“Nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.”
Elsa Morante
Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo
Con l’escamotage molto sofisticato ed ironico del romanzone d’appendice o del feuilleton alla Dumas, Elsa Morante a poco più di 30 anni nel 1943 comincia a scrivere Menzogna e Sortilegio il cui titolo originario, tra i tanti scartati, doveva essere Storia di mia Nonna.
Con le stesse parole della scrittrice romana, il romanzo è un dramma piccolo borghese trasformato in una leggenda. Il libro intreccia una nevrotica saga meridionale che porta in superficie le ambizioni deluse di tre generazioni di donne. Questo grandioso romanzo della Morante è un’epopea familiare scaturito dalla memoria invasa dai vapori lunari ed erratici di Elisa doppio di Elsa, cioè il personaggio che racconta in prima persona la storia della sua famiglia in una duplice (ambigua?) funzione sia di medium stregonesco e di invasata che incarna le voci dei fantasmi del passato, tanto in quella di testimone oculare dei fatti e delle ambasce accaduti ai suoi genitori di cui si fa giocoliera e solitaria cronista. Menzogne e sortilegi della grande letteratura che attraverso la potenza di fuoco dell’immaginazione e la demiurgica verità della poesia, plasma il mondo, stana la realtà più e meglio della stessa verità della storia. Il Sud della Morante è un meridione immaginario eppure realissimo, barocco e contemporaneo a un tempo. Questo Sud immaginifico è una Sicilia eterna intrisa di magia nera, fosco intrigo di lutti, mistificazione, superstizioni, sessualità repressa, frustrazione religiosa, orgoglio malsano, distinzione di classe. Una Palermo fantastica ma più vera del vero, sospesa nel tempo, immortalata dallo sguardo sarcastico, amaro ed estatico di un Dostoevskij folletto a Palermo o di un Kafka meridionale tutto al femminile.
Menzogna e Sortilegio è stato scritto in fasi avventurose della vita della scrittrice, durante i tragici anni della II Guerra Mondiale. Cesare Garboli, fraterno amico della Morante nella sua intensa introduzione al romanzo “cosí centrale nella storia letteraria del nostro secolo”, rivelando una commistione illuminante tra il polpettone rosa e il marchese De Sade, sottolinea:
“Mentre gli occhi di tutto il mondo si giravano verso il futuro e puntavano diritti sulla realtà, lo sguardo della Morante si distraeva dal presente, attirato e affascinato dalla profondità di uno scenario spettrale e lontano.”
Un altro grande critico Cesare Cases che reputava Menzogna e Sortilegio tra i maggiori capolavori della nostra letteratura, ragionando sul senso ultimo dell’arte in quanto espressione sia eversiva che consolatoria, quindi di adesione viscerale alla realtà pure se incoraggia la fuga dall’oppressione del mondo presente, scriveva in Patrie Lettere:
“L’arte è di per sé contemporaneamente eversiva e consolatoria: dice la verità sul mondo, ma trasponendo la verità nella parvenza lascia il mondo così com’è e riconcilia con ciò che ha giudicato.”
In questa polverosa rivendita di vini, lo sciagurato padre di Elisa, il Butterato, porta la bimba con sé. Un luogo esotico tipo fumeria d’oppio, dove il Butterato Francesco “nell’effimera animazione dei primi bicchieri” può narcotizzare i sensi e dare libero sfogo alle sue fantasie represse, millantando origini nobiliari e titoli universitari mai raggiunti che la figlioletta osservatrice implacabile testimonia nell’aspetto di “vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime”. Francesco è uno dei personaggi più dannati del romanzo, altre pagine notevoli sono quelle dell’arrivo di sua madre Alessandra in città, una contadina analfabeta di cui si vergogna amaramente, già quando lui era ancora uno studente iscritto all’università e si era messo in testa di redimere la malafemmina Rosaria.
La realtà si respinge con asprezza rinnegandola fino alla radice, nel suo grigiore prosaico, per amare solo gli spettri. È proprio questo il destino truce dei protagonisti del romanzo. Questa, a pensarci bene, è anche la parabola conclusiva di qualsiasi lettore e scrittore di romanzi. La voce più ricorrente nella ragnatela velenosa di Menzogna e Sortilegio è la parola ambascia. È una voce anomala e gelosa: “squillante e patetica, misericordiosa e animalesca non rara nel Mezzogiorno” come la stessa voce dell’ostessa moglie reclusa dell’oste Gesualdo.
