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L’Arte di Fare i Vini d’Imitazione

5 Gennaio 2017
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L’Arte di Fare i Vini d’Imitazione

L’alba della manipolazione/falsificazione enologica con monsieur Joseph François Audibert e il suo trattato di fine ‘800 sui Vini d’Imitazione.51HKPjLVksL

Il segreto di fabbrica era – è ahimè ancora oggi – tutto nell’usare uva passa, vino del Sud da due soldi e aggiunte massicce di zucchero + additivi chimico-farmaceutici et voilà, les jeux sont faits!

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Scene da una cena natalizia con gli amici

29 Dicembre 2016
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15747849_1896871040541120_2470786223121911986_nIl crudo di mora romagnola dell’Agricola Ca’ Lumaco (Montetortore nel comune di Zocca) richiama necessariamente un goccio di carnoso e sgrassante Cristal rosè meglio se del millesimo 2000 o giù di lì.

15740965_1896871027207788_2382599301715733300_nCome direbbe Osho: “che ce voj fa, i simili attraggono sempre i simili!”

Liquefazione e vaporizzazione del solido in un incenso per la mente.

  • “Sua Maestà il Nero” è una selezione di parmigiano stagionato 10 anni del caseificio Pieve Roffeno.
  • 15747369_1896410500587174_8464287199076340106_nComtes de Champagne millesimo 1990 è il Blanc de Blancs di casa Taittinger nato per celebrare il signorotto della Provincia Thibaud IV che nel XIII secolo fece piantare le prime vigne di Chardonnay.

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Luminosità e sostanza a confronto in versioni magnum.

L’armonia degli opposti agl’antipodi geografici, dalla spremitura delle uve al vino nel bicchiere entrambi in abbinamento su pasta e ceci ancestrale, ricetta della nonna di chef Luca Fracassi.fullsizerender-copy-14

  • Etna, az. Agricola Frank Cornelissen – Susucaru 2013 VI edizione. Uvaggio di varietà autoctone e non del versante nord dell’Etna, bianche e rosse, non solo Nerelloo Mascalese, ma Moscadellla, Carricante, Insolia, Malvasia, Moscato nero etc. [Quintessenza di lamponi, asprezze d’alta montagna, beva succulenta, luce dell’alba tra neve, magma e mare.]
  • Oslavia (Gorizia), Josko Gravner – Ribolla Anfora 2003. [Nitidezza imponente, maturità eccelsa non ulteriormente perfettibile, sorso sacro, luce spirituale al tramonto affiorata da un’icona dell’arte russa antica].

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Mario Antoniolo Gattinara 1961

27 Dicembre 2016
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Mario Antoniolo Gattinara 1961

..il purpureo liquido che allieta il cuore dell’uomo. 

(W. H. Hudson, La Terra Rossa)

Un Gattinara del 1961 di Mario Antoniolo dai vigneti Osso e S. Francesco della Torre da “..mescere con delicatezza onde evitare il rimuoversi dell’eventuale sedimento”.

Rosso rubino rovente, polposo. Ordito inscalfibile della stoffa polifenolica, spirito combattivo d’un eroe di guerra finalmente in pace con se stesso. Vino sopravvissuto a 55 (cinquantacinque) anni d’aspre battaglie contro l’amico/nemico di sempre: l’ossigeno!15241776_1897054773856080_1905151214722864914_n

López de Heredia – Viña Tondonia Blanco Gran Reserva 1987

22 Dicembre 2016
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fullsizerender-copy-14López de Heredia – Viña Tondonia Blanco Gran Reserva 1987.
30 anni è un tempo geologico imponente per un vino rosso in generale ma per un bianco la frattura temporale si misura addirittura in anni luce. 15622052_1892820857612805_4854675223939699277_nEppure in questo uvaggio della Rioja (90% Viura, 10% Malvasia) proprio la luce affiora molto più che il passare del tempo inesorabile.
Immaginate di bere una lacrima di miele cristallizzata dentro una noce, come il fossile trattenuto da milioni di anni in una gemma d’ambra.fullsizerender-copy-15Pranzo da Roscioli ai Giubbonari.

All’antipasto ha rischiarato l’accompagnamento con sardinillas e caprino fresco, cui ha fatto seguito il fusilloro Verrigni agli scampi conditi con un filo d’oro – lapsus – un filo d’olio, extravergine d’oliva Valentini. Abbinamento cromatico-olfattivo-gustativo di una compiutezza impenetrabile tutta da ammirare estasiati, risucchiadola dentro di sé in un festoso, in un devoto silenzio enogastronomico.
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Alla Ricerca del Tempo Mai Perduto e Sempre Ritrovato da Roscioli

19 Dicembre 2016
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Alla Ricerca del Tempo Mai Perduto e Sempre Ritrovato da Roscioli

Un caro amico di Milano scende giù a Roma in treno. Intanto che lo attendo al Mercato Centrale, poppo a cannuccia un centrifugato disintossicante di carote, sedano, mele e zenzero seduto all’ombra proustiana della Cappa Mazzoniana in fiore, cioè addobbata a Natale. Nell’attesa leggo anche sul cellulare – stramaledetti tempi digitali – questo malinconico pezzo di Belpoliti sul Fuggire da Sé e sull’Arte di Scomparire, pubblicato in Doppiozero.

Farà forse sorridere o piangere d’amarezza più di qualcuno a seconda dell’arguzia o della sagacia di chi legge, ma sono effettivamente pre-natalizie e proustiane le meditazioni che mi affliggono il retro teschio, proprio tra cervicale e osso sacro.

Lavoriamo continuamente per dare forma alla nostra vita, ma copiando nostro malgrado, come un disegno, i lineamenti della persona che siamo e non di quella che ci piacerebbe essere. Marcel Proust

Penso difatti a come non si possa mai sfuggire alla gabbia della propria personalità pure avendone consapevolezza massima, e hai voglia tu ad arrampicarti sugli specchi rotti della cella, rischi solo di squarciarti a sangue. L’insidia massima di questa trappola dell’io è che una volta trovata una via di fuga, ci si accorge immediatamente che il fuori è pari pari al dentro, esattamente identico all’isolamento della propria monotematica personalità dalla quale si sta scappando con affanno esistenziale. Allora – aspetto ancora l’amico Flavio da Milano – aspiro il centrifugato di carote, sedano, mele, zenzero mentre rimugino risposte improbabili rivolte tra me e me, in merito alle perplessità incalzate da À la Recherche Du Temps Perdu sulla persona che siamo o su quella che vorremmo, forse, essere.5415337694_239fb12454_b-1Lo slogan appropriato del Mercato suona così: il Cibo è Elementare che ben s’accorda, guarda un po’, alla categoria nel mio sito intitolata: Generi Elementari.

Roberto Liberati, Gabriele Bonci, Stefano Callegari (Trapizzino), Martino Bellincampi (Pastella), Beppe e i suoi Formaggi.. questi solo alcuni nomi degl’artigiani-imprenditori-buongustai personalmente presenti con un proprio spazio commerciale al Mercato Centrale, ognuno dei quali è Mastro d’Ascia nel proprio specifico ambito d’impresa alimentare: carni, pane, pizza, fritti, latticini etc.
fullsizerenderSiamo a pranzo ai Giubbonari da Roscioli, dove altro sennò?

