Orange Wine come rivoluzione culturale
Le stories, i tag, i post, gli hashtag, gli eventi, le degustazioni, gli assaggi… scappano via veloci tipo ghepardi tramutati in algoritmi dell’era digitale dove quello che ti trovi a pensare a leggere o a scrivere oggi, domani è già preistoria. Non mi riesce proprio d’adattarmi a questa velocità d’espressione che il più delle volte tradisce un enorme, sconfortante vuoto di contenuti. Sembra che per stare sul pezzo delle novità del giorno, come una triste bestia in gabbia devi assecondare il Grande Addestratore nello Zoo dei social che con una mano ti mostra la carota ma con l’altra ti bastona la schiena. Io provo comunque a respirare al mio ritmo. Mi prendo le dovute pause di riflessione, di lettura dei fatti ed eventuale riscrittura con la mia personale versione degli stessi anche a distanza di tempo. Sarò pure anacronistico ma l’esasperazione sul presente (l’onnipresente) quale unica forma di possibilità mi angoscia, m’imbarazza. Allora provo a “guardare avanti per tornare indietro” come diceva Joško Gravner sempre qualche settimana fa a Udine interrogato in merito al suo rapporto col tempo, conversando amabilmente con Corrado Assenza e Trilok Gurtu nell’ambito della XXI edizione di EinProsit 2019.
Orange Wine a Gariga di Podenzano (PC). Giusto un mese fa, verso fine ottobre, ho preso parte a questo evento a cura di Sorgentedelvino con la partecipazione di 50 vignaioli naturali italiani ed europei specializzati in vini “Orange” ottenuti cioè dalla macerazione delle uve bianche, detta anche vinificazione in rosso delle uve a bacca bianca. L’evento è ospitato nei locali de “La Faggiola”, un’azienda agricola sperimentale di fine ottocento corrispettiva all’Osteria dei Fratelli Pavesi che per l’occasione hanno preparato la Bomba di riso alla piacentina con piccione: esplosivo e puro orgasmo gastronomico.
Giallo-dorato, rosato-grigio, aranciato, ambrato, ocra. L’intensità delle sfumature degli Orange possono dipendere da svariati fattori: varietà del vitigno, annata e periodo di vendemmia, durata del contatto sulle bucce, tecnica di vinificazione in anaerobica o aerobica cioè in assenza o in presenza di ossigeno.
Assieme a Barbara Pulliero, Paolo Rusconi e Giovanni Segni, dei 50 produttori presenti abbiamo deciso di fare focus su 6 vignaioli. 6 territori (Marche, Vipavska Dolina, Toscana, Piemonte, Lombardia, Romagna ). 6 vitigni (Bianchello, Ribolla Gialla, Trebbiano, Timorasso, Chardonnay, Albana di Romagna). 6 interpretazioni diverse, costruendo una degustazione pubblica dal titolo esplicativo: 6 gradi di macerazione. Questi i vini presentati:
- Tenuta Cà Sciampagne di Leonardo Cossi. Revoluscion 2016, rifermentato e con ripasso su bucce di annate successive. Bianchello (Urbino)
- JNK di Mervič. Rebula 2012. Ribolla Gialla (Šempas)
- Il Casale di Antonio Giglioli. Trebbiano del 2004, 12 anni d’invecchiamento in botti di castagno (Certaldo)
- Daniele Ricci C.C.C (Come un Cane in Chiesa). Timorasso (Costa Vescovato)
- Nicola Gatta Febo 2017. Chardonnay (Franciacorta)
- Vigne di S.Lorenzo di Filippo Manetti, Menis 2016. Albana da vecchie vigne, lunga macerazione in Qvevri (Campiume – Brisighella)
I vini di Antonio Giglioli, di Daniele Ricci e Filippo Manetti seppur estremizzati nella sostanza, tesi a un’idea di vino ossidativa addirittura, sono stati quelli su cui ho riportato più spesso il naso e la bocca, riscoprendo ad ogni annusata e sorsata qualche particolare in più che me li facevano benvolere: un sorso e una vibrazione sulla schiena, una vibrazione sulla schiena e un sorso. Il tannino in questi vini bianchi macerativi è una spina dorsale drittissima che me li rende allungati ed elastici a un tempo nella deglutizione; sferzanti in bocca. Vini sferici, di autunnale maturità fenolica, di piena croccantezza gastronomica.
