin da subito profumi, puzzette e fragranze del liquido nel calice spaginato come un volume enciclopedico sensoriale innanzi a noi.

127+Ulisse+acceca+PolifemoÈ il nostro sistema nervoso infatti a segnare lo schema intricato d’intuizioni e di percezioni di fondo. È (siamo) una spugna epidermica tra un fuori verosimilmente reale (il mondo esterno) e un dentro di viscere, di flussi arteriosi e d’astrazioni vascolari che configura un apparato tanto fugace eppure consistente d’impressioni messo in moto dai nostri sensi a beneficio delle semplici – che non vuol dire semplicistiche – e spontanee sensazioni personali che contano di più e  cioè: mi piace-non-mi-piace, buono-non-buono, ognuno stimando secondo i propri livelli di raffinatezza soggettiva, parametri individuali di gusto che poi vanno riscontrati con variabili molto più oggettive, collettive e circoscritte quali: tipo di lavorazione nelle vigne, tecniche di vinificazione in cantina, sovraesposizione se non addirittura sopruso di queste tecniche o minor approccio invasivo possibile sia in campagna che in cantina; costo produttivo e prezzo finale, vino sterile-funebre elaborato secondo i protocolli farmaceutici da obitorio dell’enologo standard o vino vivo del contadino trapezista da millenni in bilico sull’orlo del precipizio fra l’Ossidazione e l’Aceto; e poi ancora tanti altri fattori fondamentali alla buona o alla cattiva riuscita del risultato finale nella botte prima, nella bottiglia dopo quindi nel calice e dentro di noi che lo accogliamo al termine del suo percorso partito dal seme fino all’esofago.

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Cornelis Bega, Contadino seduto con boccale

Abbiamo dunque solo questo vino nel bicchiere che è il romanzo da interpretare attraverso gli strumenti nudi e crudi messi a nostra disposizione dalla natura, strumenti affinati (abbigliati e cotti) dalla cultura cioè: l’olfatto, la vista, il sapore anche il suono perché no? Come di un libro di cui non conosciamo né titolo né autore dobbiamo allora provare a ricostruirne trama e struttura stilistica attraverso la lettura, capire dove va a parare dal timbro di scrittura, dalla ricostruzione d’ambienti, radiografare dalle tonalità dei dialoghi l’humus vigoroso o infetto della prosa, analizzare dallo svolgimento delle parole se il libro – cioè il vino – in questione appunto ci piace oppure no, se ha del sangue sano e ribollente a scorrergli nelle vene delle frasi o è qualche ultima lacrima di sangue pallido sottratta ad un cadavere. Il gusto a questo punto si trasfigura come fattore principalmente culturale, quindi è una specie di barometro che misura il grado di pressione atmosferica del nostro “vuoto” e/o “pieno” di civiltà.

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Andrea Solario, Maria Maddalena prepara l’olio d’unzione per il corpo del Cristo morto

Il libro-vino che abbiamo adesso tra le mani ci suona per caso falso? artefatto? mistificatorio? ornamentale? troppo di maniera? È solo una virtuosistica esercitazione d’arte per l’arte? un testo troppo costruito a tavolino? elaborato senz’anima o trasuda vita vera vissuta? perlustra vertiginosi abissi di dolore, di sapienze e di gioia? Sa trasmettere emozioni dirette, dure, non compromesse dai filtri frivoli, piacioni e ipocriti da best-seller della spendibilità per tutti e vendibilità usa-e-getta ad ogni fottuto costo? Sa sprizzare purezza e genialità priva di bieco narcisismo nonostante quei personaggi di carta finti eppure più veri del vero? Sa scintillare più profondo e più reale della stessa realtà? Ci fa venire i brividi alla spina dorsale? qualità rara quest’ultima ma controverifica assai certa che il grandissimo Nabokov attribuiva su se stesso – e che parametro! – alla lettura e al riconoscimento indiscutibile dei capolavori della letteratura…2e34gah