È il tempio della gastronomia capitolina. Per quanto possa tangere a qualcuno, è stato anche il mio regno di formazione umana, educazione caratteriale e battesimo professionale per oltre un lustro. Ogni volta, come fosse la prima, attraversare le porte di questa vorticosa gastronomia-con-cucina è una festa delle papille gustative, un tripudio di brame mangerecce, aggiungendo nel mio caso specifico anche un profondo impatto affettivo viscerale.fullsizerender-copy-2Volti, gesti, personalità e nomi di ex colleghi di lavoro ma soprattutto, legami umani, amici di lunga data: Giusy, Manu, Nunzia, Daniel, Nabil, Maurizio, Sandrino, Ale (il Meneghino), Bianca, Errichetto, il maestro Sepe.. e ancora Valerio, Salvo, Cristiano, Tommasino che hanno intrapreso altre strade sempre nell’ambito dell’eccellenza eno-gastronomica. I tanti amici e colleghi cioè con i quali so benissimo di aver condiviso un pezzo di vita intensa che è un flusso d’energia viva a sé stante, in continua evoluzione pure nel trascorrere degl’anni o intrecciando affinità e legami da distanze lontane, in qualsiasi altra parte del mondo ci si ritrovi ad essere ognuno con la propria identità definita.

fullsizerender-copy-3Roscioli è uno stato d’animo che predispone ai ragionamenti filosofici fatti con lo stomaco. È un affresco d’umori, un mosaico d’amori prolungati e odi brevi. È una fusione-confusione di registri vocali, un impasto d’argot, un fitto intercalare romanesco fatto d’ammiccamenti, tormentoni, gesti, parodie, tic fonetici, suoni labiali, sfottò.. che esprimono tutto un universo prelinguistico paracul-sentimental-emotivo.

fullsizerender-copy-4 Roscioli è un’enciclopedia delle materie prime edibili/potabili, un indicatore d’energie della forza-lavoro che registra le temperature caratteriali d’ognuno di noi esseri umani troppo umani: dalla distensione alla tensione, all’ilarità, al rancore, alla beffa sorniona, al risentimento, all’accoglienza generosa, alla scontrosità fulminante – meglio detta: boccia calla – all’ospitalità, al calore umano, al sorriso, alla sostanza verace e alla natura profonda delle cose enogastronomiche. Roscioli insomma è un palcoscenico degl’alti e bassi della vita, un Theatrum Mundi con tutte le sue luci ed ombre, che si rinnova ogni giorno dall’apertura alla chiusura della cassa.fullsizerender-copy-5È un Atlante Alimentare, un pastiche ingegnoso di tutto lo scibile relativo alle farine, ai salumi, ai formaggi, alla conserviera ittica, ai prodotti tipici regionali, ai vini. Una sontuosa bottega di generi alimentari dove si servono ai tavolini o si trasformano direttamente in cucina le materie prime in vendita al banco gastronomia e sugli scaffali. Un mistero antropologico, un ricettacolo d’umanità varia che è soprattutto una trama composita di slang professionali come il gergo da carbonari del pizzicarolo d’antica matrice norcina che i gastronomi dietro al bancone si scambiano indisturbati fra loro per trasmettere “oscure” comunicazioni interne di servizio, transazioni d’ordini, gestione clienti. Tanto per intendersi, segue un minaccioso stralcio d’alcuni esempi tratti dalla glottologia norcina:

cofice/rospice, alluscare, ciafro/ciafra, sfolioso, bandiera, confornorio, fiorucci, gricio, sercio, rafagano, rinterzo

Prima o poi compilerò anch’io il mio: Gerghi della Norcineria ispirato al bellissimo I Gerghi della Mala scritto da Ernesto Ferrero.

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https://www.naturadellecose.com/ernesto-ferrero-i-gerghi-della-malavita-dal-500-a-oggi-arnoldo-mondadori/

Qualche fettina della profumata culaccia Rossi affettata finissima, pizza bianca fragrante dell’alchimista-lievitatore supremo Pierluigi Roscioli – Piergiggetto per gl’amici – appena sfornata dal forno adiacente in via dei Chiavari e calice fresco fresco di Delamotte, lo champagne d’entrata di casa Salon.
Nel frattempo seduti al Tavolo 2, condivido con l’amico Flavio i ricordi d’un pranzo memorabile cui ho preso parte anni addentro, mentre lavoravo proprio in questo reame del gusto. “Lavoravo… è ‘nparolone!”, veicolavo piatti piuttosto, intrattenevo clienti, “giravo bicchieri” per dirla come suggerirebbe il patron Oste Sandrino Roscioli il Re dei Burberi buoni.fullsizerender-copy-11Un giorno abbiamo avuto a raccolta tutti assieme in queste salette un manipolo di cuochi d’eccezione: Paul Bocuse, i Santini, Marchesi, Uliassi, Bottura, Cedroni, Esposito, Iaccarino, Cannavacciulo, gli Alajmo etc. a un certo punto si avvicina Gualtiero Marchesi e con un soffio di voce all’orecchio mi suggerisce quello che per me ancora oggi è uno dei più illuminanti insegnamenti Zen mai ricevuti da quando lavoro – “aridajee..” – nel settore:
Facciamo fare dei rigatoni burro e parmigiano, vediamo cosa sanno fare i ragazzi in cucina.

fullsizerender-copy-7Prenderò quindi i rigatoni “francescani” burro e parmigiano come da menu, Flavio invece ha strafogato il tonnarello cacio e pepe, che accompagniamo con uno dei Lambrusco di Sorbara del cuore: Leclisse di Paltrinieri (vendemmia 2015), sempre così succulento, beverino e calzante di cui un bicchiere non è mai abbastanza, per accostamenti ogni volta speciali su piatti freddi, tiepidi o caldi.

Poco prima come entrée di stagione, avevamo spazzolato ben bene due ovetti Paolo Parisi a testa, con sopra un’oculata spolverata del tuber magnatum pico disponibile, di provenienza sangimignanese sembrerebbe.fullsizerender-copy-6

A fine pasto, caffè Frasi nell’attigua caffetteria-pasticceria di famiglia.

Ecco, per terminare questo memoir Roscioli che spero sia venuto fuori abbastanza spontaneo e non troppo effimero, mi sento determinato proprio a partire da oggi, ho deciso cioè che – a rischio di scarabocchiare sgorbi, raffigurare abbozzi d’aborti e riportare continue cancellature di schizzi troppo astratti – ricopierò ogni giorno i lineamenti della persona che vorrei essere e non di quella che già sono, certo convivendo con l’ansia da prestazione giornaliera di scoprire alla fine con orrore che la persona che sono è già – mio malgrado – quella che mi piacerebbe essere.libro-big

Sancho Panza e Barbacarlo la Sostanza di cui è Fatta la Luce

14 Dicembre 2016
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Sancho Panza e Barbacarlo la sostanza di cui è fatta la luce

Nel 1637 Cartesio pubblicava La diottrica (La dioptrique) uno studio sui fenomeni dell’ottica, quali la rifrazione e la diffrazione.

