James Cleugh, Love Locked Out, Anthony Blond Ltd. 1963 (Traduzione di Luigi de Marchi, Sugar Editore, Milano 1963)
James Cleugh, Love Locked Out, Anthony Blond Ltd. 1963 (Traduzione di Luigi de Marchi, Sugar Editore, Milano 1963)
Leggiamo che il Domaine Jean Chartron esiste dal 1859; 13 sono gli ettari dei vigneti di proprietà, 16 le denominazioni 9 delle quali a Puligny-Montrachet. Il suolo è composto da una miscela di sabbia silicea calcare e argilla. 40 anni è l’età media delle viti, la raccolta viene eseguita a mano, né erbicidi, né pesticidi chimici o altre pratiche invasive sono applicati in vigna. Dietro l’equilibrio alchemico dell’invecchiamento del vino (l’élevage) e alla fonte delle barriques nuove di rovere ci sono sempre le foreste d’Allier e dei Vosgi.
Anche se – in linea molto generale – la 2011 in Borgogna è stata fra le vendemmie più premature degl’ultimi 300 anni, devo ammettere che questa bottiglia del monopole Clos de la Pucelle era sorprendentemente compiuta. La consistenza croccante d’un nucleo solido di polpa fibrosa già al naso, uno sbocciare di ginestre in fiore nella bocca e un luccicante flusso di sostanza minerale in fondo alla gola avviato giù verso il baratro del cuore a donare pace ai sensi. Acidità e miele sembravano talmente ben amalgamati fra di loro da diffondere un tale senso di armonia terrena, d’unità degli opposti tutt’attorno al nostro spazio vitale fra il tramite del bicchiere gli altri esseri respiranti e il vino.. anche se una sola bottiglia era (è stata ahimè) una fin troppo piccola cosa caro Francesco Bisaglia, ma se avessi disponibilità di capitale, giuro, te ne acquisterei come minimo tutta l’assegnazione che hai per Borgogna Mon Amour amico mio!
Su opulenta zuppa invernale ripassata in forno di cavolo nero, pane, formaggi vari fusi assieme, pancetta, brodo di bollito e una fresca misticanza con noccioline a stemperare i vapori dell’intingolo carico di bontà ribollite.
Ospito in questo mio spazio virtuale l’intervento di un’amica medievista: Adalgisa Crisanti.
L’articolo è già apparso in precedenza sul Grande Dizionario di Bevagna, 2 (2014) e concerne un tema inesauribile: il corpo, l’ascetismo, la spiritualità e i loro misteriosi legami con il cibo quale ossessione culturale assieme ad altre passioni materiali e disseminazioni corporee, “immoderata carnis petulanti”. Il tema affrontato nella fattispecie da Adalgisa riguarda l’indagine storiografica di un caso d’agiografia clinica (?), cioè un caso psico-sociale specifico che è quello di un irrequieto “campione della fede” il frate domenicano medioevale umbro il Beato Vergine Giacomo Bianconi da Bevagna.
All’astinenza coatta esercitata su se stessi dai primi cristiani e i padri della Chiesa, alla gola esorcizzata come vizio, al digiuno imboccato invece quale virtù, alla frustrante verginità sessuale che si espleta rabbiosamente di pari passo con la castità alimentare mi piace ora qui citare in qualità di controcanto – in falsetto? – un libro godibilissimo del professor Piero Camporesi geniale italianista fuori dal coro accademico il quale raccoglie in sé una polifonia di voci che s’avvolgono su un argomento antico ma tuttavia odierno, quello cioè dell’autolimitazione al piacere dei sensi. Ritengo sì che sia una tematica assai attuale, al di là dei vari casi da dietologi, basti qui solo pensare al vegetarianismo di ritorno, alle restrizioni draconiane dei vegani, al proliferarsi continuo di sempre nuove allergie alimentari con gl’altrettanti condizionamenti nutrizionali accompagnati ai disturbi dell’apparato digerente che esse comportano causate come è probabile che sia dall’invasività dei processi sempre più massicci d’industrializzazione del cibo. Insomma, Camporesi ne I Balsami di Venere esplora proprio l’esatto opposto della continenza e della deprivazione sensoriale quando nel capitolo 3 intitolato Venerea Voluptas, scrive:
Uomini e donne però più che perseguire sogni di castità, più che ricercare nuovi segreti “contro l’ardore de la
libidine e de la luxuria” (come scriveva Caterina Sforza, signora di Forlì, nei suoi Experimenti), attendevano all’alacre ricerca dei remedia e medicamenta di segno opposto.
E ancora, continuando a eviscerare la materia dell’espiazione carnale, dell’astinenza e della mortificazione del corpo governato dalla volontà dello spirito, il nostro Camporesi procede sempre su questo tono giudiziosamente dissacrante, così che leggiamo di seguito nel paragrafo 4. Il tesoro della castità:
A ben poco valevano le esortazioni, le prediche e i trattati sulla castità, come quello steso dall’ “inutile servo di Dio” (egli stesso si definisce così) Francesco Rappi, il Novo thesauro delle tre castità (1515) scritto in “reprehensione et detestazione de quelli che dicano non esser possibile continersi.” I “tre sancti rimedii della Castità contro la Lussuria” e la dura “detestazione della Libidine” sembrano, anche nella dichiarata inutilità della sua presenza fra i vivi, configurarsi come prediche al vento, pure e semplici battaglie rituali, conflitti allegorici alla stregua di quelli, mitici, fra Carnevale e Quaresima o fra inverno ed estate.
Dalla precettistica para-ecclesiastica ai trattati mistagogici sulla penitenza, dalla sua mortificazione sadica all’autopunizione morbosa, dal masochismo dei flagellanti (i Vattienti di Nocera Terinese ad esempio), alla degradazione degli eremiti nel deserto o agl’asceti rinchiusi in una cella monastica, il corpo è sempre stato inteso più come tabù disgustoso che come totem sublimato, veicolo di passioni, spudorata nudità da nascondere, filtro di pure funzioni organiche, fonte di deiezioni, spugna che assorbe e spurga una materia troppo bassa, maleodorante, triviale. Eppure è ancora nel corpo la sede del pensiero
astratto/concreto. È proprio nel corpo la sorgente dell’immaginazione creativa/distruttrice. È da qualche parte, sempre nel corpo abietto – rebus ancora oggi indecifrabile a psichiatri, filosofi e neuroscienziati – che si localizzano le sensazioni, gl’affetti, gl’impulsi elettrici sub specie di scintille battiti e scosse registrati nel sistema nervoso che poi si tramutano miracolosamente – ma com’è mai possibile? – in percezioni fisiche spazio-temporali che determinano la nostra personalità. Scosse neuronali che si trasformano in sogni, in sentimenti di scienza e religione, in opinioni di politica o diritto, in atteggiamenti della morale in orientamenti sessuali in elucubrazioni d’astrologia in fantasticherie architettoniche che a partire da un contenitore finito – il corpo umano – danno vita di conseguenza ad altrettanti ragionamenti, calcoli ingegneristici, metafore linguistiche, forme musicali, costruzioni della geometria non-euclidea o impressioni poetiche che paiono invece essere infiniti – la mente fossile appunto dell’uomo e della donna formata da strati geologici databili migliaia di millenni.
