Vino fine o fine del vino?
Ricorre in questi giorni l’anniversario della morte di Luigi Veronelli. Sono ormai 15 anni che non c’è più e tanti giustamente a sperticarsi di lodi, omaggi, ricordi, celebrazioni. Veronelli è stato uno scrittore eccelso, un raffinato conoscitore di vini a differenza di molti millantatori e brutti ceffi all’arrembaggio. Maschere grottesche uscite da una Commedia all’Italiana di quelle più nere. Prezzolati che scribacchiano a comando, sbicchierano a scrocco, smarchettano a dritta e a manca. È risaputo ormai il discorso autocelebrativo di tempo fa a una qualche consegna dei soliti certificati da bidet-sommerdiè. Il dottor Balanzone di turno tira fuori una lettera, finge di commuoversi e mima con gesti studiati e tono a lutto: “Ahimè no, non posso leggervela, è troppo…” A suo dire, doveva essere una lettera di Veronelli indirizzata a lui, il Balanzone, ma in molti presenti asseriscono fosse una bolletta della luce.
Celebriamo quindi Veronelli ma rinneghiamo certi veronelliani voraci! Tromboni felliniani sfiatati i quali vantano, con la tipica protervia delle facce-da-culo – leccano sí con la bocca ma sbiascicano col deretano – ostentano d’essere stati suoi allievi mentre intanto si sbrodolano in speculazioni rapaci, s’arrabattano in sviolinate stridenti sulla memoria del loro “caro, amato Maestro che non c’è più”. Un maestro di stile e di understatement Gigi Veronelli, senza dubbio alcuno, che se solo tornasse in vita però, a questi suoi autoproclamati allievi li prenderebbe uno ad uno a randellate sulle terga, i panzoni vanesi, fino a stramazzarli a terra in una scura pozza di sangue e merda.
Veronelli oltretutto negli ultimi anni di vita si è battuto a favore di una giusta causa che è quella delle Denominazioni Comunali, un tema magmatico sulla delicata valorizzazione dei prodotti agricoli dei Comuni italiani che sono ben più localizzate e circostanziate di altre denominazioni a maglie fin troppo larghe e incontrollabili.
Ora, il fenomeno paradossale che sto osservando spesso un po’ ovunque in giro oggi nel mondo del vino all’assaggio nel bicchiere è che tanti, tantissimi vini DOC e DOCG sono solo dei timbri burocratici che nascondono carrozzoni senza ruote anzi spesso, spessissimo rivelano bevande alcoliche smorte, senza personalità, prive di vigore, senza stoffa, né energia.
D’altro canto tanti, tantissimi vini da tavola, vin de garage, vini sfusi, vini e basta invece risultano essere assai gustosi, genuini, ci raccontano con più sciolta schiettezza e molto meglio all’assaggio nel bicchiere la tipicità dei luoghi da cui provengono mostrando la carta d’identità non falsificata di chi li ha fatti, in vigna e in cantina.
Con un’espressione anglosassone che fa molto snob si parla poi di “fine wines” per indicare quei vini più costosi e di lusso. Vini da collezione, vini fini o vini pregiati come sarebbe giusto tradurre. I vini insomma ultrapremiati in tante, troppe guide autoreferenziali dove si tende da decenni con approccio sterile a valorizzare il contenuto di una bottiglia in termini di punteggi, prezzi, competizioni internazionali. Insomma il vino che fa girare l’economia ma fa girare anche le palle perché poi non sono neppure più tanto sicuro si tratti ancora di vino, visto che entriamo d’emblée in campo speculativo e finanziario.
Allora oggigiorno, se anche un oliaccio da supermercato può fregiarsi della parolina-magica Pregiato ne deduciamo con facilità che gli aggettivi i quali dovrebbero determinare qualità, pregio, privilegio, spessore, stoffa del vino, sono giunti definitivamente al capolinea: significano tutto per non significare più niente!
A questo punto tornando al “fine wine” proporrei una traduzione “false friends”, cioè: fine del vino.