[Nel 1665 viene pubblicato – postumo – il trattato “De Lumine” di Francesco Maria Grimaldi, gesuita con interessi per la fisica e l’astronomia.]

newton-manuscript-publish-007 Allo stadio attuale delle conoscenze acquisite sulla natura della luce, le teorie di Cartesio che implicavano comunque un movimento iniziale innescato da un qualche Dio, sono ipotesi oggi alquanto datate.

15326427_1889336961294528_8463715982241481170_nIeri sera, 13 dicembre del 2016, dopo 379 anni dal testo scientifico di Cartesio, sorseggiando:
• Vino Bianco Sancho Panza 2013 (Igiea e Guido Zampaglione – Tenuta Grillo)
• Vino Rosso Barbacarlo 1996 (Lino Maga)
ho compreso qualcosa di più circa la sostanza di cui è fatta la luce che si propaga nel mondo con moto ondulatorio. Ho forse colto meglio il senso della sorgente di luce che si frange e riflette da un corpo all’altro dello spazio racchiudendosi in un’essenzialità di bevanda spremuta nel tempo da grappoli raccolti al fine di distinguere buonissime uve a bacca bianca e bacca rossa.fig-493397

Dieta Kasher E Filiera Alimentare

12 Dicembre 2016
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Ogni uomo dovrebbe essere educato a non essere distruttivo.

(Mishneh Torah, Hilchoth Melachim 6, 10)

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La Dieta Kasher come efficace modello d’indagine individuale sulla filiera alimentare

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Un libro che è una miscellanea di studi pubblicato nel 2015 da La Giuntina: La Dieta Kasher. Storia, regole e benefici dell’alimentazione ebraica a cura di Rossella Tercatin, ci offre spunti molto interessanti per riflettere su alcuni temi essenziali alla scienza gastronomica e all’enologia, soprattutto in materia di burocarzia formale, di certificazione bio, biodinamica, naturale, sostenibile. Di Denominazioni d’Origine Controllata-Protetta-Garantita, di trattamento, di processo tecnico, di trasformazione e confezionamento/imbottigliamento delle materie prime dal seme al prodotto finito.

Leggo nella presentazione della raccolta a cura di Giorgio Mortara :

“La dieta kasher e le norme della kasherut hanno ricevuto una crescente attenzione negli ultimi decenni via via che si diffondeva un po’ ovunque la convinzione che un continuo attento controllo di tutta la filiera alimentare, a partire dalla coltivazione e messa in commercio, garantisca la qualità del prodotto: una rigorosa etichettatura certificata permette di essere sicuri della natura degli ingredienti e conservanti presenti nella confezione anche a distanza dal luogo di produzione.”

fullsizerender-copy-4Il controllo della purezza o dell’impurità di un alimento è materia d’indagine affascinante che richiederebbe un approccio laico, multidisciplinare. Le questioni in gioco sono tante, enormi. Il nutrimento delle genti, il rispetto del bene proprio e di quello altrui, l’igiene pubblica/privata, lo stato di salute degli animali, l’inquinamento delle risorse idriche, la contaminazione dei suoli, l’ammorbamento dell’aria, la distruzione vegetale, la devastazione del territorio, la cura dell’habitat entro cui respiriamo, la prevaricazione della Tecno-Scienza sulla Manualità, il senso di fiducia o inaffidabilità nei confronti del prodotto-finito – sia esso industriale o artigianale – che si trova davanti ai nostri occhi, prima di essere ingerito dopo un tortuoso percorso nel ciclo della filiera produttiva che lo identifica da materia prima, in materia trasformata, a merce.

fullsizerender-copy-3Visto dall’esterno di una tradizione millenaria, osservato da una prospettiva prettamente agnostica d’impronta volterriano-illuminista – che è poi la prospettiva in cui mi sento più a mio agio – sono sempre stato affascinato dall’idea ebraica quindi dalla pratica alimentare kashèr (kòsher nella pronuncia aschkenazita). 

Kashèr significa che un alimento è permessoadatto alla consumazione così come stabilito nei principi fondativi della Torà e del Talmud. Leggi di comportamento codificate nei secoli che imbastiscono un sistema ferreo di regole necessarie fondamentalmente a cristallizzare il forte, profondo senso di appartenenza ad una comunità come quella ebraica, radicata a maggior ragione ancor più nello sradicamento dell’esodo e della diaspora millenari.

[Qui la lista delle regole relative al cibo nella religione giudaica].nypl-digitalcollections-bb9df2df-aab3-f2c8-e040-e00a180626d6-001-w La kasherut (casherut) è quindi, letteralmente, adeguatezza, ovvero l’idoneità di un cibo a poter essere consumato dal popolo ebraico. Animali permessi o proibiti, divieto del sangue e di certi grassi, modalità di macellazione e proibizione di uso d’animali sbranati o morti di morte naturale, divieto del nervo sciatico, mescolanza di carne e latte… I mashghihim (i supervisori) sono gli addetti all’analisi dei prodotti primari, i certificatoti della qualità kòsher attenti a controllare eventuali tracce d’impurità intercettate negl’alimenti (aromi o conservanti a base di animali “impuri” ad es.), presenza di parassiti o insetti. I mashghihim sorvegliano la produzione assicurando l’assenza totale di proteine del latte sui prodotti certificati parve (privi cioè d’ingredienti a base di latte o carne).ac6079c9e9ec21b08215a77a658d8fc4Questo senso di controllo della filiera genera nel pubblico dei consumatori più attenti, la percezione collettiva d’una garanzia di alta qualità e affidabilità del prodotto. Istituisce fiducia maggiore nei consumatori non soltanto di appartenenza religiosa o culturale ebraica, ma di tutti i gruppi etnici, in particolari di quelle popolazioni urbane ad altissimo rischio di salute pubblica (obesità, sovrappeso ed altri disturbi alimentari) sottoposte come sono allo stress della vita cittadina, agli alimenti e alle bevande chimicamente processati dall’industria, alla sottocultura dei cibi da fast-food a base di zuccheri raffinati e grassi saturi.