L’anima della donna e dell’uomo quindi con tutti i suoi tentacoli psichici le sue pulsioni artistiche, gl’istinti riproduttivi, le allucinazioni (visive sonore olfattive tattili gustative), i teoremi matematici, i tranelli, le illusioni, le credenze e le emozioni spirituali. Il cervello col cuore degli Adamo ed Eva nostri contemporanei ovvero cuore e cervello di noi stessi ognuno focalizzato nel proprio microcosmo d’affetti interessi e possessi, scacciati nel mondo globalizzato, ancora oggi e per sempre intrappolati o evasi a vita nella gabbia mobile della nostra tanto limitata eppure sconfinata massa corporea. (gae saccoccio)
Il Beato Giacomo Bianconi e l’astinenza dalla carne
di Adalgisa Crisanti Misticismo e penitenza
La regola dell’ordine dei frati Predicatori Domenicani, a cui Giacomo Bianconi appartenne, imponeva astinenza, digiuni e povertà e il nostro beato osservò con singolare fermezza tutte le disposizioni, nonostante provenisse da un’illustre famiglia della nobiltà cittadina.
È tuttavia difficile e azzardato il tentativo di comprendere appieno e definire con relativa esattezza l’atteggiamento spirituale del beato Bianconi (Bevagna, 7 marzo 1220-22 agosto 1301), avendo come unico riferimento la vasta, ma incerta, tradizione biografica, a causa della perdita totale dei due trattati in latino e dei vari sermoni che gli sono stati attribuiti. Sembra chiaro, tuttavia, che la realizzazione verso cui il Bianconi aspira ardentemente è un’esperienza diretta e un’unione con Dio; si tratta di un orientamento, anche e soprattutto spirituale e mistico, che si risolve in uno stile di vita e, quindi, di carattere fondamentalmente pratico. Le vite che sono state scritte, hanno tutte sottolineato le dolorose penitenze, le continue orazioni, i rigorosi digiuni, la verginità, la radicale povertà del beato; tutte pratiche che richiamano alcune tra le caratteristiche principali degli stati mistici: l’apparente illogicità, la necessità della grazia e lo slancio mistico che presuppone la rinuncia alle passioni e ai beni materiali.Convinto che senza afflizioni e patimenti non avrebbe mai potuto raggiungere Dio, Giacomo cercò di mortificare e reprimere tutti i suoi sensi, procurandosi grandi sofferenze. Secondo la tradizione biografica, una grossa cintura di castità stringeva tanto i suoi fianchi «che v’era sino cresciuta sopra la carne» e, nel periodo quaresimale, un lungo e ruvido cilicio, per mortificazione della carne, gli stringeva dolorosamente la vita. Passava gran parte delle ore notturne senza dormire, pregando e sottoponendo per tre volte il proprio corpo a cruente e sanguinose flagellazioni, applicando la prima all’espiazione dei suoi peccati, la seconda alla conversione dei peccatori, la terza in suffragio delle anime sante del purgatorio, a imitazione di San Domenico (ca. 1175-1221), che fondò il proprio ideale di cristianità non soltanto su una solida cultura teologica, ma soprattutto su una vita ascetica esemplare. Il linguaggio del cibo
Le notizie biografiche riguardanti la sua alimentazione e l’atteggiamento che Giacomo Bianconi ebbe verso il cibo costituiscono un’interessante fonte d’informazione per la comprensione della sua spiritualità; il cibo parla, è una forma di linguaggio, non scritto, non verbale ma che si lascia facilmente capire. L’alimentazione è un momento centrale e ineludibile della vita degli uomini, è in se stessa un fatto di cultura, un’espressione diretta di ciò che gli uomini fanno, sanno, pensano, in sostanza di ciò che sono.
«Il Signore Iddio prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Poi il Signore Iddio diede all’uomo quest’ordine: “Tu puoi mangiare di ogni albero del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangerai, perché il giorno in cui ne mangiassi, di certo moriresti”. […] La donna vide che l’albero era buono a mangiarsi, piacevole agli occhi e desiderabile per avere la conoscenza, colse perciò del suo frutto, ne mangiò e ne diede all’uomo che era con lei, il quale pure ne mangiò» (Genesi, 2, 15-17; 3, 6).
Il significato del passo biblico relativo alla caduta di Adamo ed Eva e alla loro cacciata dall’Eden è abbastanza evidente. Il nostro progenitore peccò di superbia, nel folle desiderio di equipararsi a Dio, di conoscere «il bene e il male», di farsi indipendente dal suo Creatore e giudice di se stesso. Ma accanto a questa esegesi per così dire ‘ufficiale’ se ne svolgono altre, parallele, che si accostano all’episodio biblico da ben diversa prospettiva. Il peccato di Adamo può essere cioè ricondotto a dimensioni corposamente materiali. Non è più il peccato della mente dell’uomo, ma del suo corpo. È il cedimento alle tentazioni e agli istinti della carne: alla gola, alla lussuria. Indubbiamente forzata, forse ingiustificata, è l’equiparazione della colpa di Adamo a un peccato di gola; eppure questa interpretazione letterale dell’episodio del frutto proibito la si trova spesso negli scrittori del primo medioevo.«Quando si cede alla gola, si commette la colpa di Adamo»: così scrive Gregorio Magno (540 circa-604). E Alcuino di York, monaco e teologo vissuto tra l’VIII e il IX secolo: «Finché Adamo praticò l’astinenza, rimase nel paradiso: mangiò, e fu cacciato». E Giovanni Cassiano nelle sue Collationes, uno dei testi fondamentali della spiritualità monastica: «Fu un atto di gola, per Adamo, mangiare il frutto dell’albero proibito».
