“DISSIPAZIONI” – TERRE DI CONFINE
A distanza di un anno ripropongo più sotto “Dissipazioni” un mio testo critico alla personale Terre di Confine del fotografo Andrea Amadori realizzata dal Laboratorio Fotografico Corsetti a cura degli amici cari Eugenio Corsetti e Fabio Benincasa.
Lo sguardo disincarnato e distante dell’obiettivo fotografico esplora le lande desolate dell’estremo Nord del pianeta, penetrando luoghi nei quali la presenza dell’uomo sembra essere nulla più che un remoto ricordo. Si tratta di Terre di Confine, personale fotografica di Andrea Amadori, una sequenza di 26 fotografie analogiche b/n stampate in formato 30×40 che viene esposta presso il Laboratorio Fotografico Corsetti, in Via dei Piceni 5/7, a partire da venerdì 15 maggio.
Sono istantanee scattate dall’autore nel corso dei suoi numerosi viaggi che hanno toccato ambienti geografici estremi, come l’Islanda, il Canada, l’Alaska, la Siberia, l’Artico, tutti accomunati dal fatto di essere i remoti avamposti boreali della comunità umana. Terre di confine per eccellenza, i cui limiti sembrano sfidare la possibilità stessa di fissare un ordine visivo logico e antropico.
Le tracce dell’umanità non mancano in queste immagini: panchine, pali, relitti, distanti case-guscio, che forse hanno dato rifugio a sperduti cacciatori. Eppure proprio questi dettagli, inghiottiti dallo splendore algido e feroce di una natura invincibile, alludono a una metafisica incomprensibilità del visuale. Un mistero tangibilmente evidente che l’uomo è costretto ad affrontare quando si confronta con la solitudine e con i propri limiti, invisibili confini ottici e mentali.
Le immagini di confine di Andrea Amadori ci trasportano dunque in una dimensione di silenzi avventurosi, una “dissipazione” dell’umanità come nota acutamente Gaetano Saccoccio nel suo intervento critico: “quadri d’attimo in definitiva sfregiati da un’entità invisibile che ha qualcosa più del disumano, dove il prefisso “dis” sta ad intensificare maggiormente la sparizione dell’umanezza”.
Stampe ai sali d’argento eseguite dal Laboratorio Fotografico Corsetti.
Andrea Amadori è nato nel 1984 e vive a Roma. Laureato in ingegneria, lavora nel settore delle fonti energetiche rinnovabili. Ha molte passioni, principalmente i viaggi e l’arte, in tutte le sue forme espressive. Appassionato di fotografia sin da bambino, inizia ben presto a praticarla in senso artistico. Per rappresentare introspettivamente le emozioni preferisce la fotografia analogica a quella digitale e in particolare il bianco e nero. Fra i suoi temi preferiti la natura e il mondo che ci circonda, spesso colto in luoghi estremi e in spazi lontani, che gli permettono di coltivare la sua altra passione, quella per il viaggio. Nel 2005, appena ventunenne, viene invitato ad allestire una sua personale intitolata La percezione del nulla, incentrata su un suo viaggio in Mongolia.
Nel 2008, gli artisti del duo Two&New (born) lo chiamano ad unire al loro estro, imperniato sullo studio dei volatili, la sua espressione fotografica nella mostra New angulus ridens, presso l’Istituto Musicale di Alta Cultura “G. Paisiello”, nell’ex Convento di San Michele a Taranto. Negli anni successivi, realizza altre esposizioni personali a Roma, tra cui …Pensami altrove. Una sua intervista è stata pubblicata sulla rivista fotografica on-line Photo&Retouching. Fra i suoi progetti futuri: un reportage notturno con diapositive a colori, in Asia.
http://cargocollective.com/andreaamadori
DISSIPAZIONI
«Ma la mia valle, che risalgo, è deserta, […] Non vedrò un viso, non udrò una voce. E mi sembra ingiusto e cattivo. In città ero spettatore, qui io devo vivere. Dove sono andati. Perché sono andati.»
(Guido Morselli da Dissipatio Humani Generis, Milano, Adelphi, 1977)
Di tutte queste 26 immagini, sono soltanto 6 scatti a manifestare una quasi annullata presenza del Caso Clinico Uomo, eccetto si direbbe – e non è proprio cosa ovvia – l’umanissima rètina del tipo-fotografo, a sua volta assestata protesi meccanica su cavalletto: occhio velato dietro a un obiettivo comunque manufatto dall’homo technologicus, che inquadra e punta dritto al paesaggio in questa vertiginosa mise en abîme tra Civiltà e Natura.
Dunque abbiamo 6 foto, fugate da un pur irrisorio segno d’attività o intervento più o meno invasivo da parte di qualunque organismo vivente – umano o animale – che conformano un mondo perduto di ghiacci, montagne innevate, vive foreste d’abeti, tronchi d’albero morto, sulle rive del lago antracite.