C’è un business molto solido dietro i cibi e i vini kosher soprattutto negli Stati Uniti, che genera fatturati impressionanti. Tanti sono poi gli enti certificatori, il più prestigioso, il più antico dei quali  è l’Orthodox Union fondata nel 1898.4125996_origÈ quasi impossibile non farlo, ma vorrei però non addentrarmi tanto nel merito teologico delle questioni bibliche o nell’ambito dei divieti dogmatici, delle diete e delle proibizioni di natura religiosa che possono aver presumibilmente avuto origine in ragioni d’ordine medico-giuridico-scientifico. Oltretutto, come in ogni faccenda umana, soprattutto in ambiti d’interesse commerciale dove la pressione economica è stringente e interessata essenzialmente all’utile monetario, per quanto disciplinati da regolamenti, principi etici e protocolli, ci sarebbe tuttavia sempre da valutare, a rischio di perdere per strada ogni ragione pratica, sulla qualità della verifica stessa, sullo statuto di verifica in sé, per quanto scrupolosa possa essere l’onestà di partenza dei verificatori della qualità alimentare. Cioè, a voler fare le cose fatte come si deve, si instaurerebbe un ingovernabile modello di controllo del controllo, un sistema di controllori dei controllori applicati alla verifica della verifica della verifica… senza fine.

fullsizerender-copy-2Certo però che il monito divino all’indirizzo d’Adamo ed Eva di non mangiare il frutto dall’albero della conoscenza è una parabola molto significativa che trasfigura in un divieto alimentare (dunque materiale) altre proibizioni di matrice morale o intellettuale (ovvero spirituale) come la questione del Bene e del Male, mettendo al centro dell’origine storica dell’uomo e della donna proprio l’atto naturale di nutrirsi, il gesto cioè così semplice eppure tanto complesso di conoscere, masticare e digerire il mondo attraverso la bocca, il palato, il gusto personale [rimando quindi alla lettura illuminante dell’antropologo David Le Breton, Il Sapore del Mondo. Un’Antropologia dei Sensi (Raffaello Cortina Editore)

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Le regole alimentari fanno parte di un più ampio gruppo di norme che riguardano il rispetto degli animali e la conservazione della natura perché l’uomo è considerato un collaboratore di Dio nella salvaguardia del creato.”

E ancora, come la citazione precedente, anche questa che segue è sempre di Riccardo Segni, Rabbino Capo di Roma, torna utile a ricordarci che il mangiare kashèr: “rappresenta un elemento essenziale della identità ebraica con il quale anche gli ebrei più lontani dall’osservanza si misurano in qualche modo. È un mondo di divieti e di attenzioni, ma anche di valori, di idee e di messaggi, in una prospettiva trasversale che va dal rapporto con la natura all’igiene, passando per considerazioni ecologiche ed economiche, di storia delle religioni e di rigore morale.”

Ora, in seguito alle riflessioni suscitate dagli schemi di controllo della dieta kasher, per concludere in merito alla gran confusione sul campo del biologico, del biodinamico, del naturale, del sostenibile soprattuto nel mondo del vino, partendo da questa domanda sempre aperta:

“(…) ciò che fa l’uomo è sempre meno salutare di ciò che fa la natura?”

propongo la lettura e rilettura di un articolo chiarificatore [leggi qui l’articolo] di Maurizio Gily [Mille Vigne] che mette vari pesi e contrappesi sulla bilancia dei ragionamenti cioè delle pratiche vitivinicole relativi ad una sana, consapevole economia agronomica. dfa8ca54c87136417742eb0eb52b0b9cPartirei quindi proprio da questa felice sintesi per cominciare a costruire – utopia delle utopie – un tetto comune sotto il quale potrebbero tranquillamente coesistere realtà aziendali, sottogruppi e filosofie produttive differenti ma tutte animate da un medesimo flusso d’onestà intellettuale; una consistente massa critica di vignaioli cioè, ispirati da un comune filo rosso di buon senso che sia veramente rispettoso dell’ambiente, della salute dei lavoratori nelle vigne e di quella dei consumatori finali.

Perché, alla fine dei conti, come insegna la morale kasher, siamo tutti dei piccoli anelli congiunti di una più grande catena alimentare che ci connette al regno minerale a quello vegetale e quello animale.fullsizerender-copy-6

 

 

Grandi Rossi su Tortellini d’Anatra Fatti a Mano in Brodo di Muscolo e Lingua

11 Dicembre 2016
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Un paio d’anni fa di questi tempi pre-natalizi, al Castello di Valenzano a cena con cari amici toscani.. questa la mia “personal choice” sulle 20 e + bocce sbocciate.
Al I posto su tutto e tutti: tortellini d’anatra fatti a mano in consommè finissimo di muscolo e lingua.. qui lo chef del Castello, Simone Brodoloninomen omen –  ha superato se stesso: puro orgasmo multiplo del palato fuso all’encefalo.

10440234_1598538387041055_9179276739854587876_nSeguono in ordine di gradimento decrescente*:

*Per dare la giusta misura del significato di ciascuna bevuta e dell’unicità d’ogni bottiglia di vino, bsogna puntualizzare che l’ordine di gradimento decrescente indica a grandi linee i sentimenti particolari di una sera nello specifico al netto di tutta una serie di variabili irreplicabili – umore personale, umore del gruppo dei degustatori, condizioni specifiche di temperatura, mantenimento e tenuta delle singole bottiglie – per cui a diverse condizioni ma a parità di annate e stesse tipologie di bottiglie riassaggiate oggi a distanza di due anni, la classifica di gradimento delle bottiglie potrebbe esprimere tutt’altra situazione.

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L’Industria del Consenso e la Manipolazione delle Coscienze

10 Dicembre 2016
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(…) siamo governati, le nostre menti plasmate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare prima. (Edward Bernays)

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Tecniche – o ingegnerie – del consenso e schizofrenia giornalistica.
Quant’appiccicume, quanta ambiguità in questa nostra vita sempre più manipolata dalla propaganda.unknown-5
Sulla stessa rivista ti puoi ritrovare a leggere una frase di Edward L. Bernays che già nel 1928 aveva capito tutto sulla fabbrica del consenso, poi prosegui con la lettura e nella pagina successiva ti si propone invece lo sponsor grossolano del proseccaccio di turno che spaccia e propaganda se stesso come per secoli ha sempre fatto l’oste che non può dir certo male del vino che lui stesso tracanna, decanta e vende. Sponsor monolitico che foraggia giornali e giornalisti. Propaganda bella e buona insomma che nel grande giro di giostra d’un’economia del totalitarismo monetario globale imbellettata di liberalismo, può permettersi il lusso d’acquistare lo Spazio Pubblicitario sul Settimanale Nazionale X, N, o Z poco importa, imponendo al lettore e al consumatore finale la propria tanto Gioiosa quanto interessata e quasi sempre per nulla interessante, Falsa Verità.

Biosfera Carussin. La Fattoria Didattica il Vino la Birra la Biodiversità l’Amore Cosmico

8 Dicembre 2016
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Biosfera Carussin

La Fattoria Didattica il Vino la Birra la Biodiversità l’Amore Cosmico

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Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone!