Questa singolare interpretazione del passo biblico, ricorrente nei testi medievali, rivela un interesse particolare al problema del cibo, che la cultura cristiana del tempo pone come centrale e decisivo per la conquista della salvezza. Prioritario, anzi, nel momento in cui l’amore per il cibo viene ritenuto la prima occasione di cedimento ai sensi. Una volta innescati i meccanismi del piacere è facile incamminarsi sulla via del peccato, così San Girolamo: «Bisogna dunque porre attenzione ad assumere cibi in quantità tale, e di tale qualità, da non appesantire il corpo e la libertà dell’anima». Se la gola è il primo dei vizi, il digiuno sarà la prima delle virtù, il fondamento di tutte le virtù. Solo attraverso l’astinenza ci si può addestrare al controllo dei sensi, a quella umiltà fisica che costituisce il necessario supporto dell’umiltà intellettuale. L’atteggiamento del beato Giacomo nei confronti del cibo, i lunghi e severi digiuni, rispecchiano chiaramente l’ossessione culturale dei primi cristiani e dei cristiani del Medioevo, la paura del peccato carnale, la volontà di reprimere le passioni del corpo per attingere la purezza dell’anima. Il primo scopo della privazione alimentare e della rinuncia al cibo, il più semplice e immediato, è, dunque, la mortificazione del corpo, il rifiuto di quella materialità che ostacola l’elevazione dello spirito verso Dio. In tale prospettiva è assolutamente fondata la scelta del Bianconi, il quale, stando agli agiografi, si astenne quasi totalmente dal consumo della carne, proprio perché la carne era, per definizione, nutrimento della carne.
Negarsi il cibo carneo significava allontanarsi dal cibo degli uomini, dal cibo per così dire ‘normale’, tanto più in un’epoca, come l’Alto Medioevo, contrassegnata da un ampio consumo di carne a tutti i livelli sociali. Era, dunque, una scelta elitaria, che distinguendosi dai regimi alimentari correnti e nella difficoltà di una rinuncia certamente faticosa trovava motivo di auto-identificazione, segno di appartenenza alla schiera dei più vicini a Dio. L’astinenza dal cibo, in particolare dalla carne, era programmata anche per un altro motivo di ordine tecnico, ovvero la castità e non soltanto nel caso specifico di Giacomo Bianconi che secondo la tradizione biografica si mantenne puro e vergine fino alla fine. La verginità era dunque intesa a sua volta come condizione privilegiata per un più rapido e intenso avvicinamento a Dio.
In effetti, pratiche alimentari e repressione della sessualità appaiono fortemente collegate all’esperienza mistica del nostro beato; l’astinenza dal cibo e la sua regolamentazione rappresentano il metodo più diretto ed efficace per intervenire sull’equilibrio psico-fisiologico degli individui in funzione della continenza sessuale. In ogni caso è evidente che ci troviamo di fronte a una scelta meditata e consapevole, dove la definizione del digiuno come prima delle virtù, su cui tutte le altre vengono a poggiare, e l’esclusione di certi cibi dal regime alimentare assumono un valore estremamente preciso e tecnico, al di là del significato genericamente mortificatorio. Mortificazione della carne, certo; ma, soprattutto, della ‘carne’ intesa come sessualità. Soltanto nei casi di necessità, dovuti a infermità e malattia, il Bianconi si concesse il consumo di carne, ubbidendo ai medici e ai suoi superiori.In tali contesti culturali e sociali, però, il rifiuto della carne assumeva, non di rado, forme estreme ed esasperate, che le stesse autorità ecclesiastiche non mancavano di condannare. La privazione della carne era intesa sia a scopo ascetico purificatorio sia a scopo punitivo. La stessa legislazione civile utilizzava l’astinenza dalla carne come strumento di punizione per reati e infrazioni di vario genere. Ma, in effetti, era soprattutto nella legislazione ecclesiastica, nella normativa riguardante l’espiazione dei peccati, che la punizione alimentare veniva sistematicamente applicata. Nel Medioevo era proprio quello il tipo più ricorrente di penitenza, stabilito dai libri penitenziali e dai testi conciliari, in molti casi confermato dalla pubblica autorità della legge. La penitenza base era la dieta a pane e acqua, eventualmente integrata (se il fisico si indeboliva troppo) da cibi ‘innocenti’, puri, non contaminati come gli ortaggi, i legumi, la frutta, proprio perché l’esclusione della carne comportava la sua sostituzione programmatica con altri prodotti, che potessero in qualche modo supplire il suo ruolo di alimento ad alto valore nutritivo.Essenziale rimaneva in ogni caso l’astinenza dalle bevande alcoliche e dalla carne. Non sorprende dunque considerare che i cibi fondamentali del regime alimentare del Bianconi fossero i legumi, il pane, gli ortaggi e le erbe cotte, a volte crude, condite con aceto, olio e sale. Soprattutto il venerdì, a meno che non coincidesse con qualche importante festa dell’anno liturgico, e le vigilie delle principali feste del Signore, della Vergine e dei Santi, in memoria della Passione di Cristo, era solito cibarsi soltanto di pane e acqua e spesso, durante il periodo Quaresimale e nell’Avvento, si sottoponeva a severissimi digiuni, per ben due o tre giorni consecutivi. L’elemento sostanziale della dieta era probabilmente rappresentato dai legumi, dei quali è noto l’elevato valore nutritivo, legato all’alto contenuto proteico. Che si trattasse di una consapevole alternativa alla carne è comunque difficile sostenerlo. Sembrerebbe il pane, in realtà, una presenza costante nella quotidiana alimentazione del beato (potrebbe esserne una prova il coltello che portava sempre con sé, utilizzato a tavola per tagliare il pane o per scrostarlo), tanto più basilare quanto più legata a simbologie e significati che trascendono il piano propriamente alimentare per investire il campo della mistica.Al di là dalle valenze etiche e comportamentali, il cibo, infatti, tendeva a interpretare simbolicamente la realtà terrena, a intenderla come immagine dell’unica realtà vera, quella dello spirito. Così i legumi potevano significare la continenza dalla lussuria e la mortificazione del corpo. Soprattutto il pane, immagine del miracolo eucaristico, si prestava a essere caricato di un forte simbolismo. L’identificazione fra pane terreno e pane celeste, fra cibo del corpo e cibo dell’anima, si spingeva fino a immaginare una materializzazione di quest’ultimo. Il pane di farina non è solo immagine del pane di Cristo, ma sua manifestazione terrena. Del resto, nella letteratura del tempo, il miracolo alimentare è all’ordine del giorno: il miracoloso rinvenimento del cibo, la sua moltiplicazione, la sua trasformazione (l’acqua in vino), avvenimenti tutti presenti nelle agiografie del beato Bianconi, rappresentano una delle forme più consuete di intervento divino nella vita quotidiana, in questo caso mediato dall’azione di Giacomo.«Mentre si fabricava il convento, e la nuova chiesa, il Signor Iddio lo fece illustre, e segnalato appresso i suoi compatrioti con molti miracoli: conciosiaché più volte, à prieghi di lui, il Signore accrebbe il vino, e ’l pane da lui benedetto per i Muratori, & Artefici».
Per quanto concerne le bevande, l’unica espressamente menzionata dalle biografie del beato Giacomo è l’acqua, «con qualche traccia di vino, solo una o due volte la settimana», che in realtà, inquadrando giustamente gli usi alimentari del medioevo, non si beveva mai pura essendo spesso torbida o inquinata, date le tecniche rudimentali di estrazione a poca profondità nel sottosuolo. Si aromatizzava con frutta, erbe, miele, aceto; in alcuni casi si bolliva per disinfettarla o si beveva insieme al vino per renderla più igienica. Il vino viene però citato soprattutto a proposito del discorso sui miracoli compiuti dal Bianconi, presumibilmente per il fatto che si arricchì di significati simbolici e si legò a impieghi liturgici che lo nobilitarono, favorendone la promozione a cibo lecito e raccomandabile, da escludere solo in casi estremi di mortificazione, voluta o imposta.
