Morta nel silenzio dell’ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido che l’avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea come un essere nuovo. Se il grano non muore non fa frutto. La morte del seme è la vita della pianta. E proprio la pianta, unico essere della natura che sia insieme silenzioso e animato, si offre a noi come l’immagine più consona di ciò che accompagna le pause dopo la lettura. Silenziosa e piena di vita, la pianta fa uscire dal seno del seme la foglia, e il fiore che si esibisce in un trionfo di forme e colore, e il frutto generoso di succhi e dolcezze.
Tale è la parola meditata dopo esser stata letta.
Grandi silenzi e vuoti traboccanti
Le Grand Silence (Die große Stille) è il titolo di un bellissimo film-documentario di Philip Gröning uscito nel 2005 che riprende in dettaglio la vita quotidiana di una comunità di monaci Certosini nel monastero della Grande Chartreuse sulle Alpi francesi attorno a Grenoble. I monaci trascorrono la loro esistenza senza parlare, se non durante le preghiere e i riti religiosi, per rispettare il voto del silenzio in aderenza al richiamo interiore della loro vocazione: i grandi silenzi con cui è mescolata in origine la nostra psiche, le nostre viscere.
“Da qualche parte in Umbria”, a Parrano vicino Fabro in provincia di Terni, immerso nella Riserva della Biosfera (Unesco) c’è questo eremo laico, l’Eremito, sorto da un rudere del ‘300 e dalla visione del suo ideatore Marcello Murzilli. È un hotel austero improntato al lusso dell’essenziale, forgiato al fuoco sacro interiore di chi lo ha concepito che ha cavato ispirazione dai monasteri medioevali radicati nella quiete del paesaggio campestre, nella fuga dalla frenesia del quotidiano, lontano dal caos del mondo. In questo hotel monastico ho passato lo scorso fine settimana grazie a un ritiro organizzato dalla scuola Ashtanga Yoga di via Annia a Roma, per un paio di giorni focalizzati sulla pratica dell’Ashtanga yoga, sessione di approfondimento sui rudimenti della respirazione Pranayama e della meditazione trataka. Immersi nella fusione degli elementi originari proprio come quelli radiografati dai presocratici, i primi filosofi-scienziati occidentali che studiavano la natura osservando in dettaglio i processi fisici e metafisici che costituiscono l’universo: Aria, Acqua, Terra, Fuoco.
La colazione e il pranzo si svolgono all’aperto sotto un pergolato d’uva fragola che affaccia su una vallata di boschi incantati che richiama gli scenari incontaminati dei pellegrinaggi di San Francesco. Le cene sono servite nel refettorio al lume di candela rispettando il più assoluto silenzio con l’accompagnamento sonoro lieve di canti gregoriani sullo sfondo. In silenzio senza la costrizione di comunicare a tutti i costi col vicino per quanto possano essere interessanti le cose di cui parlare, suscita una riflessione necessaria sulle sale dei ristoranti inondate dal rumore di fondo inesorabile delle chiacchiere vuote a perdere, dei pettegolezzi logorroici, delle ciarle autocelebrative, delle mille cazzate con cui sprechiamo il nostro tempo e inondiamo lo spazio, dei monologhi insensati vorticosi con cui ci illudiamo di colmare le voragini delle nostre vite e di quelle altrui.
“Al massimo si riusciva a sentire il suono del proprio respiro… Perché la paura più grande è una sola e sempre quella: iniziare a pensare.”
Durante una breve pausa in attesa che la vellutata di zucca si stemperi un po’, una sera Marcello legge al buio aiutandosi col lumino di una candela. Dice in maniera vaga che sono parole lasciate da un monaco senza specificare ulteriormente, anche se ho il sospetto siano meditazioni ponderate, maturate nell’esperienza di anni, scritte di suo pugno ma che immagino non ha voluto svilire con l’ego della propria firma o macchiare con il peccato originale del possesso, questo vizio umano troppo umano dell’identità, la piaga dell’appartenenza. Sergio il fratello di Marcello, si occupa della cucina. Una cucina essenziale di matrice vegetariana semplice e di sostanza approvvigionata dall’orto piantato a corollario dell’Eremito. Un menu autarchico elaborato a partire da tanti ricettari recuperati dai loro viaggi per monasteri in giro per il mondo. Da quest’anno mi racconta Marcello hanno cominciato a fare anche il vino, sono solo pochi filari e ne verranno fuori una settantina di litri, ad uso degli abitanti stabili dell’Eremito e di qualche fortunato o malcapitato questo Marcello ancora non può appurarlo finché non assaggerà il prodotto finito che comunque “è fatto nella maniera più naturale, senza aggiungere schifezze in campagna né in cantina.”
A complemento della pratica Ashtanga Yoga focalizzata alla pulizia interiore come insegnato dalla tradizione del guru Pattabhi Jois, in una bellissima shala che affaccia sulla vallata verde, si possono fare percorsi altrettanto purificanti nei boschi che portano lungo il fiume Chiani o approdare a una cascatella d’acqua sorgiva sotterranea nel torrente Migliare dove ci si fa un bagno in acque ghiacciate. Un tuffo iniziatico che toglie il respiro mentre fortifica le membra e scalda la mente più predisposta alla riunificazione col corpo.A proposito del peccato originale del possesso e del vizio umano troppo umano dell’identità e dell’appartenenza abituati come siamo ad abusare dei pronomi personali e possessivi “io” e “mio”, questo intenso fine settimana di ritiro mi ha offerto l’occasione di conoscere Marco www.conscium.it, creatore di “specchi metafisici”, anzi “creatore di Lune”. Marco è un alchimista medioevale del XXI secolo che plasma luci e ombre del mondo nel riflesso allo specchio. Gli specchi costruiti da Marco, ispirati a viaggi alla ricerca del Se sul Monte Ararat nell’Ağrı, terra di nessuno tra Armenia e Iran, proiettano il visibile nell’invisibile marchiati nelle dissolvenze della materia attraverso l’eterno presente della nostra memoria spirituale: riflesso infinito, mantra d’ombre luminose, radice dell’inconscioMarco è un visionario della meditazione trascendente che traffica con acqua di fonte, imprime sali minerali su lastre di vetro, scandisce le pulsazioni cosmiche del vuoto Zen coordinate dal magnetismo lunare, allineati al rito naturale dell’Essere che ci riempie dal momento in cui ci svuotiamo di noi stessi e di tutto l’armamentario delle nostre abitudini obbligate, paure ataviche, condizionamenti sociali, tic comportamentali e false credenze. Un vuoto sacro pulviscolare che ci libera da noi stessi, abbandonando il fardello opprimente dell’Io. Un sacro vuoto che ci salva dal peso delle brame possessive d’appartenere a qualcuno o a qualcosa e cominciamo finalmente ad esistere in quanto riflesso del vuoto in divenire, a perderci per ritrovarci. Davanti agli specchi lunari di Marco, la contemplazione associata allo sguardo e al respiro, stimola a ritrovarsi per perdersi di nuovo in un flusso liberatorio ininterrotto di gioie e angosce, presenze e assenze, vuoti di dolore e pieni di vita.