L’onnipotenza della fragilità. Una contraddizione in termini perché quel che è fragile non suggerisce certamente l’idea d’onnipotenza eppure del rebus di questa apparente incoerenza terminologica so che esiste una risoluzione non tanto immediata né cervellotica ma è una spiegazione di pancia. Lo scioglimento d’un nodo mentale che avviene attraverso il sentimento della terra profondo. La conduzione di precisi gesti quotidiani, lo sforzo autentico d’una comunità di persone-animali-cose che impiega l’energia fisica del proprio intelletto e delle proprie mani al fabbisogno del bene di se stessi ma a buon uso di tutti.000001L’onnipotenza della fragilità. Non saprei spiegarlo altrimenti ma questa stonatura stridente di concetti, già al rientro in treno dalla visita di alcuni giorni nell’embrione Carussin, mi si è pian piano risolta dentro. Mi si è armonizzata interiormente non tanto a ragionamenti astrusi, a monologhi senza fine, ma sub specie aeternitatis di fatti, d’incontri con le persone, d’osservazioni dal vero delle attività in vigna in cantina a tavola, di conversazioni a più voci, d’assaggi, d’abbracci, di sguardi, di sorrisi, d’attitudini condivise al ben fare o meglio al fare il bene.00002Ecco, io ora non ricordo più tanto bene con esattezza dalla bocca di chi è uscita questa saggia sentenza: “Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone“. Se dai discorsi intorno alla tavola con qualcuno dei canuti sapienti che orbitano l’emisfera mistica di Casa Carussin; se nella cantinetta accogliente di Nonno Gino che ci stappa una bottiglia d’uva Cortese pressata col cuore, un bianco genuino che sa tanto di continuità, di semplici e buone maniere, sa di mura protettive della casa degl’avi.

Insomma non ricordo più chi ha pronunciato la frase: “Se non assaggiano le cose buone, non possono fare le cose buone” ad ogni modo è un verdetto decisivo che rende conto perfettamente della tempra etica e dell’humus naturale che ritroviamo in questo angolino dell’astigiano a San Marzano Oliveto. Una parcella di compiuta umanità integrata alla vita dura ma sana di campagna, che s’affaccia sui traffici superflui delle città oltre le quali s’intravede la corona di spine d’oro delle alpi.fullsizerender-copy-5Nei miei progetti futuri c’è un bosco. Un isolotto di piante nascosto tra i colli del nostro Monferrato. Sarà quel bosco là, il mio buen retiro.” Questo Bruna – lo sguardo vivo d’eterna sognatrice focalizzata alla meta – mentre mi mostra la sacra, la verde lontananza del suo paradiso silvestre realizzato o in via di realizzazione. E allora ripenso alle riflessioni dello storico dell’ambiente Piero Bevilacqua su La Terra è finita, quando in merito all’insostituibilità della Natura e delle sue risorse, alla domanda:

“Come si fa a calcolare il valore economico di un bosco?”0000000

Questo è quanto  risponde il Bevilacqua:

“Esso [il bosco] infatti non è soltanto una massa di legname vendibile, ma un paesaggio da ammirare, è il manto che protegge le montagne dall’erosione e dalle frane, è il serbatoio che raccoglie le acque piovane e le trasforma in sorgenti, è il produttore di ossigeno per le popolazioni, è il moderatore locale del clima, è la sede degli uccelli, degli animali selvatici, di tante piante che custodiscono la biodiversità della Terra.”

0Sono mesi che mi giro e rigiro tra le dita impacciate il cubo di Rubik del microcosmo Carussin, senza giungere mai a una risoluzione soddisfacente. Quando completo un lato del cubo, se ne disfa subito un altro. Non è mai semplice dare conto della complessità di un ambiente umano e di un contesto territoriale soprattutto quando le due cose sono così inscindibili, fuse sulla fiamma in un sistema frattale al fuoco dei sentimenti, che assorbe variabili molteplici d’elementi originari quali l’aria la terra l’acqua.frattale1Insomma parto subito col dire che Carussin è un’isola di libertà campestre, ma anche una nave scuola d’enologia empirica dove tutti a turno insegnano ed imparano a navigare sui flutti in tempesta della vita.

Carussin è un dodecaedro della mente e del cuore. È una Fattoria Didattica dove si prova a ricucire la conoscenza imbarbarita del cittadino, riconnettendola al suo tessuto culturale di fondo che ha origine nel mondo agreste, negl’usi e costumi contadini del nostro Bel Paese. Usi e costumi intesi in un’ottica d’impegno civico, con un’attitudine di vera passione educativa e non quale tristanzuola trovata di certo marketing che fa folklore e colore depauperato di storia, senza più sostanza né radici. Un falansterio utopico dove si realizza all’atto pratico il sogno di Fourier preso nei suoi elementi idealmente migliori. Una fucina dove si attuano sogni in pura spontaneità, alla mano e senza troppe chiacchiere fumose.Processed with Snapseed.
Carussin è di fatto un laboratorio educativo sempre in fermento – oltre al vino e alla birra nella doppia cantina – è un indotto d’idee realizzate sul campo. Come Grappolo contro Luppolo ad esempio, l’Argibar interno alla fattoria gestito con rara competenza e sorridente joie de vivre da Valentina Cucchiaro, emigrata da Roma in Monferrato. Carussin è sì una famiglia tradizionale molto radicata nel territorio ma è altresì un crocevia di partenze e d’arrivi, una rete virtuosa eppure virtuale le cui maglie sono strette alla comunità d’appartenenza che sono altresì tanto allargate al mondo. L’emisfero Carussin è perennemente aperto alle innovazioni della comunicazione tecnologica. È sempre qui difatti che si applica a meraviglia il sistema del woofing che porta direttamente dentro la casa-azienda-universo Carussin un flusso d’energia giovanile davvero notevole – elettricità mentale e ardore di braccia provenienti da ogni angolo del pianeta – uno slancio di vitalità creativa, di forza lavoro, di collaborazione intellettuale e di contributo manuale che non credo abbia eguali al mondo.

Sarebbe troppo lunga, ma avrò modo in una prossima occasione d’approfondire il legame professionale che da solo fa terroir. Quella costellazione di relazioni cioè che intessono e danno il senso ultimo di una comunità assieme a tanti altri produttori di zona, amici d’avventura e colleghi vignaioli, formaggiai, fornai, pastai (il mitico Mauro Musso della Casa dei Tajarin), allevatori, salumai e tanti altri artigiani d’assoluta sostanza e pregio.

fullsizerender-copy-2Il Cosmo Carussin, – che è anche un Caos programmato nei minimi dettagli – è composto di tanti pianeti, asteroidi, galassie in movimento che ruotano attorno alle stelle fisse che risplendono lampi d’amabilità, tatto, competenza e una cortesia antica, un’accoglienza all’avanguardia. Queste stelle d’uomini e donne sono: Bruna Ferro, Luigi, Luca, Matteo e Nonno Gino Garberoglio, Donna Irma, Mamma Vanda, Zio Angelo, Valentina…00000000E poi ci sono le 10 stelle mobili degl’asinelli, ognuno con una propria attitudine psichica, una propria impronta caratteriale: Brunella cioè Nella è il capobranco, regalo di Luigi a Bruna di qualche San Valentino fa. Sileno come il Dio degl’alberi figlio di Pan. Diavolo Rosso detto Dindo (Diavolo Rosso in omaggio al grande Gerbi ciclista d’Asti di cui si racconta portasse Barbera in borraccia altroché acqua). E ancora Amedea, Valeria, Eifù (nato il 5 Maggio), Sciuri (d’origini sicule), Rodolfo Valentino (il cui nonno era uno stallone bellissimo di stampo della razza Ragusana), Cerere, Elettra (quest’ultima,  come nella mito greco, è il frutto di un incesto tra fratello e sorella).