Potremmo ben figurarcela quindi come location postumana d’un ipotetico The North a luci di posa appena spente, senza cioè più le imbarazzate e pseudo-illuministiche messe-in-scena del povero bon sauvage Nanook di Flaherty o la tracotante e – bene o mal corrisposta – naiveté dal Grizzly Man di Herzog sino ai fastidiosi fasti blockbuster e al finto ecologismo in imposta ottica Paramount alla Into the Wild.
Ora, segnate o no dall’impronta del passaggio umano, proporrei per tutti e 26 questi paesaggi la definizione di fotografie/monologo nelle quali la voce, pardon, la lente dello sguardo sinestetico del protagonista-fotografo bofonchia – con lucidità di mente e fermezza di mano – una frase amara dal Morselli più desolato: «Andarmene, dunque senza lasciare traccia. Questo mi è parso essenziale».
Eppure, nebulizzata l’umanità oltre i margini, cancellato lo scarabocchio di carne ed ossa come sfrego di matita sulle pagine di neve o di nuvola, proprio da questi rettangoli del mondo esteriore in bianco-acqua/nero-terra, tralinea il soffio d’un respiro a Sistema Zonale di colori ed è la vita intima multidimensionale di colui che ha fissato questi spazi polari (e perché no bipolari?) attraverso la macchina del tempo fotografica. A proposito del pensare per immagini e dei fogli di nuvole, a parte l’esplicito e dovuto rimando al Padre/Padrone Ansel Adams, per quanto virate in tonalità di bianco-nero-grigio, da queste diapositive scintilla subitaneo alla mente ∞ Infinito di Luigi Ghirri, 365 scatti di cielo, ognuno per quanti sono i giorni dell’anno, corollario inconscio agl’Equivalents di Alfred Stieglitz, foto di nuvole appunto ottenute con un apparecchio Graflex atto alla ottimale focalizzazione dello zenith, che proprio così scarnifica all’osso la – alla fine dei conti – condivisibile Weltanschauung del «caos del mondo e sua relazione con questo caos». Tuttavia son proprio gl’altri 20 scatti – quelli in qualche modo contaminati dall’intervento dell’essere umano e dalle sue abitazioni per quanto inospitali – son proprio questi insomma i quadri d’attimo in definitiva sfregiati da un’entità invisibile che ha qualcosa più del disumano, dove il prefisso “dis” sta ad intensificare maggiormente la sparizione dell’umanezza. Una staccionata sfocata nella nebbia a delimitare approssimativi sconfinamenti sul pianeta delle nevi illimitate e accecanti che mettono così alla dura prova anche il più sofisticato filtro di polarizzazione della luce. Il relitto “fuori luogo” d’un aereo a specificare – qualora ce ne fosse urgenza – la genetica opposizione del progresso arrogante ed inorganico della inciviltà post-industriale contrapposta all’universo spontaneo d’una natura autosufficiente anche e soprattutto senza di noi. La rompighiaccio abbandonata su una rena secca e sassosa, che contrappunta quell’altro ambiente aereo coi vapori dei geyser su superficie di fango lunare che ambiguamente si mostra pure come un’apnea di macerazioni boreali.Cubi d’abitazioni (abitate?) coi tetti d’erba e di legno lavorato o scoperchiati (inabitate!) a subire un soffitto cinereo di nubi all’uranio liquido.
Carcasse d’automobili e uno school bus fantasma che assieme alla scritta Maligne Lake sulla boat house – s’evince una località turistica durante la stagione buona – proiettano verso ancor più minacciose prospettive hitchcockiane dove però non ci son più né giovani innocenti né caccie a ladri o fuorilegge, né tanto meno uccelli assassini e se c’è da qualche parte un lago ridente questo è ormai sepolto dalla neve, almeno per un istante – quello dello snapshot – che durerà cartier-bressonianamente ab aeterno. Avventurati sulle geometrie non-euclidee di quest’arcipelago di rappresentazioni, avviene ad un certo punto l’indicazione stradale a un posto impronunciabile, impilata in un tumulo di sassacci come fosse la sepoltura futuroprossima di colei o colui che sta lì fisso ad osservare questo habitat oggettivo che non prevede punto soggetti alcuni, osservatori o osservati essi siano. Difatti ecco il ponticello sull’acqua lacustre che direziona sul nessun luogo pedemontano eventuali Dead Men di passaggio, così pure le obbligatorie 4 croci bianche utili all’effetto finale di un piano sequenza di John Ford, artigiano del Western, o addirittura emerse con freudiana forza espressionista dal Nosferatu di Murnau. Punto di fuga e d’osservanza privilegiato, una panca vuota possibilmente adatta a meditazioni di Zen settentrionale, appoggiata su un canyon che è già a sua volta anfiteatro montagnoso ed embrione geologico, affacciato sugl’abissi trompe-l’oeil del cosmo aurorale… a Nord di nessun Sud. [gae saccoccio]