Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.
Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.
Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.
A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.
A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”
Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.
Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.
Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.
Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”
Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.
Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.
Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.
All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.
Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.
Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.