Ma noi qua si sta ragionando pur sempre del vino e il capolavoro che ci scuote la spina dorsale lo dovremmo riconoscere obiettivamente sempre e comunque “a pelle” nell’aderenza assoluta fra chi lo produce e noi che lo beviamo, nel rispetto coerente del territorio, nel sacrificio degl’avi e delle generazioni future, nelle fasi lunari, nella sostenibilità del suolo e dell’habitat ma in sostanza però e non per ripetuti cliché e niente affatto per slogan tipici da stronzeggiante campagna di marketing falsona ben assestata, ma confidando nel filosofico “amore di conoscenza” per il vino – merce-vino e vino-merce – senza che chi lo produce o chi lo smercia debbano necessariamente mercificarsi a loro volta al meretricio di un mercato sempre più manipolatorio, distratto, banalizzante e vuoto che appiattisce tutto e tutti nel suo alienante tritacarne consumistico.

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Scuola Olandese, Contadino seduto che beve in un interno

È materia molto scivolosa ora, incandescente come lava, è cosa ambigua – fenomenologicamente ambigua – questa faccenda del vino sempre sospeso tra soggettività e oggettività. Riguarda i gusti personali ma mette anche in circolo tutto un sistema conoscitivo pluridisciplinare di giudizi di valore che se applicato con scrupolo dal soggetto sbevazzante può figurare da metodo di inquadramento oggettivo del problema risultando alla fin fine pure quale approccio abbastanza scientifico se vogliamo – la scienza del bevitore di coscienza – o quantomeno funzionare da bussola d’orientamento su un caotico oceano mondiale di vini, di produttori, tecniche di vinificazione, filosofie produttive, scuole di pensiero enologiche, rese per ettaro, sistemi d’allevamento, sesti d’impianto, tipo di potature, lavorazione dei suoli, sperimentazioni d’affinamento, prove di macerazione, pratiche biodinamiche.

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Rilievo Gallo-Romano
Man hauling barrels to:from ship in a port (France mid 17th century)
(Francia metà del XVII secolo)

Un metodo funzionale di difficile puntualizzazione che non può essere codificabile perché ogni codificazione col tempo irrigidisce delle verità passate che diventano equivoci al presente se non addirittura bugie future: astruse regolette di scuola che si cristallizzano su se stesse perché certe verità non si insegnano ma vanno imparate singolarmente sulla pelle – possibilmente la propria -, tutta a favore dell’esperienza personale, della conoscenza incarnata e del riconoscimento con distinzione chiara e quasi sicura del verace ben separato dall’inautentico.mostra1Si tratta cioè infine di ricercare la verità fluida – stiamo sempre parlando del vino vi ricordo – la complessità in movimento di un cristallo perennemente in corso d’opera, sempre sull’atto di formarsi perché così è anche la nostra propria natura animale: deforme prima, uterina poi quindi man mano più o meno umana, grezza, sofistica, civilizzata, fallibile cioè in fase di crescita fino al deperimento terminale… una vita insomma che al pari di tutte le vite animali si sforma nuovamente con l’avvizzimento dei tessuti per giungere al decesso organico definitivo.

Geografia, agronomia, antropologia, geologia, storia, ampelografia, chimica, cosmologia, botanica, mitografia, epistemologia, tradizione orale, tecnologia, poemi epici… di quante discipline, di quanti saperi di quali linguaggi è sintesi la trasformazione fermentativa d’un solo chicco d’uva?

Ulisse e Polifemo nella grotta del ciclope - mosaico nella Villa del Casale di Piazza Armerina
Ulisse e Polifemo nella grotta del ciclope – mosaico nella Villa del Casale di Piazza Armerina

Ulisse con due occhi è l’eroe dell’intelligenza e dell’astuzia, Polifemo con un occhio solo è invece il cannibale mostruoso dalla brutalità e dall’istinto selvaggi.
Ulisse per accecare il Ciclope con un grosso ramo d’ulivo appuntito, lavorato al fuoco, deve però prima far ubriacare il gigante antropofago.
La forzatura metaforica viene quindi spontanea: Ulisse è il portavoce epico della razionalità, della ragione ordinatrice che per provare a se stessa la propria supremazia sul caos della natura ma soprattutto per completarsi ha necessariamente bisogno di competere contro di sé e contro una potenza maggiore. Deve misurarsi con l’impulso incontrollato della forza cieca espressa dal Ciclope portatore d’ottusità, fredda indifferenza e spietatezza, tanto da abbattere con le armi affilate della ragione imperialista il mostruoso Polifemo per superare così con orgoglio da conquistadores del Mediterraneo, con presunzione da pioniere proto-colonialista i propri oltraggiosi limiti umani troppo umani.

