The Square e la bêtise humaine
The Square (2017) del regista svedese Ruben Östlund, di base non mi è sembrato un film troppo disonesto che di questi tempi è già tanto. A volergli trovargli un riferimento ad altro cinema contemporaneo direi che per un certo senso di tensione strisciante e angoscia innominabile richiama Michael Haneke. Certo sono passati quasi 20 anni da Cachè (Niente da nascondere – 2005), e poi insomma l’esibizionismo velleitario di Östlund, quel suo divagare sciatto alla Von Trier sono spazzati via dalla profondità di sguardo, dalla ferrea etica anti-commerciale di Haneke.
Riguardo ad esempio il tema inesauribile ricchi-poveri, laddove Haneke affronta le scene con lucida freddezza e rigore morale a dir poco disturbanti, ossessivo sul significato ultimo del guardare e dell’essere guardati, The Square mi pare assai superficiale, ostentato, tutto fin troppo mostrato in platea, didascalico. Le banalità espresse sull’arte concettuale sono tipiche di chi ne discute da bar in maniera naïf e pretestuosa, senza esserne veramente coinvolti dal di dentro. E poi l’insistenza programmatica su quel: “Il quadrato è un santuario al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri” mi sa tanto di moralismo opportunista che vorrebbe sensibilizzare gli spettatori sul fatto che lo stesso schermo del cinema è un quadrato, perdio che trovata di genio!
È palesemente un film a tesi con un buon soggetto ma con una sceneggiatura sfibrata dai simbolismi sciatti che pretendono essere intellettuali/surrealisti à la Buñuel (la scimmia in casa della giornalista americana? bah!). Per tacere dei dialoghi imbarazzanti, agli eventi in sé privi di coerenza interna: lui che viene derubato di portafoglio e cellulare in mezzo a tutta quella folla di gente, con la presunta pazza inseguita che urla a quel modo senza che la polizia si allarmi? Ancora, ma se tramite la localizzazione satelittare sanno dove si trovano quelli che hanno rubato il cellulare secondo quale logica il protagonista del film si avventura nella palazzina alla periferia della città a imbucare lettere di minaccia a tutti i condomini piuttosto che affidare l’investigazione alla polizia? Insomma senza stare qui a fare le pulci ad una sceneggiatura inconsistente, tutto il pacchetto mi pare un po’ raffazzonato con evidente sciatteria solo per dare valore alla “tesi” di fondo che l’uomo è malvagio e l’arte non riflette la vita? Mi pare troppo poco e tanto pretestuoso da farne un film di 2 ore e mezza. E a proposito di simboli sciatti, i poveri e i ricchi sono abbozzati come i disegni dei bambini, idealizzati quali manichini senz’anima né vita propria. Poveri di maniera perché utili a dimostrare la tesi a tavolino del regista e dei produttori, una tesi tutto sommato da ricchi imbolsiti, rassicurante, goffa e a lieto fine.
La scena della cena di gala con la bestia umana – un grande Terry Notary – lasciata libera tra i tavoli è degna di nota per un senso di inesplicabile, di potente angoscia e strazio emotivo ma poi a pensarci bene è del tutto appiccicata a caso al film, ancora una volta solo per “dimostrare” la sua scialba tesi di fondo.
I film a tesi hanno questa debolezza alla base che se non hai idee cinematografiche forti non basta un’idea, pure buona, a farne un buon film. Certo è un film che riflette in qualche maniera lo spirito dei tempi: la cattiveria, l’uso iperbolico della violenza per suscitare seguito sui social-media, l’ipocrisia dei ricchi e potenti. Significativo lui il protagonista che prova il discorso scritto in bagno anche quando fa a meno del foglio perché troppo formale, dunque anche la spontaneità è costruita a effetto, recitata ad hoc.
Il film ha vinto a Cannes nella gala del cinema con gli stessi commensali in sala che ridacchiavano, si “spaventavano”, applaudivano e celebravano quella bestialità esotica scappata dalla gabbia del circo, fino poi a scatenare la propria ferocia tanto da ammazzare l’animale umano. Ma in fondo non è la solita bêtise humaine che ha fatto premiare il film? La stupidità ambiziosa del giudicare e far vincere i premi. La velleità della carriera soprattutto quella rientra nella tesi finale di questo pretenzioso “film sull’arte” che fin dall’inizio è stato scritto e girato appunto per vincere la Palma di Cannes più che per tentare di fare un “film d’arte”.
The Square alla fine della fiera solletica dove pretende di dare cazzotti. Carezza più che graffiare. Sbaciucchia invece di mordere.
Ho iniziato la recensione dicendo che non è un film del tutto disonesto, però ha suscitato in me più rabbia che soddisfazione come in genere mi capita davanti a creazioni dell’intelletto di poca o malsicura onestà intellettuale. Rabbia per un’occasione persa soprattutto per il regista, anche se immagino che per il regista-sceneggiatore è proprio l’occasione della vita visto che gli ha fruttato il trionfo mondiale della Palme d‘or à Cannes. Ma a questo punto potremmo tranquillamente ritorcere contro il regista la scritta a neon di una delle installazioni artistiche mostrate nel film: YOU HAVE NOTHING (NON HAI NIENTE).