Perché non posso avere il vino che voglio durante la Pasqua Ebraica? Dovrò farmelo da me.
Traduco un articolo di Alice Feiring apparso ieri, 19 aprile 2019, sul New York Times intitolato: Why Can’t I Get the Wine I Want for Passover? I’ll have to make it myself, che è in qualche modo correlato al tema religioso della dieta kasher di cui ho scritto qui tempo addietro.
Un appunto che mi sento di fare alla Feiring è sul vino idealizzato nella sua componente essenziale d’uva così come riportato da Papa Francesco. Non ne sarei tanto sicuro – anzi sono totalmente scettico al riguardo – che durante il rito dell’eucarestia venga servito vino naturale, piuttosto sarebbe da approfondire il giro d’affari e gli interessi di filiera industriale che ci sono dietro al vino servito nelle messe in Vaticano, ma è meglio non scandagliare la faccenda, se ben ricordiamo Michael Corleone in Il Padrino parte III:
“Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.“
Come molte della sua generazione, mia madre Ethel, non è mai andata oltre il Manischewitz. Quella liquefatta gelatina d’uva era il nostro vino della casa che lei serviva a ogni Shabbat e durante le festività. Anche dopo che io stessa ho smesso di osservare le regole dello Shabbat e ho cominciato professionalmente a lavorare nel vino, mia madre non si è mai potuta spiegare la mia disperazione per non riuscire a trovare qualcosa di potabile per la Pasqua ebraica. Ogni anno sprecavo troppi soldi, speranze elevate e aspettative basse, traghettando le bottiglie approvate dal rabbino, nell’appartamento della mamma a Long Beach. A un certo punto, intorno al secondo bicchiere, Ethel sbottava: “Sai di cosa ha bisogno?” E mescolava un po’ del suo sciroppone Sweet Concord con il Borgogna kosher da 35 dollari che avevo portato io.
Sono cresciuta in una famiglia kosher abbastanza osservante e ho frequentato 12 anni di scuola religiosa. Mi hanno allevata per andare al college femminile della Yeshiva University, non di certo alla Stony Brook University, l’università pubblica di New York, e certamente non avrei dovuto diventare una scrittrice di vino. Ma ho fatto entrambe le cose. E quasi 20 anni fa, mi sono dedicata alla causa del vino naturale: la viticoltura biologica con nessuno degli oltre 70 additivi legali ammessi – cose come lieviti selezionati, batteri lattici, tannino in polvere, acidità aggiunta, agenti anti-schiuma e trucioli di legno – che possono essere presenti nella maggior parte dei vini, sia quelli kosher che in tutti gli altri. Le bottiglie profane che bevo io sono per lo più costituite da un solo ingrediente: l’uva.
Il vino naturale è imprevedibile. Vanta un’enorme varietà di sapori. L’obiettivo dell’enologo è quello di tradurre il luogo da cui le uve provengono nel bicchiere, e ogni bottiglia porta un’impronta di ciò che è accaduto l’anno in cui quella bottiglia è stata prodotta. Questi vini non hanno alcuna somiglianza con i vini convenzionali o kosher che spesso seguono un percorso di omologazione accidentato di additivi per farli essere quali sono. Ecco quei vini non sono quelli che voglio sorseggiare io durante le feste o a tavola in qualsiasi altra occasione.
Non molto tempo fa, papa Francesco ha dichiarato che solo il mio tipo di vino, quello fatto con l’uva, è adatto all’eucaristia. Il che porta alla quinta domanda della mia celebrazione della Pasqua ebraica: perché, in questa notte, non sono in grado di trovare vini naturali kosher?
Bene, dovrei dire che ci sono due opzioni degne, entrambe fatte in quantità minuscole: Harkham dall’Australia e Camuna a Berkeley, in California. Ce ne dovrebbero essere di più. Prima della seconda guerra mondiale, prima del boom nell’uso degli additivi, la maggior parte dei vini erano naturali o abbastanza naturali. I produttori di vino ebrei e proprietari di vigneti hanno fatto vino kosher, il più famoso in Ungheria, dove fiorivano famiglie di produttori vinicoli come gli Zimmermann. L’Olocausto ha distrutto quell’eredità.