L’accostamento del vino alla carne, come bevanda afrodisiaca ed eccitatrice di passioni, è in ogni modo quasi un topos nella letteratura morale dei primi secoli del cristianesimo e del medioevo; il rifiuto del vino è molto spesso contestuale a quello della carne, nelle scelte e nelle pratiche di mortificazione e questo potrebbe spiegarne la quasi totale assenza nel regime alimentare del beato.
Il linguaggio del cibo si prospetta pertanto come un codice complesso, che coinvolge etica, religiosità, ritualità e simbologia.
Cenni bibliografici
G. M. MERLO, Misticismo, in «Grande Dizionario Enciclopedico», Torino, Utet, 1970, pp. 617-619.
L. IACOBILLI, Vita del b. Giacomo da Bevagna, Foligno, 1644.
M. GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi patrono di Bevagna, Spoleto, 1950.Cfr. La Sacra Bibbia, Roma, Edizioni Paoline, 1960, p. 15 (commento a Gen. 2, 17).
Per le citazioni di Gregorio Magno, Alcuino, Giovanni Cassiano si veda M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 2004.Le agiografie tramandano che il b. Giacomo, nella stessa mattina in cui morì, si presentò alla beata Vanna nella chiesa dei padri Predicatori di Orvieto, dandole in dono la cintura e il coltello che teneva sempre con sé; il fatto che non vennero ritrovati nella camera del Bianconi ha fatto pensare a una vera e propria apparizione di Giacomo al fine di rassicurare e di garantire alla beata la sua protezione anche in seguito alla morte.
IACOBILLI, Vita del b. Giacomo cit. (nota 2).
GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi cit. (nota 3).
Secondo la tradizione biografica, nel 1291, il beato Giacomo, durante l’edificazione del convento di Bevagna di cui egli stesso era priore, moltiplicò il pane e convertì, più volte, l’acqua in vino per sfamare gli operai, affaticati dal duro lavoro.
Per tutte le indicazioni contenute in questo articolo, riguardanti le pratiche di mortificazione, le abitudini alimentari e la verginità del b. Giacomo, si vedano: F. A. BECCHETTI, Vita del b. Giacomo Bianconi di Bevagna, Roma, 1785; IACOBILLI, Vita del b. Giacomo cit. (nota 2); G. B. TORRETTI, Vita del b. Iacopo da Bevagna, Siena, 1643; GRADASSI, Vita del b. Giacomo Bianconi cit. (nota 3); B. PIERGILI, Vita del b. Giacomo Bianconi da Bevagna, Roma, 1729; ID., Vita e miracoli del b. Giacomo, Todi, 1662.
C’è tutta una tradizione spirituale e filosofica sia in Occidente che in Oriente indirizzata ad una sorta di mistica del silenzio. Da Laozi a Sant’Agostino da Pirrone lo scettico a Nietzsche e Wittgenstein fino alla prescrizione – nei saecula saeculorum – costrittiva, cupa, ossessionata, quasi minacciosa del silenzio osservato dai monaci di clausura. Il Grande Silenzio è per l’appunto anche il titolo di un bellissimo documentario di Philip Gröning del 2005 che ritrae la quotidianità di alcuni certosini nel monastero della Grande Chartreuse sulle alpi francesi vicino Grenoble.
Giorni fa ad una serie di commenti e commenti dei commenti innescati a cancrena esegetica da un mio post di facebook su un libro inutile eppure letto da milioni di persone, un amico virtuale mi stimolava – forse a torto forse a ragione – sui temi robusti dell’osare, del sapere, del potere e del TACERE. Ho subito pensato che l’argomentazione sbrigativa per quanto scaturita su una piattaforma futile e spiccia qual’è Facebook, per quanto asciutta e mordi-e-fuggescamente argomentata custodisse in sé la stessa dose di ragione quanto di torto, infatti pensavo – lo penso tuttora – che poter tacere – sospendere qualsiasi opinione, impressione, punto di vista, giudizio – sia sempre più un’impresa titanica, una destinazione inarrivabile nell’epoca nostra della frastornante comunicazione di massa in cui tutti si parla e sparla uno in sovrapposizione dell’altro e comunque alla fine dei conti, per non dir nulla di così sostanzioso; l’era digitale dell’indicizzazione impazzita su Google, delle notifiche di Twitter propagate quasi alla velocità del suono nello schiamazzo dei social quale rumore assordante di fondo, campo magnetico sonoro perenne ad ovattare le nostre vite quotidiane di cellophane; un rumore bianco (White Noise) cui tutti comunque si partecipa e che si subisce come un sopruso necessario anche supponendo di non parteciparne, standosene zitti e muti in disparte. Quanto detto fin qui crediamo riguardi solo il frastuono acustico, ma del Big Bang visivo a cui siamo ossessivamente sottoposti ogni giorno dallo schermo del pc ai milioni di cartelloni pubblicitari per strada agli sponsor video-animati? Del rombo di immagini che ci assordano la vi(s)ta che ci bombardano a sangue i bulbi oculari – armi di distrazione di massa – vogliamo parlarne o meglio tacere appunto anche qui? Come osare quindi il silenzio oggi se non costringendosi ad uno stoico sordomutismo clinico ad un accecamento auto-indotto tanto per rivitalizzare la tragedia dell’Edipo re di Sofocle nella nostra standardizzata epoca della farsa globale?
Traduco una piccola recensione di Maria Popova su Brain Pickings che propone un testo di Paul Goodman su linguaggio e silenzio in difesa delle ragioni della poesia che credo non sia mai stato tradotto in italiano. Goodman è autore poco conosciuto dalle nostre parti disperso tra qualche coraggiosa piccola casa editrice resistenziale, noto forse per un libro degli anni ’60 ora più che mai attuale: Gioventù Assurda sul disadattamento, sul disagio di crescere nel labirinto sociale delle grandi metropoli d’America, che mi pare però non sia mai più stato ristampato da Einaudi fin dal 1971.
Paul Goodman e le 9 forme di silenzio.
“Devo imparare a tacere” così il giovane e risoluto André Gide nel suo diario. Ma che tipo di silenzio intendeva esattamente? Nel capolavoro del 1972 Speaking and Language, che è anche l’ultimo lavoro pubblicato in vita, il grande romanziere poeta drammaturgo e psichiatra del XX secolo, Paul Goodman – soprannominato anche: “l’uomo più influente di cui abbiate mai sentito parlare” – esamina nove possibili forme di silenzio.