DamijanTutto questo excursus omerico assieme ad Odisseo al di là del limite storico-geografico delle colonne d’Ercole, mi riporta quindi dritto dritto alla frase sboccata a caldo dalle viscere dell’amico carissimo Damijan Podversic, viticoltore nel Collio, mentre proprio poco tempo fa si discuteva assieme tra casa sua, la vigna e la cantina, si ragionava dei massimi come dei minimi sistemi attorno al cosmo dell’uva, delle macerazioni medio-lunghe, del perfetto (o perfettibile) grado di maturazione dei vinaccioli, della fermentazione spontanea, delle temperature di cantina:

L’uomo è un cretino e la vite se ne sbatte le palle del vino perché la sua natura profonda, il suo temperamento botanico è solo quello di gettare a terra il seme per rigenerarsi. Il vino, anche se è la più spirituale delle droghe, è tuttavia solo una droga creata dall’uomo e per l’uomo il quale nel cerchio dei 365 giorni di un anno non può far altro che sbagliare“.

Ma è proprio in questo “sbagliare” aggiungerei io, nel commovente tentativo di arginare questo caos, nella forzatura ostinata e nel non evitabile margine d’errore umano è proprio qui che andrebbe quindi riconosciuta la mania dell’animale-uomo d’avvicinamento ossessivo alla perfezione – che è già questa, mi pare, una qualche lieve forma di perfezione. Siamo cioè sempre impaludati, ancora dopo secoli, nel dualismo cartesiano della res extensa e della res cogitans da cui non ne veniamo fuori se non talvolta, per pochi momenti, in quello stato d’effusione e di fusione alla natura proprio attraverso l’ebbrezza che il vino ci da’ e il vino ci toglie a suo buon cuore. L’animale-uomo dunque, eroe e cretino allo stesso tempo, aggregato indissolubile di sacrificio e di spreco, estremi irrimediabili di civiltà e selvatichezza, Polo Sud di materia e Polo Nord dello spirito.

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people the art of viticulture and wine production (3rd c AD, Paphos, Cyprus)
Mosaico Romano dalla Casa di Dioniso, rappresenta la leggenda di Dioniso che insegna agl’uomini la produzione del vino e l’arte della viticoltura (III sec d.C., Paphos, Cyprus)

Possiamo allora da qui, per redigere un approssimativo bilancio a queste divagazioni da vinosofi irrazionalisti, possiamo provare a sostituire Polifemo alla pianta che genera l’uva – la vite che è resistenza gigantesca, istinto rigenerativo puro – quindi rappresentarci dei tanti piccoli Ulisse negl’uomini e nelle donne che da millenni ne coltivano il frutto con l’astuzia opportunistica, il senso del dovere, la razionalità calcolatrice, lo spirito di sacrificio generazionale, la manipolazione tecnica e l’intelligenza regolatrice tanto da produrre poi quella merce artificiale-naturale-soprannaturale a seconda di chi la fa, di dove la si fa e di come la si fa, denominata VINO, nutrimento sacro allo spirito oltre che al corpo. Il vino, bevanda prodotta appunto dall’uomo e dalla donna, droga sociale ad uso esclusivo proprio dei commerci degl’uomini e delle donne i quali alla fin fine poi sempre attraverso il vino, se usato con equilibrata sobrietà – ma qui ci sarebbe da chiedersi se non sia nella natura più intima e malevola del vino anche l’abusarne proprio al fine di “squilibrarsi” -, quegli stessi eroi cretini d’uomini e donne raggiungono a seconda dei casi d’ubriachezza più o meno molesta una dimensione quasi sovrumana cioè a dire divina in cui l’Ulisse femmina e l’Ulisse maschio nostri simili diventano un tutt’uno di scaltrezza e di forza amalgamandosi alla perfezione – o alla quasi perfezione cui follemente sempre tendono – per completarsi col loro nemico più mortale cioè con Polifemo stesso.

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Heinrich Fussli, Polifemo cieco seduto all’ingresso della sua caverna