Dal pubblico a un certo punto si è alzato un brusio un pò nervosetto che è sbottato nel definitivo: “Ma questo vino è aceto!” da parte di qualcuno dei presenti che si riferiva nello specifico al Febo di Nicola Gatta, Chardonnay affinato in botte scolma per un anno con lievito fior e poi altri 6 mesi in cemento. Una volatile sicuramente colorita oltre il limite, anticonformista. Affascinante però pensare che provenga da un territorio, la Franciacorta, che invece ha fatto del grigiume gustativo e del conformismo enologico la sua chiave commerciale vincente per i propri mercati di riferimento. “Non guasterà certo un po’ d’acetica sperimentale su un panorama di vini territoriali dove la fanno da padrone i diserbi in vigna con le altrettante tonnellate di zucchero in cantina”, ho cercato di argomentare più o meno in questo modo. Sono stati alcuni minuti di tensione che potevano sfociare facilmente nella rissa ideologica o nelle minacce fisiche vere e proprie come vediamo accadere spesso sui social – basta Facebook, menàmose – ma con Giovanni siamo riusciti a gestirla tuttavia con buona diplomazia, propensione al dialogo civile e attitudine conciliatoria che non vuol dire per forza democristiana. Io mi sono limitato poi a ricordare Paul Old de Le Clos Perdus il quale dice: “Fare grandi vini è flirtare con i difetti.“La ricchezza microbiologica, la complessità aromatica di un vino bianco è tutta nelle sue bucce. Le differenze tra un vino macerato e l’altro sono invece definite dal carattere del vignaiolo, dalla caratteristica del vitigno, dalla matrice dei suoli, – carattere/caratteristica/matrice – armonizzate dallo stile di vinificazione adottato da ognuno dei produttori in base al proprio gusto personale e alla loro specifica visione della vita, della vigna e del mondo.
Succoso, ricco di fibre, energetico, nutritivo, sono alcuni degli aggettivi che mi salgono spontanei al palato assaggiando certi bianchi macerati in contrapposizione ad adulterato, asettico, sfibrato, mediocre, indigesto, a cui penso solo mettendo occhi e naso su certi liquidi idroalcolici bianchi o sbiancati dalla farmaco-enologia ufficiale spacciati pure per “bianchi di pregio”. In alcuni casi posso pure concordare con quanti criticano aspramente questi vini “Orange”, adducendo che il lungo contatto sulle bucce tenda ad omologare e a far sembrare tutti i macerati uguali tra loro, spazzando via in un colpo solo vignaiolo, vitigno e territorio.
Eppure alla fin fine secondo me il problema non è tanto relativo alla tecnica di vinificazione perché se basta una macerazione prolungata a farlo sparire come dicono in molti, evidentemente dietro al vino non c’era nessun vignaiolo e c’era forse qualche vitigno inadeguato da un territorio niente affatto vocato o comunque interpretato senza scrupolo. Come sempre, nel vino, nella letteratura, nell’arte, nell’artigianato, quel che fa la differenze è lo stile, il manico, la visione del vignaiolo, dello scrittore, dell’artigiano o dell’artista e non le scimmiottature dei grandi modelli, le riproposizioni fiacche di cliché triti, le imitazioni enologiche fatte tanto per fare bottega o per seguire mode idiote, per fotocopiare protocolli di cantina sterili, per falsificare tendenze di mercato vacue e obsolete.
Il libro di Simon J. Woolf, Amber Revolution, presentato dall’autore a Orange Wine lo scorso anno, meriterebbe di essere tradotto in italiano.
Leggiamo qui una centrata osservazione di Simon sulla tecnica di macerazione del bianco, dove fa notare che se questa speciale tipologia di vini resiste ancora alla omologazione della produzione di massa è solo perché è sicuramente più difficile realizzare dei buoni macerati. I macerati richiedono più tempo di lavorazione, più talento, più stile, “manico” e pazienza. Anche se si cominciano qua e là a intravedere negli scaffali della GDO (Grande Distribuzione Organizzata) alla sezione merceologica dedicata: ORANGE WINE.
Neppure un mese fa mi trovavo a passeggiare lungo i vasti corridoi del Museo Nacional del Prado dove ho trascorso dieci ore filate in un giorno solo – dall’apertura alla chiusura – per assorbire con quanta più intensità possibile lo spirito del luogo, in quei pochi giorni che ero di trasferta a Madrid. Qui sono incappato su Luis Egidio Meléndez (1716-1780) pittore spagnolo di nature morte vivissime, illustrate nei minimi dettagli con assoluto approccio scientifico. In Meléndez ho potuto osservare che in un’altra civiltà pre-tecnologica ed archeo-enologica, il vino bianco in verità è ambrato o “orange” che dir si voglia ed è quindi sempre stato così per millenni, fino a noi, la civiltà post-industriale dove l’abuso di filtrazioni sterili e chiarifiche tracotanti, sbiancano senz’altro, “purificano” sì i vini, ma a rischio di renderli troppo trasparenti, giallo-paglierini, sterili, piatti, puliti e perfettini… ottimi insomma per darli ar gatto o ar sorcio, come il celebre latte di Sordi in Un Americano a Roma di Steno.