“La voce di Paul Goodman è una voce autentica”, come avrebbe scritto Susan Sontag nel suo bellissimo elogio funebre una settimana dopo la morte di Goodman nel mese di agosto di quello stesso 1972. “Dai tempi di DH Lawrence non c’è stata nella nostra lingua una voce tanto convincente, genuina e singolare.” Nel suo squisito inno in lode al silenzio, pieno di ciò che Sontag definisce le sue “serpeggianti e pazienti spiegazioni nei meandri d’ogni cosa,” la voce di Goodman si riversa nei suoi più singolari riverberi.
Un esempio di quanto scrive Goodman:
“Non parlare e parlare sono entrambi modi umani di stare nel mondo, e ci sono ordini e gradi per ciascuno di questi modi. C’è l’ammutolito silenzio dovuto al sonno o all’apatia; il silenzio sobrio che si accompagna al volto di un animale solenne; il silenzio fecondo della consapevolezza, pascolo dell’anima, da cui maturano sempre nuovi pensieri; il silenzio vivo della percezione vigile, pronto a dire: “Questo… questo…”; il silenzio musicale che accompagna l’attività assorta; il silenzio di ascoltare un’altra persona parlare, trasportarla alla deriva per poi aiutarla ad esprimersi con più chiarezza; il silenzio rumoroso del risentimento e dell’auto-accusa, discorso forte, sottaciuto ma imbronciato da dire; il silenzio della perplessità e dello sconcerto; il silenzio dell’armonia pacifica con le altre persone e in piena fusione col cosmo.”
Un vero peccato che Speaking and Language sia da tempo fuori stampa [ripeto, credo mai tradotto in italiano], ma copie di seconda mano possono ancora esser trovate e la ricerca merita l’inseguimento, integrandola magari a questa affascinante storia delle origini e dell’evoluzione culturale del silenzio.
Sababatemtem… Silêncio!
Non fateci caso, esatto, l’immagine del video è una vera schifezza fantasy-kitsch ma non si trova altro in rete, chiudete quindi gl’occhi e godetevi questa perla musicale del 1963 scritta da Túlio Piva cantata da Elis Regina al suo terzo album [Orquestra Sob a Direção de Astor].
Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação
Sababatemtem
Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação
O pandeiro já não faz o que fazia
Violão só é na base da harmônia
Silêncio! Atenção!
Por que o Samba já tem outra marcação
A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova
O pandeiro já não faz o que fazia
E o violão só é na base da harmônia
Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação
A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sempre sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova
Silêncio, escute com muita atenção
O Samba já tem outra marcação
Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação
O Samba já tem outra marcação
E essa é a nova marcação
Eee, o Samba já tem outra marcação!
Il “torcolato” è un vino d’appassimento fatto per tradizione nel vicentino nell’area di Breganze da un’attenta selezione di grappoli d’uve vespaiolo che vengono messi ad essiccare attorcigliati (intorcolà) quindi appesi in una stanza arieggiata adatta all’appassimento.Quello di cui qui si ragiona non è però il torcolato che è vino dolce da meditazione, ma sempre di Firmino Miotti, abbiamo qui il suo “Strada Riela” sempre da uve vespaiola in versione frizzante, tenuto sulle fecce (sur lie) che per una parte è rifermentato in bottiglia è cioè un “col fondo” non filtrato.
Caro Edoardo Camurri grazie ancora per questo dono. Nella ottusa paralisi del quotidiano a rischiarare la grigia banalità del sopravvivere il tuo Miotti vespaiolo frizzante non filtrato mi si rivela dunque come irradiazione epifanica alla luce del Joyce di Dubliners; una vera e propria manifestazione del divino sul fango della terra in abbinamento impeccabile a lasagna di zucca con salsiccia piccante e coniglio “alla cacciatora” fatti in casa dalla mamma. Direi in effetti che non possa trattarsi affatto di una coincidenza qualsiasi poi che questa rivelazione re-magica (o tre volte magica: vino + lasagna + coniglio al posto degl’abusati oro incenso e mirra) ha avuto luogo il giorno stesso dell’epifania lo scorso 6 gennaio 2016.
Dalla DOC Noto Nero d’Avola alla tavola dai miei a mitigare i fumi leguminosi d’una ciotola di zuppa invernale – pàst’ e fasügl’ – eloquente nella sua umilissima celestialità.
Pierpaolo Vivuvino.. ma che trama melogranata, che sanguigno amalgama il tuo Marabino!
Quale succulenza d’arance rosse in questo bel rosso ruggente da “terra ianca” e da luce tanta appena è stagione! Terra coltivata ad arte in piena cognizione di cause-effetti-sapienze applicate da te – da voi di tutta l’azienda agricola – con energica misura e afflato ai dettami pratico/teorici dell’agricoltura biodinamica.
Navigando nel mio sito alla sezione intitolata “references” che elenca una vertiginosa ma mai abbastanza esaustiva lista dei link di riferimento – una categoria che generalmente raccoglie altri blog preferiti ed è perciò definita blogroll – potete trovare un rimando agli archivi digitalizzati e gratuitamente scaricabili delle migliaia di libri d’arte dal Metropolitan Museum di New York e dal Paul Getty Museum di Los Angeles.
A queste due favolose collezioni si aggiunge ora la monumentale opera di diffusione democratica del sapere da parte della biblioteca pubblica di New York – The NYPL Digital Collections – che ha messo online a disposizione del mondo intero quella che è una vera costellazione di documenti, libri, foto, immagini, raccolte private, articoli, carte topografiche, riviste, manifesti, progetti urbanistici, mappe, atlanti… che non basterebbero una decina di vite per spulciarseli tutti con la dovuta calma e il misurato piacere della lettura. Possiamo (anzi dobbiamo) criticare con lucidità e argomenti legittimi questo mondo ipervirtuale e massmediatico nel quale siamo quasi costretti a vivere e lavorare, violentati dal giorno alla mattina da false notizie, notifiche insulse, informazioni disinformate, continuamente in allerta su cosa scremare di valido setacciandolo da tonnellate d’impurità, separare senza sosta il falso dall’autentico, il soggettivo dall’oggettività, tentando di non cascare a nostra volta nell’infelice, frustrante ed infecondo gioco del rincorrersi a vuoto delle pseudoverità virali, delle mistificazioni, delle pressapochezze di massa e delle bufale inventate di sana pianta sempre da qualcun altro tanto per gioco che per interesse o per puro spirito di zizzania.