Mio nonno che parlava Yiddish, nato in Ucraina nel XIX secolo, ricordava questa tradizione vinicola naturale. Ha fatto il vino nel nostro seminterrato. Uno dei miei primi ricordi di Pop, che mi ha insegnato ad annusare tutto prima che lo bevessi, era la sua disperazione per un lotto del suo vino tramutato in aceto. Finché è stato vino, era delizioso.
Kosher non significa che il vino sia benedetto; si tratta piuttosto che sia osservato e gestito solo dagli osservanti del Sabbath, dalla fermentazione alla stappatura; una regola valida come tentativo di proteggerlo dal vino utilizzato per l’idolatria.
C’è solo una soluzione: far bollire. Tali vini sono etichettati come “Mevushal” e una pagana (o anche una ragazza yeshiva decaduta come me) può servire a chiunque, anche ai più religiosi, qualsiasi vino kosher che sia stato prima bollito, parzialmente pastorizzato o prodotto da uve riscaldate. Mentre i metodi moderni per questa tecnica sono molto meno invasivi del passato, c’è da aggiumgere che le uve calde non producono il vino migliore e prevengono i fermenti naturali. Ciò significa che bisogna aggiungere lieviti selezionati e sostanze nutritive. Chiunque ami il vino opterà quindi meglio per un cocktail ai matrimoni religiosi.
Ma a Pasqua, è il vino che ti serve, e al tavolo di mia madre deve essere kosher. Ecco perché l’anno scorso ho provato a creare il mio vino: tradizionale, autentico, kosher e naturale.
È stato un progetto profondamente personale. Cioè, ho capito che non sono ancora molte le persone sul mercato del vino naturale kosher. Dopo tutto, come fai a sapere cosa ti manca se non esiste? “A nessuno importa e nessuno sa cosa vogliono perché non hanno visibilità”, mi ha detto David Raccah, del blog Kosher Wine Musings che beve solo kosher.
È stato anche uno sforzo costoso e logisticamente difficile. La certificazione kosher può costare fino a 10.000 dollari l’anno.
Dal momento che ho scritto di vinificazione nel Caucaso e sapevo che avrei potuto ottenere uva e spazio di lavoro a prezzi accessibil, ho deciso di fare il mio vino in Georgia. Un amico di un amico religioso si è messo a disposizione per gestire il vino per me seguendo le mie istruzioni. Tutto quello che dovevo fare era capire come pagare la certificazione kosher e affrontare la burocrazia.
Non è stato facile raggiungere il rabbino a Tbilisi. Era perennemente impegnato, sempre di corsa verso Kutaisi per una circoncisione o a Bagdati per un matrimonio.
Alla fine l’ho raggiunto su Skype. Dopo una lunga filippica sulle leggi religiose e del perché io, un’ebrea, amante del vino naturale ebrea ormai profana, non sarei mai riuscita a fare il mio vino, ho capito che eravamo del tutto disconnessi. Ho richiamato. Gli amici a Tbilisi hanno cercato di raggiungerlo. Il raccolto del 2018 è arrivato ed è andato via. Lo sprezzo del rabbino mi aveva fatto venire ancor più voglia di fare il mio vino kosher.
Fare il vino è rischioso. Hai bisogno del suolo giusto benedetto dal giusto clima. Hai bisogno di talento. Senza l’uso di additivi, fondamentale è la conoscenza e anche un po’ di fortuna. Ho un piano in atto e un altro rabbino in lista d’attesa per quest’anno. Sono determinata a fare qualcosa che anche Ethel e le sue amiche possano bere e apprezzare.
Riusciremo mai a superare il nostro desiderio di comprensione da parte dei genitori? Qualora ci fossero ancora altri dieci anni davanti a lei, mia madre non capirà completamente e non accetterà mai il mio rifiuto della vita religiosa. Se solo comprendesse perché ho dedicato decenni della mia vita a scrivere sul vino, intorno a questo magico e duraturo simbolo della vita, della cultura e dell’umanità, questo mi renderebbe ancora più felice. Ma per poterlo comprendere, deve essere prima in grado di poterlo bere.
[Alice Feiring è l’autrice di “The Dirty Guide to Wine: Following Flavor From Ground to Glass” e dell’imminente: “Natural Wine for the People: What It Is, Where to Find It, How to Love It.”]