«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»
Platone, Apologia di Socrate
Apologia dell’Eugè. Dalla parte di Eugenio Barbieri
Sabato 4 Luglio 2020.
Rivanazzano Terme, la Riva per gli oltrepadani.
Eugè: Hai presente la scena dell’uccisione del maiale in L’Albero degli Zoccoli?
Gae: Si certo! Rivedo un fuoco, la pioggia, i contadini, il freddo, il maiale destinato al suo sacrificio.
Eugè: Se ricordi bene, il maiale si spaventa per il presentimento della fine, allora entra la donna a carezzarlo, a rassicurarlo. Nella civiltà contadina il mestiere di nutrire e custodire il maiale era cura della donna. L’uomo aveva il compito di ammazzarlo. L’etimologia di “destino” non fa riferimento ad alcunché di trascendente; indica il restare fermo, sulle proprie posizioni. Nulla di più immanente!
In macchina con Eugenio Barbieri, dalla stazione di Voghera a Sanguignano, frazione di Montesegale nella valle del torrente Ardivestra, affluente della Staffora. Leggo su Uicchipèdie ‘A ‘ngeglopedije libbere: “Montesegale éte ‘nu comune tagliáne de 319 crestiáne.”
Il frammento di dialogo riportato su riflette in parte il tenore dei discorsi con l’Eugè durante la traversata in macchina. Mi racconta poi di quando faceva salami, e siamo in prossimità di Varzi la patria perduta del salame, anzi no, la patria del salame perduto.
Eugè: Fare un salame serio è molto più complesso che fare un buon vino. Bisogna smontare il porco pezzo a pezzo e ricomporlo chirurgicamente selezionando i tagli appropriati di grasso, muscolo, magro. Ancora oggi quando entro in una cantina l’olfatto mi rileva subito un’indicazione di muffe giuste e se c’è un angolino ideale per affinare i salami.
Si prosegue sull’ordine di questi ragionamenti di cultura materiale relativa ai maiali, alla millenaria civiltà contadina scomparsa quasi del tutto col boom economico. Una civiltà millenaria deturpata per sempre dall’industrializzazione degli anni ’60 del secolo scorso.
Le sere che precedevano l’uccisione del maiale erano punteggiate da notti insonni, visioni febbrili e lacrime. Un’uccisione antica come un mito di popoli senza ancora l’invenzione della scrittura. Un atto di sacrificio consustanziale al ritmo della vita contadina. Una necessità terrestre che rinnova un rito di sangue attinente alla sopravvivenza umana lungo il vortice dei secoli costellati di fame, disperazione e abbondanza.
Eugè: Il gesto feroce del norcino, la sua maestria taciturna si regge tutta nell’impugnatura del coltello, nella presa disinvolta del manico, nella autorità sacrale con cui brandisce la lama.
L’Eugè con parole asciutte e un groppo in gola qua rievocava l’ebbrezza, la sofferenza interiore di quando ammazzava otto, nove maiali l’anno. Il senso di fusione sacrificale del boia con la bestia. Una gioia ebbra intrisa di sofferenza arcaica. Un dolore graffiante pervaso anche di una specie di gioia ravvivata dai cicli cosmici delle stagioni agricole. L’uomo e l’animale. L’animale e l’uomo. L’uomo animale. L’Eugè in questo scambio di battute ritmato anche di pause riflessive, mi si manifesta davanti come un animale uomo in fuga perenne dallo spettro del passato eppure proiettato solo verso il passato, ostile al presente, impassibile rispetto al futuro.