Eppure una speranza ancora c’è, un modello politico valido per il mondo intero, un esempio di civiltà illuminata che pratichi il relativismo culturale, la tolleranza etnica, lo scambio di bellezza e conoscenze, l’abbraccio di intelletto e manualità attraverso la scrittura la lettura la ragionevolezza. Ecco, questa raccolta babelica di saperi collezionata dalla biblioteca nazionale di New York messa a disposizione libera dell’umanità digitale è il manifesto più attivo, concreto ed efficace della speranza di cui sopra a cui non possiamo dar fiducia se non partecipandone attivamente, concretamente ed efficacemente a nostra volta. Traduco di seguito la recensione a questo evento storico a cura di Erin Blakemore su smithsonian.com
La New York Public Library ha messo a disposizione di tutti in rete oltre 180.000 documenti.
Gratificazioni istantanee per menti curiose.
di Erin Blakemore (smithsonian.com)
Ti piacciono le vecchie foto? E antichi testi religiosi? Eliotipie d’epoca che illustrano alghe o felci? Sei fortunato: non è più necessario spegnere il portatile e fare un viaggio per vederli da vicino. Martedì scorso la New York Public Library ha annunciato d’aver rilasciato più di 180.000 documenti ad alta risoluzione scaricabarili all’istante per chiunque sia curioso e abbia accesso a un computer.
Troverete un sacco di tesori all’interno della nuova raccolta: sfogliare le fotografie iconiche del sociologo Lewis Hine sui lavoratori infantili ai manifesti utilizzati durante la Guerra Civile Russa. Ancora più in basso, attraversate le porte della percezione di questo universo del sapere, si possono sfogliare le oltre 35.000 vedute stereoscopiche della collezione di Robert N. Dennis che combinano fotografie leggermente “compensate” tanto da aggiungere una profondità tridimensionale a immagini provenienti da diverse regioni degli Stati Uniti. Questa visualizzazione epica aiuta a rivitalizzare propositi e fascino della collezione.La biblioteca ha anche creato un intero reparto – l’NYPL Labs – volto a studiare modi innovativi d’utilizzo delle sue enormi collezioni digitali. Dall’inserire una mappa storica bidimensionale di Fort Washington, Manhattan nel mondo tridimensionale del videogioco Minecraft per dar vita un nuovo gioco (Mansion Maniac) che consenta agli utenti d’esplorare esorbitanti planimetrie residenziali d’inizio secolo a New York, ci sono molti precisi modi per esplorare la collezione della biblioteca.
Questa mossa è parte di una tendenza assai più ampia seguita da molte biblioteche e musei che stanno rendendo le loro collezioni disponibili online. Dai documenti presidenziali alle collezioni di mappamondi o immagini del fotogiornalismo storico, c’è una corsa per digitalizzare qualsiasi cosa da rendere tutto di pubblico dominio e disponibile al maggior numero di persone possibile. Shana Kimball la direttrice dei programmi pubblici e le relazioni sociali della NYPL, riassume meglio sul blog della biblioteca: “Nessuna richiesta di permesso, nessun cerchio attraverso cui saltare; basta solo andare avanti e riutilizzare!”
Erin Blakemore
smithsonian.com
(7 Gennaio 2016)
Un divertente esercizio di stile ad esempio, è tradurre neologismi di stampo alimentare da una lingua all’altra. Certo riadattare in italiano un termine che combinasse la parola mangiare alla parola etimologia con altrettanta semplicità, eleganza e nonchalance dell’inglese “eatymology” non era non è e non sarà cosa semplice. Io ho proposto il facile facile “gastroetimologia” – e perché no gastroglossario? – dopo aver scartato i francamente terribili pappetimologia (“dacci oggi la nostra pappa quotidiana”) e cucinetimologia.Ritengo ad ogni buon conto che il libro in questione nonostante la globalizzazione disarmante dei nostri giorni sia ancora molto (troppo) condizionato da una cultura anglofona sia grammaticale che gastronomica di base quasi esclusivamente americanocentrica – giochi di parole, situazioni politico-sociali, sottintesi ed equivoci culinari forse poco “appetibili” e non così “appealing” da “stuzzicare” il divertimento e la “fame” di sapere d’un lettore medio italiano. Lascio comunque all’eventuale traduttore ed editore italiani che s’arrischiassero nell’impresa di tradurre Eatymology, di trovar per fatti propri la loro migliore soluzione al cruccio linguistico/letterario. Intanto propongo un veloce “assaggio” – se non è proprio questo il caso di parlar d’assaggi – al Dizionario della Moderna Gastronomia di Josh Friedland.
La cultura del cibo ha dato il via ad una nuova “gastroetimologia”.
Il nostro panorama mediatico ossessionato dal cibo si dimostra terreno fertile per certi giochi di parole.
Abbiamo adesso nuove parole per descrivere ogni cibo di nicchia o preferenza gastronomica.
Non sopportate proprio quelle piccole pesti che continuano sfrenate a rincorrersi trai tavoli del vostro ristorante Coreano “fusion” preferito? Potreste essere affetti da mocciosofobia. O magari siete solo dei culinosessuali se invece usate le vostre abilità culinarie per attrarre ogni volta qualcuno di “molto speciale” alla vostra tavola.
Nel suo nuovo libro, Gastroetimologia (Eatymology), l’umorista e scrittore di cibo Josh Friedland ha raccolto molti di queste neologismi in un dizionario gastronomico del 21 ° secolo.
Friedland ha recentemente parlato con Rachel Martin di NationalPublicRadio, ospite del Weekend Edition Sunday. Momenti salienti di questa loro conversazione sono stati raccolti qui di seguito.Su “Lievito Madre Hotel” (sourdough hotel)
Sai quando uno si dedica a mantenere in vita il proprio lievito madre alimentandolo ogni giorno con la farina? A Stoccolma c’è questo posto, è un panificio, che se avete bisogno di andare in vacanza potete benissimo lasciare lì in custodia la vostra pasta madre. La terranno su uno scaffale della panetteria, alimentandola giorno per giorno al posto vostro mentre voi siete fuori. È come una pensione per gl’animali.
Su “frágurt” (brogurt) yogurt per uomini
Chi ha ideato questo yogurt per tipi tosti è stata quest’azienda la Potente (Powerful) Yogurt che commercializza yogurt per soli uomini. È ora sugli scaffali dei negozi e il loro bersaglio – si sa come va il marketing – sono i maschi che prendono bevande energetiche.
Su “anacardi di sangue” (blood cashews)
Questa voce si basa su un rapporto di Human Rights Watch sul modo in cui vengono fatti gl’anacardi in Vietnam, che è uno dei maggiori esportatori al mondo di queste noccioline. Vien fuori che in Vietnam le persone condannate per reati di droga sono inviate in centri di riabilitazione nei quali poi vengono fondamentalmente costrette ai lavori forzati per la produzione e lavorazione di anacardi pronti poi per essere esportati. È un’idea ovviamente che prende spunto da Diamanti di Sangue per intenderci. Quindi sì, alla fine il libro tratta temi esilaranti ridicoli ma anche abbastanza gravi.