Dall’enciclopedia Treccani: ambàscia s. f. [etimo incerto] – 1. Grave difficoltà di respiro, unita a senso di oppressione. 2. fig. Oppressione dell’animo, accoramento, angoscia.
Angoscia, oppressione, respiro affannato… predominano nelle descrizioni minuziose dello scantinato di Gesualdo, mescita dei vini oppiacei. Nella Quinta parte del romanzo intitolata Inverno, si descrive appunto Gesualdo, un oste malarico di “selvatica tristezza… e tetra indolenza”, e la sua rivendita di vini, una bottega fuorimano con gli avventori popolani “carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi”, uomini del popolo dall’ambiguo sorriso e le occhiate sfuggenti. Sono pagine di malinconica, straordinaria bellezza che emanano il marchio a fuoco della poesia più straziante mentre esprimono l’infelicità predestinata, la miseria inconsolabile, l’amarezza funesta, la muta rassegnazione della condizione umana.
Osserviamo e ascoltiamo questo micro-mondo perduto del Sud che è racchiuso a matrioska dentro tutti i Sud del macro-mondo, attraverso lo sguardo e l’udito ammaliati da scettico stupore infantile della testimone Elisa:
“E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principesca, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.
Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci! (…)
Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtú, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero piú menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben piú grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro. (…)
Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia”.
Viene in mente Thomas Hardy e le rabbiose sfuriate anti-accademiche di Jude l’Oscuro nelle sue luride bettole d’Inghilterra affollate di umiliati e offesi.
“Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non piú che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.”
E segue la memorabile descrizione del vino servito nella stamberga e dei suoi taciturni frequentatori dai volti semitici, riportata sempre da un’Elisa bimba onnisciente, annoiata in quel tugurio di avvinazzati. Elisa preferirebbe giocare con la gatta selvatica incinta di cui “nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura” a cui l’oste avrebbe in seguito affogato i micetti rendendosi per sempre malefico e odioso allo sguardo innocente della bambina malamata il cui sogno più grande sarebbe stato proprio quello di ricevere in dono uno di quei gattini nuovi tutto per sé, il solo amico possibile in quel suo universo ostile.
“Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensí amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.
Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra. (…) A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.”
Negli ultimi capitoli di Menzogna e Sortilegio, la piccola Elisa sempre accompagnando suo padre alla bettola di Gesualdo vivrà le sue ore più disperate e umilianti, con il Butterato completamente ubriaco, svenuto sul tavolo della stamberga in un pomeriggio di afa e calura estiva che accentuano l’allucinazione verista, che amplificano lo squallore della scena di questo “pellegrinaggio infernale”.
Dovrà riaccompagnarlo lei lungo le strade verso casa tra le lacrime della mortificazione estrema che la porteranno al culmine di odio e disgusto nei confronti di quel suo tragico padre, nemico di se stesso come quasi tutta la schiera di spettri autolesionisti che animano il romanzo della Morante, un assoluto capolavoro di stile, sensibilità artistica, osservazione del mondo, autoironia che fa dell’autrice una delle più acute rabdomanti della psiche, cronista lucidissima degli abissi del cuore umano.
“Le vie rimanevano ancora quasi spopolate. Vi s’incontravano solo frotte di ragazzetti mezzi nudi che, insensibili al clima, si davano ai soliti giochi e al chiasso; oltre ai primi scarsi passeggiatori domenicali, ancora istupiditi dalla siesta interrotta anzitempo, e a qualche vagabondo che dormiva buttato in terra all’ombra d’un portone, fra nugoli di mosche. Ancora, sulla città regnava il sonno: soltanto piú tardi, calato il sole disumano, le famiglie, le ragazze a frotte sarebbero uscite agli svaghi della domenica, e incomincerebbero ad apparire i primi ubriachi, familiare spettacolo delle sere festive al sobborgo. Ma in quell’ora prematura, attraverso le vie semideserte nella piena vampa del giorno, un ubriaco aveva l’aria d’uno stralunato pioniere disceso da regioni sideree.
I mille metri di percorso dall’osteria fino a casa furono, è certo, un pellegrinaggio infernale per la fiera Elisa De Salvi.”