“I sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi (…) è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio. L’uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. (…)Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello nel fianco dell’animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell’addome. Il sangue sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l’uomo rosso non perse tempo: ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l’ovaia e la trasse fuori. L’ovaia delle scrofe è attaccata con un legamento all’intestino: trovata l’ovaia sinistra, si trattava di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita.Il sanaporcelle non tagliò la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e, assicuratosi cosi che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l’intestino, dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate viola e grige, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all’inserzione dell’omento: ce n’era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Finché a un certo punto, attaccata all’intestino, compariva l’altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare il coltello, con uno strattone, l’uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora, e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinanti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L’uomo non si interrompeva. Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l’intestino dentro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d’aria come un pneumatico, stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l’uomo rosso si cavò di bocca, di sotto i gran baffi, l’ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la ferita.”
“Non voglio scappare, non bisogna mai commettere un’ingiustizia nemmeno quando la si riceve.”
Giù in quella cantina a un certo punto ho avuto l’impressione ultraterrena quasi di trovarmi in una di quelle catacombe dove i primi archeologi ad averle disseppellite riportano uno sguardo umano dopo millenni di buio ma tuttavia la loro stessa presenza, il loro respiro in quel sito arcaico, assieme alla luce e all’aria, scatenano anche la disgregazione fatidica davanti ai loro occhi di un affresco straordinario che, impotenti, osservano sparire per sempre sulle pareti, poiché l’affresco era tenuto in vita nella sua integrità proprio dalla chiusura millenaria in quella culla oscura. L’affresco straordinario nel nostro caso era il vino artigianale composto di varie annate, plasmato dalle mani, nella mente, sulla terra dell’Eugè. Racchiuso nel buio in quelle botti, cullato da quello scrigno di polvere, rovina e ragnatele che si dissolveva inarrestabile dentro me, mentre noi, io e l’Eugè, dissolvevamo in esso.
“Teofrasto, il discepolo di Aristotele considerato uno dei padri della botanica antica e della tassonomia, fu autore di uno dei primi trattati di vitivinicoltura e nella sua analisi scientifica sulla fisiologia della pianta e sui metodi di potatura, non manca di puntualizzare la peculiarità tutta greca di tenere le vigne basse.
Plinio distingue l’arbustum gallicum dall’arbustum italicum, rispetto al quale era tenuto un po’ più basso, specificando che i tralci delle viti passavano da un albero, a cui erano maritate, all’altro, formando dei festoni e disponendosi in veri e propri filari. La circostanza, nei dettagli tecnologici dell’impianto viticolo, è confermata da Varrone che, a proposito del territorio attorno a Mediolanum, ne fornisce una descrizione
praticamente uguale. Columella inoltre, propone suggerimenti su come alleggerire il peso dei tralci, nel pieno della maturità dei grappoli, sorreggendoli con appositi paletti. Le fonti si soffermano volentieri anche sul tipo di pianta madre a cui venivano consuetamente maritate le viti. Tra le preferite spiccano l’olmo, l’acero campestre, il frassino e il fico, specialmente a sud del Po, mentre in transpadana si usavano anche il tiglio, il carpino, la quercia e il corniolo. La forma di coltivazione della vite su tutore vivo, cioè il sistema detto “piantata” o “alberata”, è considerata come un’espressione della cultura vitivinicola paleo ligure e celtica nella Padania etruschizzata, in cui fu a lungo un elemento caratterizzante del paesaggio agricolo. È probabilmente a impianti di questo tipo che riconduce la presenza di vigneti, documentata in Emilia nel VII sec. a.C., dove i vinaccioli emersi dallo scavo di Via D’Azeglio a Bologna, per esempio, databili a partire da questo periodo, sono in gran parte attribuibili alla subspecie vinifera.”
Questa invece l’utilità del vino secondo Galeno, medico sommo:
“Tuttavia negli adulti è molto utile per temperare ed evacuare i residui biliari; e lo è non meno contro quella secchezza che si produce negli organi solidi nel vivente a causa di sforzi eccessivi e anche del temperamento proprio di questa età, dal momento che inumidisce e nutre ciò che è eccessivamente disseccato, e inoltre mitiga l’acredine della bile amara e la evacua attraverso il sudore e le urine.
La Salute. De sanitate tuenda – Libro I