Maporcapùtt al TCA di mmèrd.. Giovanni “Gianni” è un devoto artigiano del vino, coltiva il suo ettaro e 1/2 a nebbiolo con venerazione d’asceta. Paiagallo è il nome della vigna da cui tira fuori un Barolo che è semplicemente fenomenale (fenomenico direbbero gl’amici onanisti neokantiani). Tradizione inviolata, no concimazioni né altri prodotti di sintesi, ponderato sul togliere più che sull’aggiungere è l’utilizzo dei solfiti; lieviti indigeni, fermentazioni lunghe a temperature non controllate da poco opportune invasività tecnologiche, affinamento in botte grande. Le bottiglie prodotte sono assai esigue sull’ordine delle “pochemila” e di non così prevedibile reperibilità.. proprio una maledizione del diavolo dei sugheri quindi non aver potuto inebriarmi ancora di questa perla dell’enologia langarola – tra l’altro d’annus mirabilis: 2010 – per colpa del fituso, fitusissimo tricloroanisolo.
La scoperta più avvincente del 2015 l’ho fatta veleggiando su Twitter ed è Maria Popova, autrice ed animatrice del sito #BrainPickings (Frutti del Cervello) un vero e proprio “Inventario della Vita Eloquente” come dal significativo sottotitolo, da cui sempre su twitter raccolgo con gratitudine svariate notifiche appassionanti, un patrimonio di notizie scientifiche e divagazioni culturali notevoli assieme ai più disparati approfondimenti editoriali oltre a tanti altri frammenti di contemporaneità archeologiche sull’epoca rovinosa e datata già sul nascere che stiamo vivendo, ipertesti e documentazioni digitali su questo relitto di civiltà multimediale sopra cui sta assai velocemente naufragando la nostra era post-tecnologica, post-industriale e post-qualchecosa ma soprattuto posteriore o postuma a se stessa.
Traduco allora come un buon auspicio tutto al femminile per il 2016 questa recensione della Popova ad un libro di Rebecca Solnit che è una intensa riflessione sulla speranza, un manifesto dell’ottimismo che motiva all’azione nonostante la tanta disperazione economica politica sociale morale antropologica in cui siamo sommersi; è un’esortazione accalorata, una scossa che possa risvegliarci almeno un po’ da questa nostra perenne inettitudine di spettatori passivi nell’acquario o parco giochi della vita moderna, mummificati nel grigiore d’un anonimato ammiccante sempre celebrativo del successo altrui e di chi agisce a commiserazione patetica da vittime auto-sacrificali nei riguardi della propria impotente sconfitta e del fallimento di chi subisce lo spettacolo del mondo senza reagire.
“La vera luce risiede nel buio dietro la ribalta! ”
Penso sia davvero dura vivere oggi di speranza e sincerità nell’era del cinismo. Non è impresa facile resistere davanti ai cancelli della speranza mentre siamo bombardati da notizie disperate e continui atti di violenza, mentre continuiamo imperterriti a fronteggiare quotidinamente quello che Marco Aurelio enumerava come: “intromissione, ingratitudine, arroganza, disonestà, gelosia, scontrosità.”Non m’è riuscito di trovare una più lucida e radiosa difesa della speranza che questa di Rebecca Solnit proposta in Speranza nel Buio: Storie Taciute, Possibilità Scatenate (Nation Books 2004 pubblicato in Italia da Fandango) – uno snello ma potente libretto racchiuso nella scia dell’amministrazione Bush durante l’invasione dell’Iraq; un libro struggente che è cresciuto in modo più rilevante solo nel decennio successivo. Perdiamo la speranza, suggerisce la Solnit, perché smarriamo il senso della prospettiva – perdiamo cioè di vista “l’accumulo dei cambiamenti impercettibili ma accrescitivi”, che costituiscono il progresso rendendo la nostra epoca radicalmente diversa dal passato, un contrasto oscurato dalla natura non imprevista delle trasformazioni graduali punteggiate da tumulti occasionali.
Ognuna delle nostre vite trabocca di testimonianze personali che evidenziano questi cambiamenti culturali collettivi. Al tempo in cui sono nata io, nessuno avrebbe potuto immaginare che la guerra fredda sarebbe finita e una ragazza cresciuta nella Bulgaria comunista si sarebbe fatta strada da sola leggendo e scrivendo di libri editi in inglese seduta di fronte lo skyline di Manhattan; già solo un decennio fa, sarebbe sembrato inconcepibile che una tribù ben distribuita d’estranei in rete avrebbe racimolato un milione di dollari per alcuni rifugiati dall’altra parte del mondo attraverso un sistema di comunicazione globale istantanea di neo-telegrammi in soli 140 caratteri; solo un paio di anni fa era difficile pure immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui ognuno sarebbe stato in grado di sposarsi con chiunque si desideri amare.
Così scrive la Solnit:
“Ci sono momenti in cui non solo il futuro ma anche il presente ci pare buio: davvero pochi riconoscono in che tipo di mondo radicalmente trasformato stiamo vivendo, un mondo che è stato trasformato non solo da incubi quali il surriscaldamento planetario e il capitale globale, ma dai nostri sogni di libertà e giustizia – cioè trasformato dalle stesse cose che non avremmo potuto non sognare… Abbiamo bisogno di sperare nella realizzazione dei nostri sogni, ma anche di riconoscere un mondo che rimarrà ancora più ferocemente libero della nostra stessa immaginazione.”
Esponendo questo sentimento che mette in relazione la materia oscura alla materia ordinaria nella formazione dell’universo, la Solnit offre la metafora perfetta per rappresentare le sorgente della nostra inconsistente presa sulla speranza:
“Immaginiamo il mondo come fosse un teatro. Gli atti con i potenti e i funzionari occupano il centro della scena. Le versioni tradizionali della storia, le fonti convenzionali di notizie vi incoraggiano a fissare lo sguardo sul palco. Le luci della ribalta sono così luminose che vi abbagliano dirigendovi verso gli spazi ombrosi intorno a voi, rendendovi difficile incontrare lo sguardo delle altre persone sedute, di riuscire a scorgere la via d’uscita oltre il pubblico, nei corridoi, dietro le quinte, al di fuori nel buio, dove altre potenze sono in azione. Gran parte del destino del mondo si decide lì sul palco proprio sotto i riflettori, in quello spazio su cui gli attori presenti vi diranno che non c’è altro luogo che quello.”
Ad un brano che richiama alla mente le parole memorabili di Simone Weil:
“Quando qualcuno si espone come schiavo sul mercato, quale meraviglia se trova un padrone?”, la Solnit aggiunge:
“Quel che avviene sul palco è una tragedia, la tragedia della distribuzione iniqua del potere e del troppo comune silenzio di coloro che s’accontentano solo di essere pubblico e oltretutto pagano pure il biglietto per assistere a questo dramma. Per convenzione, dovrebbe essere il pubblico a scegliersi gl’attori e questi ultimi dovrebbero letteralmente parlare per noi, questa è l’idea alla base della democrazia rappresentativa. In pratica, sono varie le ragioni che tengono molti sull’onda partecipativa di questa decisione, altre forze invece – il denaro ad esempio – rovesciano questa scelta così che sul palco anche molti degli attori trovano altre ragioni – lobbisti, il puro interesse personale, il conformismo – tanto da far fallire il proposito di rappresentare i loro elettori.”