00000000000È molto difficile comprendere se e quando un asino si sente poco bene. Hanno talmente radicata nel patrimonio genetico la sopportazione alle fatiche e al dolore, che non si lamentano neppure per manifestare la loro sofferenza. Certo, se non è per gioco o riposo, è sospettoso vederli stesi a pancia in giù, ma è proprio così che fanno restando immobili, ottimizzando al massimo le loro forze e, come aggiunge Bruna con amorevole cognizione di causa: “mettendosi in ascolto di se stessi.”

[Clicca qui per approfondimenti sull’onoterapia, un link all’associazione abruzzese del dr. Eugenio Milonis: Asinomania di Introdaqua nei pressi di Sulmona]hero_eb20040319reviews08403190305ar fullsizerender-copy-6A proposito di tessuto culturale, ricordo a tal proposito uno straordinario capolavoro della cinematografia occidentale il cui protagonista è proprio un asino: Au Hasard Balthazar film del 1966 di Robert Bresson che racconta essenzialmente per immagini la crudele parabola “dell’asino che assiste alla tragedia umana attraverso una rassegna esemplare dei vizi capitali, destinato ad essere testimone di ogni peccato e che espierà, incolpevole, ogni colpa.fullsizerender-copy-4Oppure, per rimanere in tema di grande letteratura universale pur restando sempre in Piemonte, rimando a pagine altrettanto strazianti quanto il film di Bresson. Sono pagine ricavate dall’Antologia Personale di Primo Levi, La Ricerca delle Radici, che nel paragrafo intitolato: La pietà nascosta sotto il riso, rivolge ai lettori parole cariche d’un tormentoso significato. Sono parole amare quelle di Levi che vanno lette in retrospettiva, coscienti dei travagli subiti da lui in prima persona sulla sua pelle di sopravvissuto. Parole-sferzate che esprimono una lacerante esperienza di sopruso, di lotta e resistenza a quel tritacarne d’uomini e donne che fu Auschwitz. È una mezza, densissima paginetta dedicata all’architettura poetica dei sonetti del Belli, in special modo al sonetto Se more che tratta proprio di un asino, poveretto anche lui come Balthazar, da cui “(…) si ricava una severa lezione morale da un capovolgimento: l’uomo, qui è crudele e stupido «come le bestie», è un balbuziente mentale, incoerente e feroce; l’asino muore una morte da martire.”uch09-lg

Se more1

Nun zapete2 chi è mmorto stammatina?
È mmorto Repisscitto,3 er mi’ somaro.
Povera bbestia, ch’era tanto caro
da potecce4 annà in groppa una reggina.

L’ariportavo via dar mulinaro
co ttre sacchi-da-rubbio de farina,
e ggià mm’aveva fatte una diescina
de cascate, perch’era scipollaro.5

J’avevo detto: nun me fa6 la sesta;
ma llui la vorze fà,7 pporco futtuto;
e io je diede8 una stangata in testa.

Lui fesce allora come uno stranuto,9
stirò le scianche,10 e tterminò la festa.
Poverello! m’è ppropio dispiasciuto.

20 aprile 1834

Note
1 Si muore.
2 Non sapete.
3 Repiscitto, o ripiscitto, è l’ordinario soprannome che si dà ai villanelli.
4 Da poterci.
5 Cipollaro: aggiunto di cavallo o di asino che abbia vizio d’inciampare.
6 Non mi fare.
7 La volle fare.
8 Gli diedi.
9 Starnuto.
10 Le gambe.

biBruna ci tiene moltissimo a sottolineare che, senza nuocere a nessuno, l’onesto lavoro di campagna per l’autoproduzione d’una sana economia agricola familiare indirizzata ad un bene comune e non soltanto ad un interesse privato, vuol dire innanzitutto “una continua ed instancabile evoluzione mantenendo però, ben presente e tangibile, l’obiettivo del benessere dell’uomo, un benessere fisico, empirico ed emozionale (…) perché il territorio va’ vissuto non usato!” 0003Processed with Snapseed.Così mi dice ancora Bruna con cui sono pienamente d’accordo, mentre discutiamo in merito alla feticizzazione inautentica del vino e all’ideologia imperante della monocoltura intensiva della vite che causa uno scollegamento totale con la produzione agricola e con la vitalità campestre che invece andrebbero intese quali organismo vivente delicato e a misura quanto più umana possibile. Il vino è solo una piccola parte dell’espressione inestimabile di una policoltura di sussistenza in armonia con se stessa, che sia – nel rispetto del buon senso di tutti – quanto più responsabilmente sostenibile, autosufficiente, consapevole. “Perché, la consapevolezza del bene comune, è la parte di un tutto e passa attraverso il lavoro di ognuno, qualsiasi esso sia.” 

Non per niente Bruna – con spirito critico ma sempre con rispettosa simpatia – quando gira per fiere o per degustazioni, ci tiene quasi più a mostrare le schede tecniche dei suoi asini che le schede dei vini. “È una forma di divertita protesta soprattutto nei confronti del mondo dei vini naturali dove vige fin troppa confusione, lotte intestine, disaccordo tra produttori, rivenditori e consumatori finali.

000000000

Che dolore quando ho fame, che gioia quando mangio.

Fede incondizionata, affinità assoluta allora per Carussin Bruna Ferro, per  suo marito Luigi Garberoglio, per i suoi figli Luca e Matteo e la loro silenziosa, pacifica rivoluzione agricola.
Le loro Barbere, il loro Moscato d’Asti – versione secca e dolce – sono poemi epici consacrati alla civiltà contadina: vini buoni, accoglienti e sinceri proprio come chi li fa. Qui in fattoria dove sono stato mesi fa e dove non vedo l’ora di ritornare. Qui, in ogni loro calice di vino bianco e rosso, scopro e riscopro ogni volta il ruolo centrale della relazione tra persone, piante e bestie connessi all’infinitamente perfezionabile sistema nervoso della natura che è pur sempre un flusso evolutivo di T-R-A-N-S-I-Z-I-O-N-E abbracciato all’essenzialità del mondo minerale-animale-vegetale.