Come osserva ancora la Solnit la speranza muore quando scegliamo di assistere rassegnati allo svolgimento del dramma abdicando alla nostre responsabilità, puntando il dito accusatorio contro i protagonisti sotto i riflettori. (Nelle parole di Iosif Brodskij questa considerazione è espressa molto bene nel suo: “Un dito puntato è il marchio di fabbrica della vittima.”) Sempre la Solnit è così che considera la tipica propensione dei disperati:
“Parlano come se dovessero aspettarsi che un miglioramento venga loro consegnato dall’alto e non come se potessero afferrarlo con la sola forza della propria volontà. Forse la loro disperazione più vera risiede molto semplicemente nel fatto di sentirsi spettatori piuttosto che attori.”
Il nostro più radioso orizzonte di speranze, sostiene la Solnit, giace proprio lì nell’oscurità oltre le luci della ribalta:
“Le ragioni della speranza giacciono lì nell’ombra, nelle persone che stanno inventando il mondo proprio mentre nessuno le sta guardando, che neppure loro stessi sanno di riuscire a realizzare qualcosa che sortisca qualche effetto, in quelle persone di cui non si è ancora mai sentito parlare ma che potrebbero essere i nuovi Cesar Chavez, i Noam Chomsky o le Cindy Sheehan del futuro o diventare qualcosa o qualcuno che non possiamo al momento neppure immaginare cosa come o chi. In questa epica battaglia tra la luce e il buio, è la parte oscura – quella degli anonimi, degli invisibili, degli ufficialmente inermi, dei visionari e sovversivi nell’ombra – è questa la parte nella quale noi dobbiamo riporre le nostre speranze. Per quelli che sono in scena, possiamo soltanto sperare che il sipario si abbassi quanto prima e che l’atto successivo sia migliore del precedente, che provenga direttamente dalle oscurità populiste.”
Speranza nel Buio è una lettura immensamente tonificante presa nella sua interezza ad integrazione della quale c’è una lettera esaltante di E. B. White ad un uomo che ha perso la fede nell’umanità, brani di Albert Camus sulla nobiltà dello spirito in tempi bui, Viktor Frankl sul perché l’idealismo sia la migliore forma di attivismo e così ripercorrere ancora la Solnit sul come ritrovarsi nel perdersi o degli effetti dei libri e della lettura sullo spirito umano, su come la non-comunicazione moderna abbia tramutato la nostra esperienza del tempo, della solitudine e della condivisione, ripercorrendo infine quel suo bellissimo manifesto sulle gratificazioni spirituali del camminare.
Annata 1949 in Borgogna secondo Broadbent: “la conclusione perfetta di un decennio – vini eleganti ed equilibrati”; Clive Coates nel suo libro Côte D’Or: “migliore annata degl’anni ’40: bellezza e purezza al loro grado di perfezione”; Robert Parker Jr .: “è stata l’annata migliore dopo la II guerra mondiale e prima della ’59.”
Henri Leroy dell’omonima Maison al tempo era négociant con sede a Auxey-Duresses; sua figlia la mitica Madame Lalou Bize-Leroy nel 1949 aveva solo diciassette anni.
Les Cazetiers è tra i Premier Cru più elevati (370 slm) di Gevrey-Chambertin se non di tutta la Borgogna.
Ho bevuto questa preziosa bottiglia sull’Etna assieme a #FrankCornelissen ed altri cari amici. Già il solo stapparla è stato una specie d’intervento chirurgico a cuore aperto. Appena cominciato a estrarre con delicatezza il tappo, uno sbuffo leggero, un brivido d’aria assieme a delle molecolari bollicine di vino sono magicamente emerse alla superficie del vecchio ma integerrimo sughero. È stato come assistere inermi alla scomparsa di un povero moribondo (ma il Pinot Nero è uomo o donna?) Insomma questo vino “umanizzato” aveva trattenuto dentro sé per 66 anni ancora esuberante “slancio vitale”, speranza, vivacità, respiro! Un miracolo di vino ancora così gustoso, robusto, agrumato, vibrante, terroso, incredibilmente vivo e ben conservato nonostante il colore e il livello del collo non promettessero nulla di tanto buono.. Infine, nutrendomi di quel succo filosofale di lunga vita, questo è quello che ho pensato in quel preciso momento e lo ricorderò finché campo: “il Gevrey-Chambertin stava aspettando proprio noi per essere bevuto e nello spirare il suo ultimo soffio ci ha così donato maggior vitalità, più gioia e più sorriso! ”
Abbinamento a dir poco insormontabile su zuppa contadina preparata con virginale dedizione verso le tradizioni del territorio e conciso spirito del focolare alla casa-bottega dagl’amici Sandro Dibella e Lucia Rampolla del Cave Ox di Solicchiata alle pendici dell’Etna assieme al sempre inossidabile Jerry Fitzgerald e alla confraternita dei Nasi Scintillanti #BevitoriIndipendenti
4. La libertà di fare e disfare
Carussin è il nome della cantina, c’è dal 1927 a San Marzano Oliveto (tra Nizza Monferrato e Canelli). Devo ammettere che la prima cioè l’ultima volta ho bevuto questa bottiglia ero un pizzico sospettoso e forse anche un po’ svagatamente impreparato.
Prima “scorrettezza” di questo vino è il tappo a corona; seconda è un Nebbiolo da cui assai spesso in Langa si derivano costosetti, ingessatelli e talvolta alquanto datati pur se fin troppo modernoni: Barolo e Barbaresco; terza è che, nonostante la potenza e il potenziale del vitigno – amichevolmente stappato come una boccia di birra dozzinale – ci ritroviamo fin da subito nel bicchiere un felice vino già schiuso al bere pieno di vigore, ricco in polpa di pesca matura al punto, schietto di corpo e colore molto ben predisposto nella struttura, di piacevolezza sana, buona frutta succosa in odor d’albicocca spaccata in due sul ramo e questo – al di là dei privilegi del terroir – forse anche a ragione delle assennate tecniche/pratiche d’agricoltura atte alla “umana” vinificazione: fermentazioni naturali, non filtrazione, nessuna solforosa aggiunta.
Avevo pensato tre titoli per questa recensione, ma ne ho usato un quarto:
1. Nobilmente semplice
2. Elogio dell’imperfezione
3. Disarmonia prestabilita
ps.
Suggerisco schiarimenti ulteriori e rimando al sempre ponderato Rizzo Fabiari su Accademia degli Alterati