[Qui il link ad una ispirata pagina di Fabio Rizzari sull’entaglement quantistico della biosfera Carussin].00214462796_1847902695437955_6952374076966534372_n

[Invece, rimando qui di seguito ad una precedente recensione sempre su queste pagine, alla categoria: Il mio goccio quotidiano. Il vino come volontà etica e rappresentazione estetica del mondo]

IV. La libertà di fare e disfare

Carussin è il nome della cantina, c’è dal 1927 a San Marzano Oliveto (tra Nizza Monferrato e Canelli). Devo ammettere che la prima cioè l’ultima volta che ho bevuto questa bottiglia ero un pizzico sospettoso e forse anche un po’ svagatamente impreparato.
Prima “scorrettezza” di questo vino è il tappo a corona;

seconda è un Nebbiolo da cui assai spesso in Langa si derivano costosetti, ingessatelli e talvolta alquanto datati pur se fin troppo modernoni: Barolo e Barbaresco;

terza è che, nonostante la potenza e il potenziale del vitigno – amichevolmente stappato come fosse una boccia di birra dozzinale – ci ritroviamo fin da subito nel bicchiere un felice vino già schiuso alla bevuta, pieno di vigore, ricco in polpa di pesca matura al punto, schietto di corpo e colore molto ben predisposto nella struttura. Di piacevolezza sana, buona frutta succosa in odor d’albicocca spaccata in due sul ramo e questo – al di là dei privilegi del terroir – forse anche soprattutto a ragione delle assennate tecniche/pratiche d’agricoltura atte alla “umana” vinificazione: fermentazioni naturali, non filtrazione, nessuna solforosa aggiunta.
Avevo pensato tre titoli per questa recensione, ma ne ho usato un quarto:
I. Nobilmente semplice/Semplicemente nobile
II. Elogio dell’imperfezione
III. Disarmonia prestabilita

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Le Seppie e l’Enigma dell’Invecchiamento tra Crescita e Forma

6 Dicembre 2016
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Le Seppie e l’Enigma dell’Invecchiamento tra Crescita e Forma_thompson_tropfen_06

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A due giorni dal Referendum Popolare per la riforma costituzionale. Mentre il bel paesotto si divide et impera tra un #NO al Gratta e un #SI al Vinci, propongo alcune considerazioni evoluzionistiche in merito alla vana intelligenza dei cefalopodi – seppie, piovre, calamari – che nonostante abbiano il cervello fino, fanno vita assai breve.

Tra mutazione genetica, invecchiamento cellulare, ontogenesi e selezione naturale, questa è l’enigmatica metafora dei cefalopodi – piovre, seppie, calamari – dal cervello lungo e la vita assai corta (2 anni di media).

Da un interessante articolo di Peter Godfrey-Smith sulla Sunday Review del The New York Times intitolato: Octopuses and the Puzzle of Aging  (2 dic. 2016), estraggo questo passo in verde:

What is the point of building a complex brain like that if your life is over in a year or two? Why invest in a process of learning about the world if there is no time to put that information to use? An octopus’s or cuttlefish’s life is rich in experience, but it is incredibly compressed.” [Qual’è il senso di costruire un cervello complesso come quello dei cefalopodi, se poi la vita dura al massimo un paio d’anni? Perché investire energia in un processo d’apprendimento del mondo se poi c’è ben poco tempo per applicare le informazioni acquisite e portarle a buon fine? La vita di una piovra o di una seppia è molto ricca d’esperienze ma incredibilmente compressa.]

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Queste invece che seguono in rosso sono alcune mie considerazioni in merito alle tematiche della morfogenesi, dell’evoluzione biologica e della percezione del tempo fisico e psichico innescate dall’articolo del NYT, che andrebbero attentamente approfondite su testi ormai classici quali:

I have the impression that the author of the article does anthropomorphize a little too much the concept of time. The physical and mental time of the octopus could condense 200 years in just two years of our “human or psychic” time perception. To better explore the topics, we should compare the idea of ​​”Umwelt” in Jakob von Uexküll reviews,  to other research materials,  as for instance the two classic books by D’Arcy Wentworth Thompson and Alain Prochiantz. [Ho l’impressione che l’autore di questo articolo antropomorfizzi un po’ troppo il concetto di tempo. Il tempo fisico e mentale della piovra potrebbe condensare 200 anni del nostro “tempo psichico umano”. È qui d’obbligo un confronto con l’idea di “Umwelt” così come è stata teorizzata da Jakob von Uexküll nei suoi articoli scientifici, assime ad altro materiale d’approfondimento come ad esempio i classici testi di D’Arcy Wentworth Thompson e Alain Prochiantz].0003zi-9258

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Mercato dei Vini Fivi 2016 – Verticale di Barbacarlo – Incontro Lino Maga e Luigi Gregoletto

28 Novembre 2016
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Mercato dei Vini Fivi 2016 – Verticale di Barbacarlo – Incontro Lino Maga e Luigi Gregoletto

manifesto_tinyUltimo fine settimana di novembre, 26 e 27 a Piacenza per il Mercato dei vini FIVI, giunto alla sua VI edizione, organizzato dalla Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti.

Il mio coinvolgimento emotivo a questa splendida Fiera è non solo indiretto ma anche esplicito dato che l’omino con la barba in locandina magnificamente illustrata da Gianluca Folì, – così come mi faceva notare il bravissimo Davide Cocco di studiocru – sembro essere proprio io sputato nonostante non sono affatto io, giuro, e lo giuro sputando sui sassi come s’usava anticamente in terra di Sardegna stipulando un qualche patto d’amore o morte.1

La FIVI, che raccoglie ormai un migliaio di associati sotto la sua ala protettiva, traccia in fieri – non solo in fiera – alcune linee guida piuttosto chiare e distinte – cartesiane starei per dire – per quanto forse ancora leggermente generiche o un tantino amplie rispetto al coordinamento agroecologico e alla filosofia produttiva dei suoi associati.

Si tratta nello specifico di determinanti principi minimi, patti-chiari-amicizia-lunga intesi nel reciproco buon senso, nell’onestà intellettuale e nella pratica agricola di tutti i soci, senza dubbio affinabili nel tempo in termini d’autocontrollo amministrativo del gruppo e di gestione delle risorse interne in tema di sostenibilità, trasparenza di filiera e artigianalità. I pilastri fondanti della FIVI sono sicuramente suscettibili di perfezionamento man mano che il movimento accresce la sua portata etica e il suo consolidamento politico nel turbolento flusso internazionale del vino naturale o artigianale che dir si voglia. Questi semplici eppur complicati capisaldi sono limpidamente motivati nel suo manifesto associativo dove si reclama che il viticoltore aderente alla federazione: “coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta“.4

Ho visto carrelli per la spesa stracolmi di casse di vino, spinti da gente sorridente in vena d’acquisto critico e non compulsivo. Molto confortante anche ammirare lo scambio di bottiglie tra impetuosi produttori d’ultima generazione, un segnale effettivo quest’ultimo, che i vignaioli sono curiosi anche dei vini altrui – lontani o vicini – e non si soffermano più soltanto ad ammirare, odorare, celebrare i fiorellini del proprio orticello com’è, ahimè, uso di tanti produttori campanilisti con le bende sugl’occhi, i tappi sulle orecchie, le mollette alle narici.

Dopotutto i dati del post-fiera parlano chiaro. I due giorni del Mercato Fivi 2016 hanno visto sfilare 9.000 ingressi (50% in più d’afflusso rispetto all’anno precedente) e molti produttori presi d’assalto al banchetto tanto che già il primo giorno non avevano quasi più vino né da far assaggiare né da vendere.6

Dopo un viaggio infernale in treno la sera prima dell’evento, tra sciopero dei mezzi, alluvioni in nord Italia e guasto tecnico al treno, resto bloccato per ore alla stazione di Bologna. Smadonnando e sbraitando (sbraitando e smadonnando a vostra scelta) dalle ore 20 o giù di lì, si erano comunque fatte le 23 passate quando mi ritrovo sbarellato assieme a un altra sporca dozzina di pendolari con un ultimo treno-carovana in direzione Parma dove mi son trovato costretto a cercarmi un alloggio di fortuna al primo hotel fuori la stazione non essendoci in loco neppure un taxi figuriamoci a localizzare un car2go.

Raggiungerò dunque Piacenza il giorno appresso perdendo quel micron di fiducia che ancora riponevo in Trenitalia oltre che aver perduto anche i soldi della prima sera d’albergo prenotato sempre a Piacenza.

Questo che segue un frammento strampalato di sogno che riporto dal risveglio a Parma:

Magda per l’amor di Dio fermati!

Mi sveglio da quest’incubo in cui ero uno psico-degustatore compulsivo con ansie compilatorie schizoidi alla Furio di Bianco Rosso e Verdone:

<<420 produttori.. 3 etichette di media (per difetto) a produttore.. 1260 bottiglie totali di media (per difetto)..
Ipotizzo di avere 2 giorni d’assaggi per me a pieno regime.. no chiacchiere.. no ingombri.. zero distrazioni.. solo vini.. dalle ore 12.00 alle ore 19.00.. fanno 14 (quattordici) ore totali a disposizione.. 90 vini l’ora.. assaggi a catena di montaggio.. 630 vini il I giorno.. 630 il II..>>

7

Luca Ferraro ed altri parteciapanti mi hanno raccontato a cose fatte, che un momento di assoluta commozione generale condivisa da tutti i produttori adunati alla presentazione è stato il discorso di conferimento per il vignaiolo dell’anno a Luigi Gregoletto, che ha raccontato quanto segue:

“Dalla mia vita e dalle mie esperienze posso dire che la terra va rispettata, va amata, perché la terra è madre e sa ricompensare. Anche oggi che produrre molto è facile e produrre poco è altrettanto facile. Produrre equilibrato nel rispetto della terra, della sua conservazione e della qualità del prodotto, è molto più difficile. Ma sono convinto che questa sia la via da affrontare e sono altrettanto convinto che la terra non delude. La terra ti può fare meno ricco, ma sicuramente più signore.”

3

Ho avuto poi il privilegio di assistere all’incontro tra Luigi Gregoletto (70 vendemmie alle spalle) e Lino Maga (classe ’32), due capitoli centrali dell’avventurosa storia del vino italiano.. “una spremuta d’umanità” (citaz. Walter Massa). Due saggi del vino vis-à-vis da cui ho assorbito questa sacrosanta verità:

Le traversie, gl’ostacoli, i problemi… ci aiutano a vivere.

La verticale di Barbacarlo organizzata in una sala degustazione al Mercato Fivi il II giorno, cioè domenica 27 novembre, è stata l’apice professionale ed umano di un’incredibile due giorni d’assaggi, incontri, emozioni, abbracci, condivisioni dei punti di vista con colleghi, amici, produttori, consumatori, ristoratori.

Per quel che possa contare, i vini mi sono piaciuti tutti moltissimo, ognuno con la sua specifica impressione cromatica, identità olfattiva, tessitura gustativa. Il sorseggio in batteria delle sei annate, è stato accompagnato da una frase luminosa, da un tono di voce struggente mormorato su timbro basso, pronunciata a mezza bocca dallo stesso artefice del Barbacarlo (identica cosa tra l’altro che ho sentito mormorare con la medesima purezza d’animo e reverenziale umiltà del singor Maga Lino anche da Josko Gravner):

Faccio il vino come si faceva duemila anni fa.

5

  • 2011

Ancora troppo asciutto, ruvido, essenzialmente tannico. Un vino d’eccellenza cruda, che t’urla in faccia “dammi il grasso del prosciutto meglio stagionato in cantina, però quello più dolce e sudato..”

Asciuttezza e tannicità della 2011 ma con maggior spessore, finezza, potenza (s’avverte presumo, l’annata imponente). Un’austerità dall’anima odorosa in riposo nel calice, una genuinità di corpo dell’uva tramutata in vino che ti rende percettibile la grandezza sublime di questo vino nella prospettiva dei prossimi decenni (a dir poco).

  • 2009

Il vino meno caratterizzato della batteria. In fase di letargo sono sicuro. Quanto vorrei stapparne almeno uno ogni anno, tanto per seguire il percorso d’evoluzione, di formazione e crescita di quest’annata con più ordine filologico possibile.

  • 2007

Dolcezza perfetta. Dalle parole dello stesso Maga Lino o Signor Barbacarlo, so per certo che nonostante: “il mio vino non mi soddisfa mai”, la perfezione dolce dell’uva spremuta quando è raggiunta, – vuoi per temperamento dell’annata, vuoi per caparbietà del cristiano in vigna, casualità o fortuna, – è evidente poi che un miracolo di vino così strapperà un flebile sorriso d’intesa tra l’uomo duro e la sua terra, le sue viti ancor più aspre.

  • 2004

Il bicchiere dinamizza una complessità aromatica nell’aria attorno alle mie narici come fosse uno spettroscopio olfattivo: spezie esotiche, china, assenzio, rabarbaro, chiodi di garofano, infuso di genziana, bastoncini di liquirizia… un’annata di cui il perfezionista Lino Maga non è particolarmente soddisfatto – vi rendete conto? – che a me invece lascia in bocca un sentimento di tale bontà, succosità e bellezza, che mi vien difficile provare a farvi partecipi altrimenti a parole se non abbracciandovi in silenzio uno ad uno tutti – ma ci siete? – lettori giunti fin qui più o meno fedeli.

  • 2000

Pur se di annata difficile, altro monumento alla genuinità del succo d’uve fermentato a base di una composizione promiscua – come tradizione contadina comanda nell’Oltrepò Pavese in provincia di Pavia – della Croatina, dell’Uva Rara, dell’Ughetta (ovvero Vespolina) e forse anche della barbera.

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Verso la fine di quella che resterà incisa nella mia mente quale memorabile degustazione, ad un certo punto il confronto tra i due eroici contadini – eroi della terra – ha preso una piega un po’ malinconica, ha rintoccato cioè le campane di una mesta meditazione sulla morte, sulla malattia, sul mestiere di vivere, sul vanitas vanitatum d’ogni cosa, opinione e persona, adombrando a lutto – ogni tanto non può che farci bene – il pubblico di noi degustanti ossessivi e giratori di bicchieri seriali.

La chiosa finale, quasi fosse la massima di un severo filosofo francese del ‘700, è dello stesso Lino Maga in risposta alla domanda di Walter Massa: “Lino, cos’altro vuoi aggiungere per finire?”

Non ho niente da dire, se non c’è più niente da dire! (Lino Maga)

Una risposta che ritengo più dolce che amara – dolce il giusto, alla maniera di quei vini che lui il signor Barbacarlo ama di gran lunga -, una risposta sapiente che oggi mi risuona dentro come monito dell’ostinazione tenace ad andare avanti in silenzio, ad agire determinati verso la propria meta, a non avere mai tentennamenti, risentimenti o rimpianti, mai.